DIRITTI

Fiumicino. Richiedente asilo si dà fuoco per non essere espulso

Il 14 febbraio un ragazzo di 19 anni si è dato fuoco all’aeroporto di Fiumicino. Doveva essere espulso.

Il ragazzo, infatti, cittadino della Costa d’Avorio, aveva chiesto asilo politico ma aveva ricevuto il diniego della commissione. Dopo questa decisione negativa, si era recato in Olanda. Qui, intercettato dalle forze dell’ordine, è stato rispedito in Italia, che in base al “Regolamento Dublino II” è il paese competente per la sua richiesta di protezione internazionale. Rientrato nel “bel paese” ha ricevuto un foglio di via. Piuttosto che tornare in Costa d’Avorio, però, ha preferito darsi fuoco.

Questo è tutto ciò che ci è dato sapere dalla lettura dei giornali, La Stampa e La Repubblica. Nei due articoli, non si risparmiano gli elogi al “coraggio” e alla “prontezza” delle forze dell’ordine che hanno spento “l’incendio”, ma si omette completamente la cornice politica ed economica che ha prodotto un gesto così disperato.

In attesa di poter incontrare il cittadino della Costa d’Avorio per chiedergli di persona il suo nome, proviamo noi a descrivere quella cornice. La sua storia, infatti, è molto simile a quella di tanti altri ragazzi e ragazze che arrivano in Europa in cerca di una vita migliore. L’impraticabilità dei canali di ingresso legale, dovuta all’assurda rigidità delle leggi che regolano l’immigrazione e al peggioramento della situazione del mercato del lavoro (sia rispetto ai regimi contrattuali, che ai tassi di disoccupazione) causato dalla crisi, hanno trasformato l’asilo politico nell’unica speranza di ottenere una qualche forma di regolarità, molto spesso soltanto temporanea e precaria. La richiesta di asilo politico, insomma, è diventata una strategia di massa adottata da migliaia di migranti (anche impropriamente) per sottrarsi all’invisibilità in cui si trovano condannati dalle leggi europee. Una strategia che si trova avviluppata nelle misure previste dal “Regolamento Dublino II”, l’ennesimo trattato internazionale che viola il diritto di ciascuno a scegliere dove vivere la propria vita.

Infine, La Stampa ci racconta un macabro particolare. “Per bloccare l’iter amministrativo dell’espulsione dall’Italia avrebbe potuto presentare una nuova domanda per richiedere l’asilo politico e nel frattempo essere detenuto al Cie di Ponte Galeria [ma] Forse lo ignorava, forse è stato mal consigliato, forse non voleva stare in una cella ed è stato travolto dalla disperazione”.
Ci preme a questo proposito ricordare alcune cose. Per esempio, che l’assenza di informazioni certe e chiare rispetto ai procedimenti amministrativi, e in generale alle leggi che regolano l’ingresso e il soggiorno dei cittadini stranieri, dipende da mancanze strutturali del sistema di accoglienza italiano, che scarica, per una scelta ben precisa, tutto questo lavoro sulle associazioni di volontariato. Ci sarebbe anche da ricordare che il CIE di Ponte Galeria, secondo quanto denuncia tra gli altri la campagna “lasciateCIEentrare”, è un luogo di detenzione in cui si vive in condizioni materiali terribili, dove spesso chi entra non sa quando e come uscirà.

La scelta tragica del ragazzo ivoriano ricorda i tantissimi suicidi e tentativi di suicidio che, dalla Grecia all’Italia, dal Portogallo alla Spagna, rappresentano le risposte disperate alla violenza della crisi e dell’emarginazione. Prodotti di scelte precise dei governi europei, con le politiche di austerità e con quelle dell’immigrazione.

“Vogliamo rivolgerci a chi si trova a subire in prima persona, sul proprio corpo, quotidianamente, la ferocia di questa crisi e di queste leggi: il sacrificio individuale non serve! L’unica speranza è nell’organizzazione collettiva, dal basso, nella lotta per riprendere in mano la nostra dignità e le nostre vite! Non diamogliela vinta, il futuro siamo noi!”