POTERI

E se domani…

Mettiamo il caso che nel Pd vinca l’asse Veltroni-Chiamparino-Renzi e Berlusconi faccia saltare il tavolo…

Nella logica emergenziale delle grandi coalizioni europee, la forma più idonea per la gestione neoliberale della crisi (cioè per farsene schiacciare), la politica italiana delle larghe intese ci sta stretta. Il tentativo contraddittorio di correggere l’austerità nei dettagli di amministrazione politico-amministrativa senza intaccare le scelte finanziarie di fondo può ingenerare ancora illusioni a livello europeo, dove i partiti reggono e la rappresentanza è erosa, commissariata ma non del tutto svanita, ma in Italia –smaltita l’ubriacatura pop berlusconiana e la retorica del governo tecnico– le cose si rivelano nella luce cruda dell’hangover che segue la ciucca, con tanto di conati di vomito e cerchio alla testa.

I dati di base sono noti: la crisi investe tutta l’Europa, tranne la Germania che resiste con cifre peraltro intorno al +0,1%, ma il differenziale italiano è spaventoso: la produzione industriale in un anno è diminuita del 5,2% (contro l’1,7% dell’Eurozona), le sofferenze bancarie sono cresciute del 33,1%, e prestiti alle imprese si sono contratti del 3,1%. Il calo ininterrotto del Pil per sette trimestri è un record assoluto, ma ancor più significativo è il fatto che dall’inizio dell’anno, a differenza del ribasso 0,2% dell’Eurozona, è continuata la sua discesa precipitosa (0,5%, che porta il calo rispetto al 2012 al 2,3% e configura un virtuale -1,5% nell’arco del 2013), con crollo registrato e futuro dell’occupazione e visibile frenata dei consumi che si rispecchia in abbattimento dell’import-export e dell’inflazione per assenza di domanda. La perdita di reddito si distribuisce in modo differente, pesando percentualmente molto, ma molto più sui poveri che sui ricchi, dunque allargando a dismisura la diseguaglianza sociale e aggravando la crisi dell’economia reale. Il tutto fa impressione –con le Borse in recupero e lo spread non preoccupante. Di che razza di mondo si tratta?

Con questo differenziale economico –imputabile almeno in parte al dissennato sostegno bi-partisan alla sciagurata ortodossia del governo Monti nell’applicare le ricette di austerità e pareggio di bilancio della Bce– si intreccia un differenziale politico che, per opposti motivi, contribuisce a rendere paradossali le larghe intese così come funzionano oltralpe (ma invero non dappertutto, anzi).

Infatti le altre coalizioni si sono costituite (o si costituiranno in Germania) per eseguire i fallimentari programmi europei tenendo fuori populisti ed euroscettici, mentre in Italia gran parte del Pdl , liquami fascisti e tutta la Lega (fuori dalla intese ma determinante per la maggioranza elettorale di Berlusconi) sono una destra populista incline al distacco dall’euro. Inoltre i due elementi decisivi della coalizione (il centro catto-montiano, l’unico servilmente europeista, è quasi irrilevante) sono fortemente anomali, al di là della crisi galoppante della rappresentanza: il Pdl è un partito padronale, in cui al momento domina non l’interesse complessivo del suo blocco elettorale o della finanza, ma l’interesse personale del capo a sfuggire alla giustizia, mentre il Pd non è un partito, ma un aggregato tendenzialmente suicida di cosche correntizie. La tenuta delle larghe intese è così affidata alle imprevedibili vicende processuali di Berlusconi e, in secondo piano, al mantenimento di cervellotiche promesse elettorali (annullamento e restituzione dell’Imu), insostenibili sul terreno degli accordi europei incautamente sottoscritti in passato, fiscal compact in primo luogo.

Il segnale più evidente dell’anomalia è il livello di rissosità interna alla pseudo-maggioranza, gestita a sinistra con imbarazzato silenzio (cui corrisponde la disgregazione della base elettorale), da destra con chiassose campagne di diffamazione mirata (character aqssassination) contro Rodotà, Boldrini, Kienge, Bocassini, Fassina, alternate a melliflui appelli alla pacificazione. Il classico scenario di chi si prepara a elezioni anticipate scegliendo il momento e il pretesto più opportuno (una condanna del Caimano o il veto europeo a una misura di detassazione), anche se dovrà fare i conti con il ricatto di Napolitano, il vero custode commissario dei poteri forti. Ricatto presidenziale cui farebbe riscontro la costruzione di una maggioranza alternativa (ancor più debole della paralisi attuale) fra Pd e grillini dissidenti –l’occasione per il grande rientro di Sel nel governo come salvatore del capitalismo regolato. La speranza che la Germania della Merkel o di una futura grosse Koalition si converta dal rigore monetario al deficit spending è il nuovo mantra del progressismo post-bersaniano e vendoliano, l’equivalente delle dicerie di Monti sulla luce in fondo al tunnel. E se domani, direbbe Veltroni, e sottolineo se –direbbe più cauta Mina…

Non facciamo previsioni, ma la precarietà comanda in Italia, oltre le vite quotidiane, anche le soluzioni parlamentari e quella attuale è a tempo determinato e pure in nero quanto nessun’altra. Il punto cruciale è la legge elettorale. Rinviarla a dopo le (improbabili) riforme costituzionali significa lasciare il Porcellum per la prossima legislatura; ritoccare il livello minimo per accedere al premio di maggioranza (improbabile) significa perpetuare il Porcellum ritoccato, rendendo solo più aleatoria la governabilità. Per cambiarlo effettivamente non c’è maggioranza, dato che oggi converrebbe solo al Pd. Quanto alle riforme, non c’è accordo neppure sul metodo costituente. Del resto, proprio l’esempio del sempre evocato (semi)presidenzialismo francese dimostra che non serve per evitare l’ingovernabilità, come ci ha spiegato pochi giorni fa Balibar, anzi Hollande è stretto tra «impopolarità e sanzione dei mercati, a rischio d’incappare in entrambi», cioè in una crisi di sistema.

Il vero problema sta nel fatto che il sistema italiano è bloccato tanto sull’identificazione della destra con Berlusconi quanto sul congelamento di tutta la sinistra (Sel compresa) nell’unità coatta del Pd. Nessuno ha il coraggio di scegliere una linea e di farla valere o di rompere, non solo per paura di una resa di conti elettorali ma per la folle idea di tutelare la coesione sociale –che sarebbe poi, al solito, tener ferma la vittima mentre il vampiro della finanza la morde alla gola. Si riproduce la situazione greca, in cui il Pasok socialista perde voti e si coalizza con Nea Demokratía di destra, a tutto vantaggio di quest’ultima. La differenza è che in Italia non c’è il secondo partito di sinistra, Syriza, quello sì a vocazione maggioritaria e avverso all’austerità. Altro che Veltroni. Altro che E se domani.