ITALIA

Geografie della vergogna: segregazione e discriminazione etnica dei rom in Italia

Investimenti pubblici sbagliati, sgomberi forzati, discorsi d’odio, violenze etniche, emergenze abitative. Sono gli effetti delle politiche istituzionali messe in atto nei confronti di rom e sinti. A raccontarlo è il rapporto annuale dell’Associazione 21 Luglio. 

Cartografie di una discriminazione etnica. È il paese dei campi rom, l’Italia. Il Paese in Europa che “ospita” nei campi informali il maggior numero di persone di origine rom e sinti. A raccontare quella che è una vera e propria cartografia della discriminazione etnica, è il rapporto annuale redatto dall’Associazione 21 luglio, con il sostegno della Commissione parlamentare per la promozione e la tutela dei diritti umani presieduta fino al 23 marzo scorso da Luigi Manconi. A leggere le 90 pagine del rapporto presentato giovedì nella Biblioteca del Senato, ne viene fuori una geografia della vergogna. Con numeri da segregazione etnica di massa. Sono 148 le baraccopoli formali. Distribuite in 87 comuni di 16 regioni italiane, per un totale di 16400 persone, dunque, che vivono nei campi autorizzati, in quelli formali, appunto. Quasi diecimila, invece, sono le persone che vivono nelle baraccopoli informali, senza nessun servizio, o nei campi di raccolta mono etnici.

L’unica emergenza è quella abitativa, così, per ventiseimila persone di origine rom e sinta. Il 43% di loro ha la cittadinanza italiana; ma dei loro connazionali è stato calcolato che abbiano un aspettativa di vita inferiore di dieci anni. Tra gli abitanti delle baraccopoli, più di novemila sono i profughi di etnia slava, considerati apolidi dopo la dissoluzione dell’ex Jugoslavia.

Vergogna Capitale Roma è sempre la città con il maggior numero di persone di origine rom in emergenza abitativa, e detiene un vero e proprio record, il 27% dell’intera cifra totale nazionale. Nella Capitale esistono diciassette insediamenti formali e circa 300 sono gli spazi informali. « È una mappa della vergogna », la definiscono dalla 21 Luglio. Il presidente dell’Associazione, Carlo Stasolla dice che « le politiche finora adottate non hanno prodotto alcun processo di inclusione. E che «serve un  coordinamento a livello nazionale per attuare politiche di desegregazione abitativa». Già, perché se è vero che Roma detiene il triste primato della segregazione, è pur vero che altre metropoli come Torino e Milano la seguono a ruota. Non solo.                                                                        

La segregazione è ovunque da Nord a Sud Nel rapporto c’è la conferma che situazioni di forte segregazione esistono un po’ovunque. In un minuscolo borgo di campagna che si trova a Foggia, Borgo Mezzanone, durante le estati, nel periodo della raccolta degli ortaggi, ci arrivavano a vivere, senza acqua né luce, 800 persone rom di nazionalità bulgara, condividendo precarietà abitativa e sfruttamento lavorativo. « Il ghetto bulgaro » è stato definito. Quando un violento incendio scoppiato nel dicembre 2016 provocò la morte di un ragazzo e la distruzione di 50 “abitazioni”, il Comune di Foggia ne deliberò lo sgombero. Si passò dalle delibere ai fatti quando il 20 luglio del 2017 lo sgombero fu effettuato, senza alcuna offerta di soluzioni abitative alternative adeguate. Ora il ghetto si è soltanto spostato soltanto un po’ più in là. Perché casolari fatiscenti da quelle parti se ne trovano abbastanza per ospitare gli “stagionali”, se disposti a vivere in condizioni strutturali di estrema fatiscenza e in mancanza dei servizi igienici minimi ed essenziali, si intende. La segregazione, perlomeno quella abitativa, è presente, dunque, da Nord a Sud, senza particolari differenze tra i territori. Anzi. Sono tanti i tratti comuni di chi ci vive, nelle diverse baraccopoli. La metà sono minorenni ed hanno già subito, a causa della loro condizione abitativa, ripercussioni sulla salute psico – fisica e sul loro percorso scolastico. Si legge ancora nel rapporto: «Sui livelli di scolarizzazione contribuiscono in modo significativo sia le condizioni abitative sia la forte catena di vulnerabilità innescata dagli sgomberi forzati, attuati, peraltro, in assenza delle necessarie garanzie previste in questi casi dai diversi Comitati delle Nazioni Unite». L’Associazione 21 Luglio ha individuato, nel corso di tutto l’anno 2017, duecentotrenta casi di sgomberi forzati. La maglia nera delle violazioni, manco a dirlo, spetta alla città di Roma. Secondo l’Associazione: « non è stata mai registrata, nel corso del 2017, una piena conformità tra le azioni di sgombero condotte nei confronti delle comunità rom dalle autorità capitoline e le appropriate garanzie procedurali previste ».   

Roma Capitale degli sgomberi forzati. Dagli insediamenti informali sorti nei pressi della Via Tiburtina a quelli nati lungo i viadotti nelle zone della Magliana e della stazione Ostiense, o nelle borgate di Torre Maura e Tor Bella Monaca, e ancora nei pressi di Villa Gordiani nel quartiere di Centocelle, oppure a due passi dallo stadio Olimpico sotto il ponte Duca D’Aosta, la ruspa è entrata in azione, nel corso di tutto il 2017, per ben 33 volte. L’ultima risale al 18 dicembre del 2017, quando c’è stato lo sgombero che ha coinvolto in assoluto il maggior numero di persone. Lontano dai riflettori, infatti, in via Newton, nel Municipio XI, le forze dell’ordine quel giorno hanno abbattuto quaranta abitazioni che erano state realizzate con materiale di risulta; l’unica forma abitativa di cui potevano disporre numerosi bambini, che da quel momento in poi hanno visto le loro case distrutte e sono stati costretti con le loro famiglie a realizzare altrove alloggi di fortuna. È la politica della ruspa, verrebbe parafrasando il titolo di un pamphlet uscito qualche tempo fa, ora attuale più che mai.                                                                                     

La sindaca aveva un piano. È il 31 Maggio 2017 quando la sindaca di Roma, Virginia Raggi, insieme all’assessora alla Comunità solidale, Laura Baldassarre presentano ilPiano di Indirizzo di Roma capitale per l’Inclusione delle Popolazioni Rom, Sinti e Caminanti  Un piano suddiviso in quattro elementi chiave, spiegavano gli amministratori: « scolarizzazione, formazione, questione abitativa, salute ». Un progetto destinato da subito a fallire, come infatti racconteranno le cronache di qualche mese dopo. Il caso dell’insediamento in via della Tenuta Piccirilli, periferia nord, è emblematico, in questo senso. Il Camping River doveva essere – secondo il Piano redatto dall’amministrazione capitolina – la prima baraccopoli da chiudere. Così è stato, ufficialmente dal 30 settembre scorso. Solo che a distanza di otto mesi, molte famiglie con i bambini piccoli “abitano” ancora da quelle parti, con la baraccopoli che in sostanza da formale è divenuta informale, abusiva, con l’acqua  potabile che è venuta a mancare da ottobre, e con « i bambini che hanno smesso di andare a scuola », hanno raccontato gli operatori di Isola Verde Onlus, la cooperativa che ha gestito il campo fino alla chiusura ufficiale avvenuta il 30 settembre scorso. Oggi Carlo Stasolla, presidente della 21 Luglio, introducendo il rapporto ribadisce che « le azioni promosse dalla giunta capitolina hanno mostrato le loro fragilità ». E punta il dito anche sulla gara d’appalto per il superamento dei campi de La Barbuta e Monachina « che ha rivelato tutte le criticità di un Piano che evidentemente necessita di importanti correzioni », dice ancora – concludendo – Stasolla.                                                                             

Crimini e discorsi d’odio. La scure dell’Europa sulla situazione italiana. Quel che è peggio è che indubbiamente esiste una connessione diretta tra le politiche pubbliche discriminatorie e segregative, e i discorsi di odio rivolti alle comunità rom, che, soprattutto durante l’ultima campagna elettorale hanno subito un’impennata in termini di numeri e di intensità. Sfociando sovente in episodi di violenza. Nel corso del 2017 in Italia se ne sono registrati diversi e anche se nella maggior parte dei casi le indagini per individuare i responsabili sono ancora in corso, è un crimine d’odio etnico, ad esempio, quello accaduto l’1 luglio del 2017, ad Acilia, popoloso comune a sud di Roma, dove una una ragazza di origine serba di 14 anni residente in una baraccopoli della zona è stata aggredita con una mazza ferrata mentre passeggiava con altri due coetanei. È un fatto caratterizzato da inaudito e violento odio razziale anche quello accaduto a Torino il 6 giugno dello scorso anno, quando un centinaio di persone sfilarono di fronte all’aeroporto di Caselle, nei pressi di un insediamento rom, agitando e poi gettando numerose fiaccole accese in direzione delle abitazioni al grido di «Vi uccidiamo, animali», con i vigili del fuoco che erano accorsi per spegnere il rogo nel frattempo divampato, a cui è stato impedito per diversi minuti, da esponenti locali di Forza Nuova, di accedere all’insediamento. Non meno gravi degli atti di violenza sono i linguaggi dell’odio, le frasi e i discorsi che incitano alla discriminazione, specie se sono pronunciate da chi detiene cariche pubbliche. Come Ivan Boccali, consigliere del Comune di Ciampino con il Movimento civico “Gente Libera”, che sul proprio profilo pubblico Facebook, lo scorso 26 maggio, in relazione ad un rogo avvenuto presso l’insediamento formale di La Barbuta, scriveva così: «Roma Sud e Castelli Romani sono ostaggi di questi selvaggi, primitivi, balordi. La politica buonista dell’integrazione ha fallito. Per quel campo nomadi l’unica soluzione è il Napalm». Sempre su Facebook, Massimo Gnagnarini, assessore al bilancio del Comune di Orvieto con la Lista civica “Per andare avanti”, scriveva che «C’aveva provato anche zio Adolf a prendere qualche rimedio, politicamente scorrettissimo, ma non gli è riuscito neanche a lui». Ma non sono soltanto i politici locali o la gente comune sui social network ad incitare all’odio etnico. Il dieci novembre dello scorso anno, ad esempio, il giornalista ultraconservatore Filippo Facci, commentando durante la trasmissione televisiva Matrix il report della Libe ( la Commissione sulle libertà civili, la giustizia e gli affari interni del Parlamento Europeo) sul contrasto all’antigitanismo, poteva affermare «I Rom, prendendolo come termine generale, per come si pensano culturalmente non devono e non possono più esistere. Voglio dire che queste persone non devono più esistere come tali, come cultura, non è più possibile ». La Libe, comunque, non è l’unica istituzione dell’Unione Europea che ha censurato ciò che accade in Italia nei confronti delle comunità di origine rom. Un’altra agenzia dell’Unione che vigila sul rispetto dei diritti umani negli stati membri, la Fundamental Rights Agency (Fra) ha sottolineato in un suo recente rapporto « l’ubicazione in spazi al di sotto degli standard internazionali, la segregazione abitativa, gli sgomberi forzati sono una costante per i rom che vivono in Italia ».