ITALIA

Il fisico Giorgio Sestili: «Mai usciti dalla seconda ondata»

La situazione dei contagi da Covid-19 non accenna a diminuire nel nostro paese, mentre si inizia a vociferare di una “terza ondata” in arrivo. Intanto, lo stato di emergenza è stato prorogato fino a fine aprile. Il punto sui dati a nostra disposizione

Nella giornata di ieri il Governo ha varato un nuovo decreto-legge che, in buona parte, conferma le misure intraprese fino a ora per affrontare la seconda ondata di Covid-19 nel nostra paese. Tuttavia i dati registrano un progressivo peggioramento, seppur lieve, mentre sta facendo discutere la mutazione del virus definita “variante inglese” che pare spingere la situazione fuori controllo nel Regno Unito.

Proviamo a far chiarezza con Giorgio Sestili, fisico e divulgatore scientifico, fondatore della pagina Facebook “Coronavirus – Dati e Analisi Scientifiche” e del network giorgiosestili.it, che fin dai primi momenti dell’arrivo dell’epidemia di Covid-19 in Italia ha offerto contribuiti informativi e comunicativi realizzati dal basso e in modo collaborativo.

 

Sta arrivando una terza ondata pandemica?

Proviamo a vedere cosa dicono i dati. Se prendiamo come riferimento giugno dell’anno scorso, quando era ormai terminato il lockdown duro di marzo e aprile e si allentavano quasi tutte le misure restrittive, c’erano 177 casi giornalieri, 38mila persone positive e un rapporto fra tamponi e positivi dello 0,4%. Si tratta di cifre che a tutti gli effetti indicano la fine di un’ondata pandemica e l’ingresso in una fase diversa da quella precedente.

Se invece analizziamo la situazione odierna, vediamo come i casi giornalieri oscillino fra le 10mila e le 20mila unità, mentre il rapporto fra tamponi e positivi è stabilmente oltre il 10%. Questo significa che i casi aumentano oltre la nostra capacità di rilevarli e dunque di realizzare il contact tracing, il tracciamento dei contagi: sappiamo infatti che, affinché ciò avvenga, quel rapporto deve restare attorno al 3%, al massimo 5%. Insomma, direi che ci troviamo in uno scenario completamente differente da quello di giugno e direi, dunque, che non siamo mai usciti dalla seconda ondata iniziata in autunno.

 

Le misure introdotte non hanno funzionato?

Le misure sono servite per contenere la diffusione della pandemia, ma non sono riuscite ad abbattere la curva dei contagi. Di fatto, abbiamo dimezzato le cifre di novembre, quando viaggiavamo sui 40mila casi giornalieri. Però, c’è poco da essere ottimisti: le terapie intensive sono state molto vicine alla saturazione e ancora oggi registrano numeri significativi e sono stati toccati picchi di anche mille morti al giorno. Inoltre, le condizioni in tanti paesi europei – dall’Inghilterra alla Spagna, fino alla Francia – sono in netto peggioramento e dobbiamo aspettarci qualcosa di analogo anche qui.

Non dimentichiamoci infatti che i dati che osserviamo oggi sono la conseguenza di quanto accadeva un paio di settimane fa. Le basi per il lieve aumento dei casi che stiamo registrando in questo momento sono dunque state gettate durante le feste natalizie, quando teoricamente tante delle attività erano chiuse e la mobilità molto minore che adesso. Fra un po’, invece, cominceremo a vedere gli effetti delle riaperture del sette gennaio, che porteranno a un ulteriore aumento. Insomma, siamo in una situazione di crisi stabile.

 

Occorre introdurre altre restrizioni?

Io mi considero abbastanza favorevole al sistema di divisioni fra zone e di alternanza fra momenti di maggiore chiusura e maggiori riaperture. D’altronde, la scelta di mettere in atto un lockdown duro sarebbe stata più semplice, ma ingiustificabile a questo punto dell’andamento pandemico. Era molto azzeccata quando ci fu lo scoppio imprevisto di marzo ma non lo è ora, dopo mesi e mesi in cui ci si sarebbe potuti preparare a un aumento dei contagi. È chiaro che si tratta di un compromesso fra diverse istanze.

Un aspetto positivo, però, è che le regioni più virtuose di altre non vengono eccessivamente penalizzate. A seconda delle zone ci sono situazioni epidemiologiche radicalmente diverse fra loro: non mi riferisco solo a territori a bassa densità abitativa – come magari Molise o Basilicata – in cui una bassa diffusione dei contagi è anche conseguenza delle caratteristiche demografiche, ma anche alla regione del Lazio e al contesto della città di Roma, in cui si sta procedendo ad alto ritmo con la vaccinazione del personale sanitario e la situazione è abbastanza sotto controllo.

 

Che ruolo giocheranno i vaccini?

È davvero ancora molto presto per dirlo. Per raggiungere una sorta di immunità di gregge è necessario vaccinare circa il 70% della popolazione, il che significa ben 42 milioni di persone. Secondo il piano governativo questo obiettivo verrà raggiungo solo in autunno. Il tutto però facendo affidamento anche su vaccini il cui utilizzo non è ancora approvato, come AstraZeneca o Johnson & Johnson.

Ci sono dunque varie incognite. Non da ultimo il fatto che, per quanto ne sappiamo allo stato attuale, i vaccini proteggono dallo sviluppo della malattia Covid-19, ma non necessariamente dall’infezione. Può essere dunque che anche chi è stato vaccinato possa comunque contagiare altre persone, se positivo al virus. Insomma, per tanto tempo ancora le principali protezioni da mettere in campo resteranno il distanziamento sociale e il contenimento dei contagi.

 

La cosiddetta “variante inglese” complicherà questo quadro?

Va detto che a tal proposito non esiste ancora un accordo da parte della comunità scientifica. Ci sono studi che sottolineano come la mutazione del virus definita “variante inglese” sia molto più contagiosa delle altre. Si tratta di ricerche solide ma che ancora necessitano di ulteriori conferme. Tuttavia, la maggiore contagiosità non è indice anche di maggiore letalità.

A quanto pare, infatti, i vaccini sembrano essere efficaci anche contro questa variante del virus. Si tratta dunque di continuare a gestire l’andamento della pandemia con le misure di contenimento, che andranno rafforzate laddove il quadro potrebbe complicarsi per via di un innalzamento dei contagi. A ogni modo, direi che la “variante inglese” non stravolge le prospettive che già avevamo di fronte.

 

Foto di copertina dal Flickr dell’Università Campus Bio-Medico di Roma.