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E se il capitalismo fosse già morto?

Wark McKenzie in “Il Capitale è morto. Il peggio deve ancora venire” si interroga sullo stato di crisi permanente e definitiva del capitalismo: questo non vuol dire che il capitalismo sia una questione archiviata, ma che ora deve competere con un altro sistema di dominio, che prende il nome di Google, Amazon, Facebook. Lo spazio dello scontro si sta sposta sul rapporto tra la nuova classe vettoriale detentrice degli algoritmi e dei data, e la subalterna classe hacker, composta da programmatori e creator.

E se il capitalismo fosse già morto? E se questo stato di stordimento dell’Occidente fosse imputabile all’assenza di un linguaggio capace di nominare qualcosa di peggio? A delineare i contorni di questo qualcosa ancora impronunciabile è Wark McKenzie in Il Capitale è morto. Il peggio deve ancora venire (Nero Edizioni), un libro che ha il merito di scontornare tutte le contraddizioni interne al discorso critico sull’odierno capitalismo. McKenzie in sostanza chiede, con un piglio provocatorio quanto audace: possiamo smetterla di ingrassare il capitalismo di aggettivi, possiamo sospettare che si tratti accanimento terapeutico?

Questa logorrea teorica zelante nel “buttare tutto dentro” la parola «capitalismo» non rischia di trasformarsi in afasia, in incapacità di nominare quel qualcos’altro? Il riferimento va subito al «capitalismo della sorveglianza» di Shoshana Zuboff, ma non solo: «Basta aggiungere un termine che lo qualifichi: capitalismo della sorveglianza, capitalismo delle piattaforme, capitalismo neoliberale, capitalismo postfordista, etc. […] Abbiamo cercato nel linguaggio una certezza che non potremmo trovare altrove?». 

Per McKenzie ciò che importa non è vivisezionare la solidità di questa tesi, che nel testo si presenta sotto forma di un «esercizio di pensiero». Ciò che importa è innanzitutto saggiare il nostro linguaggio, le nostre armi critiche in grado di interpretare ed eventualmente combattere un’eventualità di questo tipo.

Qui sta il primo smacco, la prima provocazione che permette a McKenzie di issare il primo gigantesco punto interrogativo. «Oggi l’ideologia non è l’accettazione di una struttura di sentimenti neoliberale o di abitudini di pensiero e azione. L’ideologia oggi resta ancorata alla credenza che questo sia capitalismo». Così fin dall’inizio, indirettamente, l’autrice ci riporta alla mente la prima lezione di Marx: filosofia, arte e religione tendono a diventare la sovrastruttura ideologica di una determinata struttura sociale, e finiscono per presentare come immutabile e perenne il tipo di società di volta in volta esistente.

Ma la realtà della storia non è questa, le forze di produzione cambiano, i rapporti di forza anche. In breve, non è il capitalismo a essere immortale, è la sovrastruttura ideologica a farcelo percepire come tale. Sorpassato questo primo argine, ammessa l’esistenza della mortalità del capitale, è lecito domandarsi: qual è il suo stato di salute?

Un nuovo sistema di dominio e la classe vettoriale

A questo punto emerge il primo limite del testo: McKenzie parla della fine del capitalismo senza circoscrivere il quid est, senza dare una definizione condivisa di capitale. In compenso, però, circoscrive i sintomi dell’annunciata morte del capitale: la dimostrazione sta nel fatto che l’attuale sistema di dominio si incardina nei data center, e non più nelle fabbriche; la dimostrazione sta nel fatto che i vecchi capitalisti della finanza devono competere con giovani imprenditori dal volto pulito, nati in qualche stanzino californiano e ora in grado di influenzare intere nazioni; la dimostrazione sta nel fatto che la leva per mantenere questo nuovo sistema di dominio sta non solo nello sfruttamento del lavoro salariato, ma anche nel controllo asimmetrico dell’informazione e nell’estrazione di quello che Zuboff definisce «surplus comportamentale».

Questo non vuol dire che il capitalismo sia una questione archiviata, ovviamente, ma che ora deve competere con un altro sistema di dominio, che prende il nome di Google, Amazon, Facebook. Persino il capitale rischia di esser assoggettato ai nuovi dettami della tecnica, Leviatano bifronte, metà capitale, metà qualcos’altro

E come ogni nuova struttura sociale che si rispetti, deve avere le sue classi, le sue proprietà, i suoi mezzi di produzione e nuovi rapporti di forza, appunto. Il problema è che non riusciamo più a individuarli. Lo stesso concetto di classe è stato stiracchiato ed eroso da una confusione sociologica che ha portato, alla fine, a una sua totale scomparsa dal discorso pubblico. Ed è un bel problema, perché «acquisire una coscienza di classe è parlare un’altra lingua.

Significa rifiutare i termini dati e cercarne di nuovi, insieme a nuovi concetti». Questo disordine ha smesso di nominare, e quindi di vedere l’ascesa di una nuova classe, quella vettoriale: si tratta dei grandi detentori di monopoli nel digitale, al vertice della piramide di comando e pronti incorporare i capitalisti in questo nuovo modo di produzione.

Il vettore sarebbe il mezzo materiale per assemblare i big data e «realizzare un potenziale predittivo», mentre «la classe vettoriale possiede e controlla brevetti che gli consentono di monopolizzare questa tecnologia. Possiede brands e celebrities per galvanizzare l’attenzione.

Possiede la logistica e le catene di fornitura che mantengono l’informazione in un regime proprietario». Inoltre, mi verrebbe da aggiungere, questa volta il “servo” non solo non possiede i mezzi di produzione del padrone, ma non li conosce neanche. Ed è una differenza non da poco, da considerare in qualsiasi tentativo di ribaltamento del paradigma. È la classe vettoriale a manovrare gli algoritmi, quella scatola nera che per tutti gli altri (compresa la finanza) ha assunto quasi un valore esoterico. 

C’era una volta la lotta alto – basso…

Questa classe, secondo la scrittrice, si sta ora confrontando con la vecchia classe di capitalisti, e ne sta modificando il campo di battaglia. Si potrebbe far notare che – in effetti – cresce sempre più la pressione delle Big tech in ambito finanziario, e cresce il cosiddetto mondo techfin (soggetti detentori del monopolio tecnologico e digitale che decidono di avviare servizi finanziari, diventando, di fatto, intermediari finanziari). Esempi? Apple, in partnership con Goldman Sachs, ha già lanciato la propria carta di credito. 

Non è più semplice finanza potenziata dal digitale, l’informazione si è infiltrata in tutto il ciclo di produzione e riproduzione del valore. Tutto questo ovviamente comporta un rischio per le banche, anche se non immediatamente lampante: gli operatori tradizionali potrebbero pian piano perdere la loro relazione diretta con i consumatori. Il rischio è la disintermediazione e, di riflesso, il ridimensionamento (che è forse lo stesso rischio del rapporto tra Big tech e democrazia).

I Big tech si trovano così in una situazione di win win: si inseriscono in un mercato dal quale estrarre altri dati e ne diventano gli intermediari senza trasformarsi in vere e proprie banche, usufruendo di una comoda zona grigia legislativa.

Così, nel loro rendersi indispensabili, i Big tech insediano democrazia e capitale, senza assumerne completamente le regole del gioco. Pensavamo che i vecchi capitalisti sarebbero stati piegati solo dal comunismo? Oggi scopriamo che forse sbagliavamo. David Goldman su Asia Times ha riportato le parole del presidente di JP Morgan Jaime Dimon nella sua lettera annuale agli azionisti, che suonano più o meno così: «Le banche competono già contro un ampio e potente sistema bancario ombra. E stanno affrontando una vasta concorrenza dalla Silicon Valley, sia sotto forma di fintech che di società Big tech.

Man mano che l’importanza del cloud, dell’intelligenza artificiale e delle piattaforme digitali cresce, questa competizione diventerà ancora più formidabile. Di conseguenza, le banche svolgono un ruolo sempre più piccolo nel sistema finanziario». Tra l’altro, non è neanche la prima volta nella storia che una classe dominante viene inglobata da una nuova nascente classe egemone.

Gli stessi capitalisti si imposero due secoli fa grazie a una rivoluzione tecnologica, “riposizionando” i grandi proprietari terrieri.

Per dirla in termini marxisti, la creazione di nuovi modi di produzione portò a nuove forze di produzione e a nuovi rapporti di forza. Anche al tempo gli smottamenti della struttura provocarono sfide muscolari tra gli attori in gioco, da cui uscirono vincitori gli industriali.

I’m a boss, you a worker bitch

Ora che conosciamo i contorni del vertice della piramide, chi sono i subordinati della nuova classe vettoriale? La classe hacker, lavoratori e lavoratrici del cosiddetto “lavoro intellettuale”, nel campo dell’ingegneria, della comunicazione, dell’arte, che con minuzia e costanza grazie ai loro pc vanno a oliare i meccanismi di quel mondo digitale detenuto dalla classe vettoriale. Ma non solo. La classe subordinata, secondo McKenzie, siamo tutti noi, generatori distratti di contenuti e di informazioni da estrarre, analizzare e vendere, consumatori di click, produttori di traffico. Siamo materia prima di estrazione di dati.

E qui McKenzie ha ragione, acquisire una coscienza di classe è parlare un’altra lingua: non siamo abili creator, siamo la classe hacker. Così, senza saperlo, lavoriamo a tempo pieno per il padrone capitalista, mentre nel tempo libero lavoriamo per la classe vettoriale (è lecito definire “lavoro” ciò che nella maggior parte dei casi non è retribuito?). Clicchiamo link che non costano nulla e nel farlo produciamo valore, per altri.

Crediamo nell’ascesa di classe, ma senza retribuzione, sogniamo a costo zero e crediamo che la visibilità sia causa ed effetto della riuscita personale. Ci affanniamo a racimolare il nostro privato capitale sociale e social per essere presentabili di fronte al capitale. Anche qui, la classe hacker non rimpiazza ma affianca i lavoratori del vecchio mondo. Ed è proprio nell’asimmetria dell’informazione che si concentra il potere della nuova (eventuale) classe egemone, è questo che la contraddistingue dal capitalismo finanziario e industriale. L’accesso all’informazione è ormai indispensabile per il funzionamento delle altre due forme di capitalismo, ma a detenere le chiavi di questa “proprietà” è solo la classe vettoriale.  

I say, I don’t gotta dance, I make money move

Per delineare la sagoma di questo nuovo sistema McKenzie cerca una torsione del linguaggio e delle teorie, a partire da quella marxista. Per parlare di classe vettorialista cerca una legittimazione teorica del concetto di classe, passando dalle categorie analitiche durkheimiane (macroclassi professionali) a quelle di derivazione weberiana, saggia la solidità della propria tesi sul costante confronto tra testi, consapevole di essere contemporaneamente dentro e ai bordi del problema.

E questo problema è appunto il linguaggio. Il suo rimestare insoddisfatto tra le pagine di filosofi e sociologhi nasconde l’ansia di rintracciare una parola sfuggita al fiume del discorso, riproposta per generare un sovvertimento di senso e quindi un nuovo sapere. È quello che Debord chiamava détournement e quello che McKenzie definisce «una pratica di comunismo letterario». Il suo zelo accademico nel dialogo con gli autori nasconde in realtà l’intento di sfruttare il pensiero in termini quasi cubisti, come riproposizione di tanti sguardi provenienti da tante angolature che, sovrapposti, mostrino una rappresentazione rivoluzionaria della realtà.

Insomma, McKenzie con la mano destra sottolinea l’esigenza di emanciparsi dal discorso marxista e con la mano sinistra ne accoglie la carica sovversiva («quello che sottolineo è come Marx e i suoi compagni più prossimi cambiarono il linguaggio e lo stile del movimento progressista dei loro tempi»).

Un esercizio del pensiero che di certo non schifa nessuna materia prima per l’estrapolazione di senso, dalla storia alla musica. Un’operazione che utilizza le raffinatezze teoriche per analizzare la struttura della classe vettoriale, per metterne a fuoco le prerogative principali («il dominio attraverso le competenze si rivela una questione particolarmente interessante e delicata. L’ascesa della classe vettoriale ha cambiato il tipo di credenziali che sembrano avere un valore per il potere di classe, diventate sempre più tecniche»). Ma è anche un’operazione che contemporaneamente non disdegna il materiale pop per analizzare la sovrastruttura culturale, anche delle classi subordinate: «Come rappa Cardi B, “I’m a boss, you a worker bitch”.

Il significato di boss è ormai modellato sulla classe vettoriale e non più su quella capitalista. Il boss accumula rapporti asimmetrici di informazione, attira e monopolizza l’attenzione, monetizza le apparenze. L’aspirazione è diventare proprietari di un brand, a partire dal proprio, da sé stessi come brand». In questo modo McKenzie apre il testo, altrimenti un po’ asfittico nel suo tentato rigore teorico, a raffronti con la realtà.

Penso ad esempio all’entrata di Chiara Ferragni nel consiglio di amministrazione del gruppo Tod’s, un ingresso che ha fatto schizzare il valore del titolo in borsa: subito dopo la notizia Tod’s ha chiuso con oltre 130 milioni di euro di capitalizzazione di mercato in più rispetto al giorno precedente (I say, I don’t gotta dance, I make money move).

Chiara Ferragni è persona e brand, è uno spazio pubblicitario dotato di volontà e, in quanto tale, può decidere sia da chi farsi occupare sia che palco occupare. Prima ancora di essere una persona benestante, Chiara Ferragni è una persona che orienta il traffico internet, smuove dati, ma senza conoscerne gli algoritmi; sposta capitale ma in quanto influencer, non in quanto capitalista. Si potrebbe allora pensare a una classe a metà tra classe hacker e classe vettoriale, ma non è questo il punto. 

Il punto è una domanda che resta sempre la stessa: chi sfrutta chi? L’impressione è che pian piano il dialogo tra capitale e tecnologia, tra vecchi capitalisti e nuova classe vettoriale, stia nascondendo la delineazione di nuovi perimetri, in cui la tecnologia non appare più come semplice strumento del capitale, ma come qualcosa dotato di caratteristiche proprie che il capitale – certo – cerca di intercettare per trarre profitto. Ma il saper intercettare e l’asservire sono due azioni radicalmente diverse.

La sottigliezza era già stata analizzata da Emanuele Severino in Capitalismo senza futuro, seppur in termini molto diversi rispetto a McKenzie, quando scriveva che «il nemico autentico del capitalismo è il capitalismo stesso in quanto volontà di profitto che, servendosi della tecnica come mezzo, è costretta a rinunciare al proprio scopo, cioè a sé stessa, e ad assumere come scopo il potenziamento del proprio mezzo, cioè della tecnica» (si pensi agli obiettivi strategici del Recovery).  

Ma anche se concordi nel dichiarare l’ora del decesso del capitale per mano della tecnica, le posizioni di McKenzie e Severino restano profondamente distanti e racchiudono – di fatto – tutta la distanza che può esserci tra tecnica intesa come ente e una tecnologia calata nella praxis di una certa struttura sociale.

Il tentativo della scrittrice, allora, è proprio quello di strappare l’intero discorso alla «metafisica della tecnica» per trascinarlo in una dimensione storica, e quindi sovvertibile, là dove tutto è possibilità e non destino, «un esercizio del pensiero» contro cui armarsi. 

Immagine di copertina da commons.wikimedia.org