PRECARIETÀ

E’ tempo di sciopero sociale – appello e dibattito a Padova

Giovedì 23 ottobre si svolgerà un incontro-dibattito sullo sciopero sociale al Bios Lab, ad una settimana dalla sua ri-occupazione, con la partecipazione di numerose realtà nazionali impegnate nel percorso contro il #jobsact verso il #14n.

Ad una settimana dalla nuova occupazione il BiosLab –nell’ambito della mobilitazione che in questi mesi differenti realtà stanno costruendo in vista della giornata del 14 novembre– propone un appuntamento di discussione intorno al tema dello sciopero sociale. L’idea nasce dalla stringente esigenza di aprire spazi di condivisione che mettano al centro pratiche e parole d’ordine capaci di confrontarsi con i processi materiali che tutti noi incontriamo nella quotidianità delle nostre vite. In questo senso, vogliamo costruire un dibattito che sia l’occasione per incontrare e discutere con tutti quelli che vedono nel 14N non un punto di arrivo, ma una possibilità per indagare nuove traiettorie da seguire per le lotte e i conflitti a venire.

Parteciperanno:

ESC Atelier (Roma) LOA Acrobax (Roma) Zer081 (Napoli) ADL Cobas (Padova) CSO Pedro (Padova) Exploit (Pisa) Eigen Lab (Pisa) Centri Sociali del Nord Est, ZAM (Milano) CSOA Lambretta (Milano) AUT AUT 357 (Genova) Renato Busarello (Lab Smaschieramenti, Bologna)

E’ tempo di sciopero sociale!

Ad una settimana dalla nuova occupazione il BiosLab –nell’ambito della mobilitazione che in questi mesi differenti realtà stanno costruendo in vista della giornata del 14 novembre– propone un appuntamento di discussione intorno al tema dello sciopero sociale. L’idea nasce dalla stringente esigenza di aprire spazi di condivisione che mettano al centro pratiche e parole d’ordine capaci di confrontarsi con i processi materiali che tutti noi incontriamo nella quotidianità delle nostre vite. In questo senso, vogliamo costruire un dibattito che sia l’occasione per incontrare e discutere con tutti quelli che vedono nel 14N non un punto di arrivo, ma una possibilità per indagare nuove traiettorie da seguire per le lotte e i conflitti a venire.

Innanzitutto, dalla nostra prospettiva fare questo significa mettere al centro i metodi e le forme con cui nei movimenti vogliamo costruire nuove progettualità. Questa proposta, infatti, non mira alla sintesi, ma nasce piuttosto dall’esigenza di far dialogare le differenze a partire dalla condivisione dei contenuti, e da un’attitudine pragmatica che sappia mettere al centro dell’ordine discorsivo la costruzione e la condivisione di pratiche incisive e generalizzabili.

A partire da queste premesse, è opportuno mettere a tema le questioni di cui questo incontro vorrebbe iniziare ad occuparsi: che cosa significa costruire e praticare uno sciopero sociale? Cosa significa costruire una processualità in grado di porsi degli obiettivi di medio o lungo periodo? Quali sono nel concreto le pratiche e i discorsi che crediamo siano utili a produrre nuovi immaginari articolati intorno alla necessaria attitudine all’essere attraenti ed espansivi nei confronti del contraddittorio tessuto sociale con cui ci confrontiamo? Come possiamo individuare nuove traiettorie di lotta intorno alla questione del lavoro, capaci di mettere con coraggio il tema della ricomposizione al centro dei nostri dibattiti?

Questi interrogativi molto ampi si inseriscono in un contesto articolato e contraddittorio da diversi punti di vista, ma che di certo offre spazi di possibilità a tutti quelli che pensano sia arrivato il momento di rimettersi in marcia.

Proviamo a partire considerando l’instabilità delle relazioni internazionali. L’esplodere di diversi conflitti ai confini dell’Europa, come ad esempio in Ucraina, in Palestina o nella Rojava e nelle resistenze del Kurdistan, la dicono lunga su come gli equilibri su cui si erano strutturati i rapporti tra le potenze dalla fine della guerra fredda siano completamente saltati. Siamo di fronte ad una nuova fase di guerra diffusa, in cui le tensioni egemoniche sul piano globale trasformano rapporti di forza secolari, e ridefiniscono una dimensione di tensione costante e diffusa, rimettendo al centro, e in veste nuova, il ruolo degli eserciti e dei conflitti nel regolare i rapporti internazionali. Questo insieme di novità che operano su un piano geopolitico, inserito in un quadro in cui il capitalismo agisce non solo sul scala europea ma globale, non possono più essere trascurate.

Per quanto riguarda la dimensione europea, appare ormai evidente come la crisi, nel corso del tempo, sia divenuta un dispositivo utile ad imporre un nuovo modello sociale e di governo della nuova collocazione geopolitica dell’Ue. In questo senso, è possibile osservare come, a partire dall’emergenzialità legata al concetto di crisi, da un lato vi sia un costante spostamento del potere decisionale dai governi nazionali alle istituzioni europee, confermando l’idea che lo spazio minimo su cui i movimenti devono svilupparsi e organizzarsi è proprio quello europeo; dall’altro lato la crisi risulta strumento utile e diffuso per determinare in modo accelerato nuovi assetti nella tensione tra capitale e lavoro.

Da questo punto di vista, è stata emblematica la reazione entusiasta dei maggiori organi dell’Unione Europea rispetto alla riforma italiana del mercato del lavoro proposta dal governo Renzi: si tratta del famigerato e dibattuto JobsAct, considerato un esempio da seguire anche dagli altri stati europei. Attraverso la riforma del mercato del lavoro, riprendendo le parole dello stesso premier, si persegue l’obiettivo di riscrivere e di svuotare di significato lo statuto dei lavoratori, e di imporre un nuovo paradigma sociale che metta al centro la precarietà permanente, diffusa e slegata da qualsiasi forma di tutela o di sostegno. Sul piano discorsivo il dibattito si sta assestando su tre elementi principali, per ognuno dei quali, a nostro avviso, dovremmo essere pronti a dare battaglia sia sul piano dei contenuti che delle pratiche.

In primo luogo, la cancellazione dell’articolo 18 al centro della riforma renziana. Da questo punto di vista, non possiamo sottrarci dalla necessità di imporre un piano discorsivo che parta dalla composizione sociale con cui ci confrontiamo quotidianamente. Infatti, è inutile ricordare come in questo scenario le giovani generazioni, e i soggetti precari in generale, già non abbiamo accesso a questo diritto fondamentale. Altrettanto banale sarebbe ribadire l’importanza dell’articolo 18 come strumento indispensabile sul piano giuridico e dal punto di vista della difesa sindacale di alcuni segmenti della forza lavoro. Tuttavia, la battaglia sull’articolo 18 non può essere resistenziale e “di difesa”, ma deve sapersi collocare sul piano dell’innovazione e della conquista di diritti generalizzabili. In questo senso, l’impossibilità di licenziare senza giusta causa, e senza alcun tipo di indennizzo, dovrebbe essere la base per la costruzione di un “rapporto di lavoro”, e non un privilegio presente ancora per pochi, o forse, a breve, proprio per nessuno.

In secondo luogo, il tema del “costo del lavoro” al centro dei discorsi diffusi sul JobAct. Quando sentiamo dire che si vuole abbassare il costo del lavoro, non significa solo che gli imprenditori devono pagare meno tasse allo stato (in modo da favorire gli investimenti esteri… doyouremember MadeinChina?!), ma anche che i salari devono essere ridotti. Questo elemento è una delle chiavi simboliche da ribaltare nel contesto che stiamo provando a descrivere, nel momento in cui noi tutti viviamo un presente costituito da lavori precari, dequalificati e con stipendi indegni. All’interno di questo discorso, è altrettanto centrale collocare un ragionamento sul lavoro gratuito e sugli stage e tirocini obbligatori e gratuiti, che sappia andare oltre le retoriche mistificatorie sui processi di ristrutturazione in corso: l’esperienza lavorativa non è più considerata come uno scambio di tempo in cambio di denaro, ma come un’occasione per migliorare e strutturare il proprio profiling. Uno degli obiettivi che dobbiamo porci è ribaltare di segno questo assunto, ribadendo che la proposta che arriva dal JobsAct non cerca di regolare solamente una situazione transitoria, ma impone di fatto l’istituzionalizzazione della precarietà a vita e del lavoro gratuito per tutti.

Infine, è la questione degli ammortizzatori sociali a muovere il dibattito politico di queste settimane. A tenere banco è il solito mantra che negli ultimi vent’anni ha accompagnato tutti processi di precarizzazione del mercato del lavoro: prima flessibilizziamo, prima togliamo i diritti, e poi vedrete che vi daremo gli ammortizzatori sociali giusti. L’idea che traspare dalle proposte del governo ci parla del tentativo di avviare una lenta transizione al sistema di workfare di matrice anglosassone, in cui le tutele e i sostegni sono vincolati alla disponibilità di accettare qualsiasi lavoro a qualsiasi condizione. Dobbiamo essere capaci di ribaltare i toni paternalistici e caritatevoli con cui viene costruito il dibattito intorno alle politiche di welfare, ponendo al centro il tema della redistribuzione della ricchezza prodotta quotidianamente dalle nostre vite messe a valore e affermando come solo un reddito incondizionato di esistenza e di autodeterminazione possa essere lo strumento privilegiato per riuscire a immaginare e a costruire nuovi processi di ricomposizione sociale.

La sfida che abbiamo di fronte si colloca esattamente su questi terreni: aggredire e rovesciare di segno i discorsi e i significati che questi approcci tentano di imporre e diffondere tra le differenti soggettività messe a valore. Ed è proprio su questi terreni che anche le pratiche che stiamo immaginando devono sapersi confrontare, assumendone la provvisorietà e il loro carattere processuale. In questo senso, per noi l’idea dello sciopero sociale deve sapersi collocare dentro il contesto appena descritto, e dobbiamo saper coniugare l’esigenza di “far male” al capitale, alla sempre più stringente necessità di attaccare i meccanismi di autodisciplinamento al centro delle strategie di governo contemporaneo. Anche in questo caso sono tre i piani su cui ci interessa proporre alcuni spunti di riflessione per le mobilitazioni a venire.

Innanzitutto dobbiamo assumere la necessità diffusa di costruire con continuità momenti di piazza nuovi, che rimettano al centro l’idea dello sciopero come blocco dei flussi produttivi ma che sappiano anche individuare i nodi centrali per aggredire i processi di riproduzione capitalistici. Facciamo riferimento ai centri per l’impiego, alle agenzie interinali interne al progetto youth guarantee, agli uffici stage e tirocini, nuovi gangli per la somministrazione di lavori gratuiti.

In secondo luogo dobbiamo prendere di mira l’insieme degli spazi in cui sono più evidenti i meccanismi di assoggettamento e autodisciplinamento delle condotte, gli spazi fisici in cui il processo dello sciopero sociale deve avere voce e visibilità: laddove il lavoro gratuito viene realmente praticato e le componenti relazionali e comunicative delle nostre soggettività vengono messe a profitto, nelle aule delle lezioni universitarie, negli spazi metropolitani in cui il genere e la nostra sessualità sono al centro della produzione di valore e di soggettività addomesticate. Per tanti anni abbiamo parlato dell’impossibilità di separare tempi di “vita” e tempi di “lavoro” ipotizzando che fosse l’intera vita a esporsi costantemente ai dispositivi di estrazione di valore e di espropriazione capitalistica. La ricerca comune delle possibili pratiche da sviluppare verso e per lo sciopero sociale non possono eludere questa questione. Se è il bios tutto a essere terreno di scontro allora la proliferazione di contro-condotte, le forme di autodeterminazione radicale, l’affrancamento definitivo delle soggettività dalle categorie e gabbie disciplinanti dei rapporti familiari, affettive, sessuali e amicali devono essere al centro della nostra organizzazione politica. Allo stesso tempo, se sono gli spazi metropolitani o urbani a essere per intero spazi di possibile azione del capitale allora è intorno alla battaglia per il “diritto alla città” che si possono individuare traiettorie di lotta possibili. Se vogliamo parlare di nuove sperimentazioni sono questi secondo noi i punti più delicati, è questa l’altezza da cui dobbiamo giocare la nostra sfida.

Infine, una questione che attraversa tutte le dimensioni che abbiamo provato ad introdurre in questo contributo è quella legata agli immaginari. Dobbiamo aggredire senza più timidezze il terreno dei social network, tentando di attivare una molteplicità di strumenti comunicativi di ogni genere, dai video alle pagine fake, dagli hastag ai profili personali che sappiano coordinarsi e che sappiano avere un’attitudine virale. L’esempio del riuscito esperimento del #10O ci sembra un ottimo punto di partenza per rilanciare e implementare un uso intelligente e strategico di questi strumenti, che come le rivolte contemporanee ci mostrano sono un terreno di azione inaggirabile per chi vuole diffondere lotte e conflitti.

Appare evidente come la proposta che abbiamo provato a strutturare attraverso questo contributo non può e non vuole dare risposte, ma vuole proporre alcuni interrogativi che solo nei processi di condivisione possono iniziare a trovare alcune parziali risposte. Tuttavia, siamo convinti che se saremo in grado di mettere da parte ideologie, strategismi e posizionamenti e di restituire centralità alla questione del conflitto diffuso, i prossimi mesi potranno sorprenderci e spiazzarci come in poche altre occasioni.

Per discutere di tutto questo, siamo felici di invitarvi ad un confronto-dibattito al BiosLab giovedì 23 ottobre alle 18. Perché è davvero tempo di rialzare la testa, oltre che di sciopero sociale!

Tratto da bioslab.org