OPINIONI

Draghi secondo Kurz

Oltre l’unanimismo di politica istituzionale e stampa, un’analisi del discorso d’insediamento di Mario Draghi attraverso il pensiero del filosofo tedesco Robert Kurz

Il discorso di Draghi in Senato ha prodotto reazioni prevedibili: da una parte l’unanimismo di politica istituzionale e stampa, in cui va per la maggiore la citazione selettiva dei passaggi più convenienti per il proprio sentire, dall’altra la critica, piuttosto minoritaria, di chi vede in Draghi un novello Monti pronto a riaffermare i diktat neoliberisti nelle politiche di gestione della crisi attuale.

 

Per uscire da queste polarità è interessante leggere le parole del presidente del consiglio entrante attraverso la lente di un marxista atipico, Robert Kurz, animatore del collettivo Exit! in Germania ed esponente di spicco della “critica del valore”.

 

Una delle tesi più importanti di Kurz risiede nel non vedere statalismo e mercantilismo come opzioni antagoniste ma come momenti di «un processo ondulatorio in cui l’elemento statalista e quello monetarista si alternano e si compenetrano vicendevolmente» (pag. 44) e in cui lo statalismo riemerge in particolar modo nei momenti in cui la modernizzazione è chiamata a fare un balzo.
Secondo Kurz la stessa Unione Sovietica era parte di questo processo pur avendone rimosso un momento, quello della concorrenza, a favore di uno stato razionale puro di fichtiana memoria che proprio grazie a questa rimozione avrebbe anticipato rispetto all’occidente il manifestarsi della crisi generale della modernizzazione.

Lo Stato nel suo ruolo istituzionale «da una parte ha il compito di garantire le condizioni generali del capitalismo, dall’altra viene promosso a fattore di regolazione, pronto a intervenire attivamente nel processo di riproduzione del lavoro morto quando i settori “improduttivi” delle infrastrutture (ricerca, smaltimento dei rifiuti, assistenza sociale e sanità, educazione, riparazione dei processi distruttivi sociali ed ecologici) minacciano di soffocare la struttura di automovimento del denaro» (pag. 45).

 

Sono piuttosto significative le assonanze con alcuni passaggi del discorso di Draghi.

 

In particolare quando afferma «La risposta della politica economica al cambiamento climatico e alla pandemia dovrà essere una combinazione di politiche strutturali che facilitino l’innovazione, di politiche finanziarie che facilitino l’accesso delle imprese capaci di crescere al capitale e al credito e di politiche monetarie e fiscali espansive che agevolino gli investimenti e creino domanda per le nuove attività sostenibili che sono state create», per specificare poco più avanti che «come si è ripetuto più volte, avremo a disposizione circa 210 miliardi lungo un periodo di sei anni. Queste risorse dovranno essere spese puntando a migliorare il potenziale di crescita della nostra economia».

Sulla base di questa sintonia il governo Draghi andrebbe visto in termini di discontinuità nella continuità, tenendo bene a mente ambedue gli aspetti per evitare tanto facili illusioni keynesiane quanto una lettura semplicemente continuista della ristrutturazione alle porte.

Come già lucidamente sottolineato da Alberto De Nicola l’alto profilo della conservazione prova a ricomporre il blocco di potere della classe dirigente, a ricostituire le condizioni di possibilità della valorizzazione e nel farlo esautora il possibile rallentamento rappresentato dalla mediazione parlamentare.

 

Leggere il passaggio presente sotto questa lente serve non tanto e non solo ad una più corretta percezione del processo in atto, quanto a ipotizzare quale potrà essere l’azione politica più efficace in base alle contraddizioni e agli spazi di possibilità che si apriranno.

 

Un aspetto meno convincente nelle tesi di Kurz vede nelle forze del lavoro un fattore compiutamente interno ai processi di riproduzione, relegate a semplice prodotto del Capitale come Soggetto Automatico, mentre è proprio il grado di adesione alle sue logiche che ne determina tanto l’efficacia quanto la sua potenziale messa in crisi.

 

Foto da Flickr

 

Se le conseguenze della dissoluzione del movimento operaio hanno portato alla conferma di alcune previsioni avanzate a inizio anni ’90 dal filosofo tedesco (il ruolo del fondamentalismo islamico, le crisi migratorie, i sovranismi), allo stesso tempo il termine della sua parabola teorica rischia di ritrovarsi sul binario morto di una totalità senza vie d’uscita materiali, in cui l’unica alternativa è «prendere coscienza» grazie alla teoria critica.

 

In realtà lo stesso discorso di Draghi offre gli spunti delle contraddizioni che si apriranno, in cui gli ideali astratti entreranno in conflitto con le necessità concrete.

 

Cosa significa salvare i lavoratori? Affermare una priorità delle vite dinanzi ai profitti o gettarli nell’inferno workfaristico dell’alternanza lavoro-non lavoro? Per centralità delle politiche attive e dell’educazione si intende lo sviluppo delle capacità e propensioni individuali o l’orientamento e il ricatto al lavoro senza diritti? La transizione ecologica è un modo per salvare il pianeta ripensando il modello irrazionale del suo consumo o per rilanciare la redditività attraverso nuove forme insostenibili? E ancora, per parità di genere si intende la demolizione delle gerarchie di potere o l’acuirsi delle «condizioni competitive» citate a più riprese da Draghi, funzionali alla compressione salariale? Ognuno di questi temi non può essere visto solo come progetto lineare di sussunzione.

Rappresentano allo stesso tempo terreni di contesa, incrinature dello spazio liscio, momenti di soggettivazione possibile, come già in questi anni hanno mostrato i movimenti internazionali femministi ed ecologisti, BLM negli Stati Uniti o i Gilets Jaunes in Francia.

Sta a noi inventare l’ignoto in un presente fatto non solo di resistenza, ma di vero e proprio contrattacco.

 

Foto di copertina di Pietro Naj-Oleari da Flickr