OPINIONI

Fra necessità e privilegio. Il ritorno degli italiani all’estero ai tempi del virus

In questo momento, i membri le comunità di italiani e italiane all’estero si stanno chiedendo se rimanere nel paese dove si trovano per motivi di lavoro, studio, etc. oppure far rientro. Una domanda che già sottointende un privilegio e che spinge a ripensare la mobilità internazionale.

Domenica pomeriggio sono salito su un aereo in partenza da Columbus (Ohio), dove vivo e lavoro, per arrivare in Italia la mattina dopo, diretto subito in quarantena. Un viaggio surreale, diviso tra una prima parte uguale a tanti altri viaggi, con aeroporti forse un po’ meno affollati – nonostante l’Ohio si sia mosso meglio e prima degli altri stati degli USA e a New York il virus sia molto più che un’ipotesi – e una seconda parte invece spettrale, con Fiumicino mezzo deserto, l’aeroporto di Pisa quasi senza voli, e i trasporti di terra garantiti ma meno frequenti, guardandoci tutti con sospetto e mantenendo (nella maggior parte dei casi) le dovute distanze.

La comunità di italiane e italiani all’estero (lavoratori, studenti, ma anche pensionati) cresce esponenzialmente ogni anno e, come me, tantissime altre persone stanno facendo rientro dall’estero. Tanto che da ieri è in vigore un decreto ministeriale che impone a chi rientra da qualunque luogo le due settimane di quarantena e di «comunicare immediatamente il proprio ingresso in Italia al Dipartimento di prevenzione dell’azienda sanitaria competente per territorio». Chiunque di noi si sia trovato all’estero nelle ultime settimane – escluse Cina, Corea del Sud e altri luoghi dove il virus è arrivato prima o contemporaneamente all’Italia – ha vissuto in maniera sconnessa: da una parte le notizie che arrivavano dall’Italia, dall’altra la vita che apparentemente andava avanti come se nulla fosse o quasi. Con il rischio quindi di sentirsi dei pazzi che vanno in giro gridando: l’apocalisse è vicina, riparatevi!

Partire o restare quindi? È una domanda che porta con sé, nel suo esistere, un quid di privilegio: già potersela fare vuol dire sapere di potersene andare senza essere licenziati, vuol dire trovare eventualmente in Italia una situazione di isolamento accettabile, vuol dire potersi garantire una mobilità sia economica che sociale non appannaggio di tutte e tutti.

È una domanda che comunque riguarda moltissimi studenti, liberi professionisti, insegnanti di ordine e grado le cui scuole e università in varie parti del mondo sono state chiuse o sono passate all’e-learning, e altre categorie professionali abilitate a lavorare online. È una domanda a cui contribuisce anche il paese di partenza: difficile andarsene dal Regno Unito, dove la vita fino a pochissimo fa continuava come nulla fosse, mentre sono tornati già da un pezzo gli italiani dalle zone più colpite della Cina. I voli da Londra sono schizzati a prezzi assurdi e sono pieni fino ai primi di aprile, anche se il ministro degli esteri Di Maio ha garantito il rientro a tutti. Bisogna infatti orientarsi in una situazione legislativa che in tempi di emergenza è confusa e in evoluzione, non aiutata dalle comunicazioni non sempre uniformi dei media. È vero per esempio che Trump ha chiuso le frontiere? Tecnicamente no, solo che dall’Europa non si può arrivare in USA. Gli aerei dagli USA per l’Italia viaggiano, seppur ridottissimi e solo Alitalia, che pure li garantisce anche da molte altre zone del mondo (qui una lista di voli speciali). I prezzi però sono molto diversi: paradossalmente, tornare dagli USA costa generalmente lo stesso se non meno che in altri periodi, mentre da Parigi si spendono da 100 a 500 euro e da Londra anche sopra i 500 euro. Da Barcellona è tornato Emiliano che si trovava lì in Erasmus. «Nei giorni precedenti c’è stato un atteggiamento un po’ schizofrenico», mi racconta mentre si trova in quarantena a Roma . «È stato fatto un censimento studenti Erasmus in Spagna con le università da tramite e, una volta comunicata la volontà di tornare in Italia, ci è stato proposto un volo da Madrid a Ciampino. Dopo però c’è stata un cambio di programma e quindi mi sono organizzato da solo seguendo le indicazioni dell’Ambasciata, che consigliava o voli indiretti (passando dalla Germania, con il rischio di rimanere bloccati lì) o via terra, come bus ma passando per zone a rischio in Italia o in macchina con una spesa non indifferente e moltissime incognite. Alla fine abbiamo optato per la nave (anche questa tra le opzioni consigliate), piena di italiani che rientravano». In Europa si sono attivati anche i nodi di Potere al Popolo che hanno organizzato una rete di solidarietà e supporto anche logistico.

 

 

In alcuni casi, la scelta tra partire o restare è quella tra un sistema sanitario che offre pochissime garanzie e una tenuta strutturale incerta, come in USA, e la quarantena in Italia. Ci sono naturalmente anche ragioni psicologiche. Come ha sintetizzato da New York la giornalista Alice Speri su The Intercept: «Preferirei stare in Italia in questo periodo spaventoso perché c’è qualcosa di più invisibile anche di un virus: la solitudine e l’isolamento che sento qui, in un paese dove tutti pensano solo a loro stessi». Giorgio Lucaroni è tornato in Italia con un volo diretto da Los Angeles (dove era visiting researcher a UCLA) a Roma, l’ultimo o uno degli ultimi. Qualche giorno fa scriveva: «Qui in California nessuno pensa minimamente di fare alcun test così come nessuno si preoccupa di applicare le più basilari norme igieniche. Nella narrazione ufficiale il virus è stato dipinto come un prodotto di importazione, merce da contrastare alla dogana, mentre l’intera comunità scientifica si sbraccia per avvertire che è già qui, che probabilmente sta mietendo vittime invisibili a una società che ha come soli capisaldi il denaro, l’apparenza, la posizione… mai avrei immaginato di rimpiangere un paese in quarantena». Come per chi scrive, l’autoisolamento o comunque la scelta di limitare al minimo le interazioni fuori di casa hanno preceduto la scelta di rientrate. «La mia impressione – continua al telefono Giorgio – è che in USA che l’opinione sia cambiata quando sono diventati positivi i giocatori NBA e Tom Hanks». In quel momento, paradossalmente siamo usciti da un’altra forma di isolamento, quella che ci faceva sembrare pazzi preveggenti.

Sull’aereo con me ci sono altri studiosi e ricercatori, sicuramente una delle comunità all’estero che si sta muovendo di più in questi giorni – se non altro perché molte e molti di noi possono continuare a fare questo lavoro da casa. Anita insegna e studia in un piccolo college del Nord Est degli USA. «A differenza di tante altre, il campus della mia università non ha ancora chiuso, quindi chi vuole può restare – mi racconta – così come evolve di giorno in giorno come viene gestita la mensa. Anche la transizione ai corsi online non è stata per niente immediata, complicando la situazione di chi voleva provare a partire. Ma sono più preoccupata più per i miei fratelli che invece sono bloccati a Londra». Alfredo Luminari invece aveva una visiting position di alcuni mesi all’Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics a Boston: «Harvard già da martedì aveva detto ai suoi studenti di andarsene. Ma metà centro è invece federale, dove devono invece seguire le direttive governative, che fino a poco fa erano di sottovalutazione, come sai. Si è creata quindi questa situazione ambigua, senza comunicazioni comuni, per una settimana siamo rimasti senza sapere che fare. Se avessi seguito le loro indicazioni sarebbe sicuramente stato più complicato andarmene». Lasciare in fretta in furia in luogo in cui si abita vuol dire liberarsi anche di quello che si ha a casa: «Ho lasciato uova e altre cose fresche alla vicina, per non buttarle. Sembrava avesse tutto chiaro, il coronavirus l’epidemia e via dicendo, e poi ha provato a salutarmi stringendomi la mano. Spiegare a chi avevo intorno lì cosa sta succedendo non è stato facile».

Non c’è una scelta più giusta a priori, tra il rientrare in Italia e restare nel paese dove si vive e lavora e pesano una serie di fattori, privilegi, eventualità, garanzie sanitarie, rischi concreti o meno di tenuta del sistema. Sicuramente dovremmo ripensare nei prossimi mesi la mobilità internazionale e la possibilità di studiare, lavorare, divertirsi fuori dall’Italia.