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“La favorita” di Yorgos Lanthimos

Nel suo primo film in costume il regista greco Yorgos Lanthimos getta il suo sguardo deformante sul mondo aristocratico della casa regnante britannica all’inizio del XVIII secolo. Ma dietro l’ambientazione storica, si fa largo una riflessione sul potere e sul contemporaneo

Muove al riso quest’ultimo film di Yorgos Lanthimos. The Favourite è una grottesca lente che distorce, uno spiritoso gioco più che un film in costume. Il regista greco fronteggia un pezzo di storia con lo strumento potente del grandangolo con il quale disorienta, ridisegna gli ambienti vasti come claustrofobici, descrive visivamente la geometria del potere. Ingrandendosi l’immagine si deforma, i pavimenti salgono, le pareti si schiacciano, i corpi che attraversano questi spazi si gonfiano e si assottigliano. È forte questa scelta e radicalizzata rispetto ai suoi film precedenti. Lanthimos usa l’estetica della cultura settecentesca, i costumi d’epoca, uno squarcio di storia europea, come pretesto per incarnare una psicologia perversa tutt’altro che remota, anzi. Siamo nel primo quindicennio del XVIII secolo e la regina Anna è la prima sovrana del Regno di Gran Bretagna. Fuori delle porte del palazzo dilaga il conflitto con la Francia, dentro le stanze imperversano i giochi languidi del potere. Ma il fuori resta altrove, un’eco timida che riverbera negli ampi appartamenti dai grandi arazzi che invece brulicano di sguardi, atteggiamenti, tattiche elaborate dalle tre figure femminili. L’obiettivo, infatti, è dimostrare il carattere contraddittorio della storia più che il fatto storico in sé.

Le stanze del palazzo sfarzoso in cui si aggira claudicante la regina (una bravissima Olivia Coleman), goffa e bulimica, sono la corte in cui seduzione, sesso e potere si intrecciano, come nelle migliori tradizioni, condizionando le geometrie politiche del Regno. La rivalità tra Sarah, la Duchessa di Marlborough (Rachel Weisz) e sua cugina Abigail, la baronessa Masham (Emma Stone), per chi conquista e soprattutto chi riesce a mantenere l’intimità con la sovrana, crea la dinamica del triangolo che in ogni caso è e resta gestita dal vertice, da chi, dunque, il potere lo detiene formalmente. E il grandangolo sembra voler suggerire anche ciò: vi è un punto da cui si osserva la totalità del campo e che unico e solo può garantirne il controllo. Non importa che la regina sembri in balia delle sue amanti, capricciosa e insicura, se vuole farsi leccare i piedi qualcuno si chinerà – e non solo in senso solo metaforico.

Lanthimos, dunque, confeziona bene la sua riflessione sul potere attraverso il carattere significante delle precise scelte stilistiche. Rallenty che mostrano l’accidiosità di certi comportamenti, panoramiche a schiaffo che restituiscono l’andamento umorale dell’universo del racconto, musica ridondante, anche quando è solo un pizzicato di archi, a suggerire le straripanti tonalità emotive. Primi piani e campi lunghi, poi ancora grandangoli. Il suo stile è cinico e ironico. I suoi personaggi sono sapientemente ricostruiti e imperfetti. Il fatto che siano esistiti veramente, come ha dichiarato il regista stesso in conferenza stampa, ha permesso uno sguardo distaccato e critico che preferisce filtrare il mondo attraverso il triangolo composto da queste tre superbe figure.

Se in The Lobster (2015) la dimensione della coppia eterosessuale era obbligatoria pena la trasformazione in animale, qui siamo difronte a esseri solitari che si studiano e si annusano come animali negando la relazione classica se non come opportunità di benessere sociale ed economico. Se pensiamo che il primo film riguarda un ipotetico futuro distopico e il secondo un’epoca lontana, ecco che il grottesco diventa farsa.

Sono continuamente presenti personaggi soli che spesso scompaiono in questi ampi ambienti vuoti, ma anche papere da corsa, conigli che banchettano tra le pieghe della gonna della regina, uccelli da impallinare per allenare la mira. La relazione tra i personaggi e l’ambiente è forte. Come forte, e su questo Lanthimos ci ha sempre invitato a riflettere, è quella con il mondo animale. Abigail, che entra dalla porta di servizio dotata di un’ironia pungente che durante la scalata ai piani alti si trasforma in abilità manipolatoria, usa i conigli della regina per entrare in contatto con lei ma poi li schiaccia quando ha raggiunto il suo scopo.

Questi esseri innaturalmente addomesticati continuano a essere una dimensione metaforica forte e contribuiscono a delineare la morale della favola. Come conigli in gabbia, talvolta liberati ma pur sempre in un ambiente chiuso, continuiamo come esseri umani a zigare per poche briciole, sperando in qualche segno di riconoscimento. Insistiamo nel performare un ruolo nell’attesa di essere premiati, mossi da ragioni presunte. Nulla da eccepire a riguardo, è senz’altro vero che questo mondo gira su se stesso. Del finale, però, se ne potrebbe discutere a lungo.