CULT

Franco Battiato, sequenze e frequenze di un “ribelle” del pop

È scomparso oggi all’età di 76 anni il cantautore siciliano, dopo una lunga carriera musicale fra sperimentalismi elettronici, pop filosofico, incursioni nella musica esatta. Sonorità divertite e orecchiabili, che hanno però sempre avuto anche un lato più umbratile e intimamente “politico”

Si è come messi fra due fuochi nell’apprendere della scomparsa di Franco Battiato. Il “Maestro” è stato un poeta della musica leggera, un alchimista di parole, suoni e stili, che ha saputo esprimere – nel suo lungo e variegato percorso – una “mistica della canzone” multiforme e potente; d’altra parte, alcuni vedono nell’elevatezza dei suoi testi, negli accenti più trascendenti e (talvolta) addirittura più “filosofici” dei suoi brani, una sorta di bluff calcolato, un meccanismo di specchietti per le allodole che ambiva al consenso presso il “grande pubblico”. Un’operazione commerciale, insomma, travestita da sperimentazione colta.

Forse Battiato ha incarnato, precisamente, questa ambivalenza. Anche negli episodi più ostici e volutamente complicati della sua carriera (come la trilogia di opere liriche contemporanee Genesi, Gilgamesh, Messa Arcaica), il cantautore siciliano è sempre riuscito a frapporre una sorta di distanza fra sé e le sue creazioni, fra il senso letterale dei brani da lui firmati e l’atmosfera più generale evocata dalle sonorità suadenti e ambigue.

Una distanza che in tanti hanno chiamato, giustamente, “auto-ironia”. D’altronde, l’apice del successo arriva con la svolta stilistica de La voce del padrone del 1981, ovvero proprio in parallelo all’ingresso del nostro paese in quell’età del “riflusso” e del disimpegno (politico? esistenziale? artistico?) che così profondamente segnerà anche le estetiche in vari campi della società.

Contrariamente a tanti altri suoi colleghi (e sotto questo aspetto, in maniera certamente più coraggiosa), Battiato decide di non rifiutare tali estetiche, magari con sdegno da “intellettuale impegnato”. Anzi, proverà a rielaborarle secondo i principi di un gusto della composizione unico, immediato e di facile ascolto da una parte, ma anche stratificato e pieno di citazioni e di imprevedibili rimandi culturali. In un certo senso, l’autore di Centro di gravità permanente, Voglio Vederti Danzare, L’era del cinghiale bianco, proverà a porsi dentro e contro lo spirito del tempo, ammiccando a stilemi e retoriche che iniziavano ad andare per la maggiore, ma riuscendo a mantenere un approccio eccentrico e sempre “sopra le righe” che, in quanto tale, lasciava intravvedere diverse possibilità, altri mondi sotto le superfici più levigate… Poi, forse, le “spiagge solitarie” cominciarono a diventare sin troppo affollate.

Non dimentichiamoci, però, che a questa svolta il cantautore siciliano arriva dopo un decennio di sperimentazioni elettroniche e musicali “vere” (vincitore del premio Stockhausen per L’egitto prima delle sabbie) e di frequentazione degli ambienti della contestazione giovanile degli anni ‘70 (memorabili i suoi primi concerti al Festival del Re Nudo al Parco Lambro). Prima di “rinnegarli” in favore di un misticismo un po’ di maniera, il cantautore siciliano si nutre anche di marxismo e post-strutturalismo, assorbe insomma pensieri parole e desideri gonfi di rabbia politica, sensazioni da “pugni in tasca”.

«Non hai forza per tentare di cambiare il tuo avvenire / per paura di scoprire libertà che non vuoi avere» (1972) e «Le barricate in piazza le fai per conto della borghesia / che crea falsi miti di progresso» (1980) sono pur sempre versi di Battiato…

Ma, appunto, gli esiti più interessanti si avranno appena dopo, quanto l’istinto di contestazione si salda a un’attitudine maggiormente ludica e giocosa, al pastiche (auto-)citazionista… Franco Battiato è stato, a suo modo, un “sopravvissuto”: è riuscito ad attraversare il periodo del There is No Alternative provando a cercare, con caparbia maestria e poliedrica inventiva, un principio d’emancipazione nel “pop” più smaccato, un’ipotesi di sospetto pur dentro la perfetta trasparenza (e ballabilità) di suoni e testo.

Insomma, la sua musica divertita e orecchiabile ha sempre avuto un “lato di penombra”, un pungolo di inquietudine anche nei ritmi più spensierati. In questo senso – e compiendo un azzardo filologico – la sua traiettoria lambisce il percorso di chi, proprio in quegli anni, cercava di lavorare su toni analoghi, di esprimere il dissenso dentro dimensioni maggiormente private ed esistenziali.

Sono gli anni infatti della prosa rarefatta e lancinante di Pier Vittorio Tondelli, della fotografia metafisica e sospesa di un Ghirri, del “biografismo spericolato” di altri cantanti, diversi da Battiato ma legati da un filo comune: tutti autori che hanno cantato e raccontato la nuova società di massa – la vacanza, la televisione, il divertimento da “eterna domenica” – standoci dentro con tutt’e due i piedi, ma al tempo stesso provando ed esprimendo nei suoi confronti un forte, e politico, spaesamento. L’ossimorico «mare d’inverno» come traccia e segno di un «sentimento nuevo», che andava nascendo in quel periodo…

Dentro questa linea, forse, si può leggere anche quello che fu uno dei maggiori meriti del Battiato “produttore” e “autore”: l’aver dato forza all’“erotismo dissidente” di Giuni Russo, una delle voci più anticonformiste e potenti del Novecento italiano.

Il “Maestro” ha dunque operato sul versante della forma-canzone ciò che altri, magari più esplicitamente, andavano cercando in “precipitati letterari” di stampo diaristico, nelle narrazioni iperboliche e impressionistiche del proprio vissuto: una visione più obliqua delle cose, una tensione in fin dei conti “ribelle”, benché ancora informe e ambigua. «Trovare l’alba dentro l’imbrunire», come cantava in Prospettiva Nevsky e come stanno ripetendo tante e tanti in queste ore. A ogni modo, la sintesi perfetta l’aveva già trovata lui.

Immagine di copertina da commons.wikimedia.org