MONDO

“Doveva finire male, è finita peggio”

Deportati dall’Europa in un paese in guerra ma dichiarato “sicuro”, usati come carne da cannone nella guerra contro Isis

Esiste un proverbio in afghano che recita come il titolo di questo articolo. Non esiste modo migliore per gli afghani per sintetizzare la propria storia degli ultimi 50 anni. In italiano suonerebbe un po’ come “passare dalla padella alla brace”, e per gli afghani c’è stato sempre qualcosa di peggiore. Persino quando dalla “brace” della loro disperata terra hanno provato a scappare.

Negli ultimi quattro mesi ci sono state a Berlino diverse manifestazioni agli aeroporti di Tegel e di Schoenefeld. Manifestazioni organizzate in poche ore, da qualche centinaia di attivisti antirazzisti per fermare la “macchina da deportazione tedesca”, che dallo scorso dicembre ha ripreso a funzionare a pieno ritmo, per espulgere i richiedenti asilo arrivati nel ricco e spietato cuore d’Europa. I manifestanti provano a fermare i voli charter Berlino–Kabul che riportano in Afghanistan i richiedenti asilo a cui è stato rifiutato lo status di rifugiato. I voli partono senza preavviso, ma la reattività delle reti antirazziste consente, per quanto possibile con un anticipo così breve, di denunciare i viaggi della vergogna. L’Europa, dopo aver partecipato alla campagna militare americana contro i Taliban, e a guerra non ancora conclusa, riporta al punto di partenza esseri umani, che, sopravvissuti a un lungo e straziante viaggio, speravano di poter essere finalmente accolti.

Il 31 maggio 2017 a Norimberga ci sono stati scontri tra la Polizei e gli studenti di una scuola che si opponevano alla deportazione di un loro compagno di classe afghano: un muro umano di solidarietà e coraggio l cui immagni hanno fatto il giro del mondo. Lo stesso giorno, a Kabul, un’autobomba ha ucciso 90 persone e ne ha ferite 400, segnando una connessione plastica tra luogo di partenza e di arrivo verso cui la Germania deporta i rifugiati.

Ma come è possibile che questo avvenga? Come è possibile rifiutare lo status di rifugiato a chi scappa dalla nazione al mondo con il maggior numero di attacchi terroristici, con una guerra che dura da 15 anni, da uno stato a cui proprio l’Occidente ha dichiarato guerra?

Cerco così le risposte a queste ed altre domande che via via si aggiungono infine, all’orrore provato per il cinismo delle istituzioni europee, si sostituisce lo sgomento per aver “scoperto” quel “peggio” a cui fa riferimento il proverbio.

Forse è bene andare con ordine, ripercorrendo passo dopo passo un percorso di inchiesta personale iniziato per rispondere a domande che dovrebbero essere le domande di tutte e tutti coloro che ricordano cosa è accaduto e cosa ci è stato raccontato dall’11 settembre 2001 su terrorismo, guerra, Islam, immigrazione.

Rimpatri forzati e ipocrisia europea

Per rispondere ai dubbi citati prima, inizio dai dati ufficiali dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati. Secondo l’UNHCR l’Afghanistan è il secondo Paese di origine dei rifugiati nel mondo, mentre continuano a crescere le vittime civili di un conflitto mai terminato e tra queste vittime civili raddoppiano il numero di donne e bambini. C’è chi abbandona la propria casa semplicemente perché non ne ha più una o non può tornarci: gli sfollati nel 2016 si contano in circa 1,3 milioni, e vivono in condizioni disastrose. Nell’autunno del 2016 l’Ufficio Europeo di Supporto per l’Asilo (EASO) ha pubblicato un report in cui si rilevavano continui e intensi conflitti armati (il numero più alto dall’inizio del conflitto nel 2001), arresti arbitrari, torture, stupri. Tuttavia, sempre nell’autunno 2016, l’Unione Europea ha firmato con il Governo Afghano un protocollo di intesa: il Joint way forward on migration issues between Afghanistan and the European Union. Cosa dice questo protocollo? Perché e da chi è stato voluto?

Il protocollo è un espediente trovato dall’Unione Europea per rispondere alle domande di richiesta di asilo da parte di cittadini afghani, ovviamente con l’obiettivo di respingerle. Domande che hanno raggiunto tra il 2015 ed il 2016 quasi quota mezzo milione. Nel d’intesa, con invidiabile cinismo, l’UE offre ad un governo ormai alla canna del gas, ma “formalmente riconosciuto”, il pagamento di 3,5 miliardi di debito in cambio della rigida applicazione dei punti dell’accordo che riguardano i rifugiati. Essendo l’accordo formalmente stipulato con un governo riconosciuto dall’ONU, rispetta le Nazioni Unite e non rischia alcuna critica da parte dall’UNCHR. Insomma, un accordo legittimo in punta di diritto. Una mossa luciferina da parte dell’Europa. Il protocollo prevede il rimpatrio volontario o forzato di tutti i cittadini afghani che non hanno base legale per restare in un paese UE. Per dirla in soldoni, prevede la deportazione di tutti gli afghani a cui viene rifiutato lo status di rifugiati, in quanto stipulato con il governo sovrano di un paese “sicuro”. Addirittura l’accordo menziona la “possibilità di costruire un apposito terminal aeroportuale a Kabul esclusivamente per questo scopo”. Un hub detentivo per cittadini indesiderati.

Cui prodest? La risposta è nei fatti. Nelle stesse ore della firma del protocollo di intesa UE, venivano siglati altri tre protocolli di intesa bilaterali con il governo di Kabul, proprio nelle stanze adiacenti. Germania, Svezia e Finlandia rafforzavano la propria legittimità a procedere urgentemente con le deportazioni, firmando accordi ad hoc. Il giorno dopo 300 insegnanti svedesi firmavano un appello sul principale quotidiano nazionale in cui protestavano con il governo, chiedendo di ritirare l’accordo bilaterale e di fermare la macchina delle deportazioni. Alle insegnanti svedesi si sono presto unite le organizzazioni umanitarie, le associazioni, le comunità migranti, gli attivisti antirazzisti la cui capacità di mobilitazione è cresciuta via via che negli ultimi sei mesi l’accordo diventava operativo.

Il protocollo è stato preceduto da un documento riservato del marzo 2016 redatto dalla Commissione in cui si spiegava la necessità di un accordo con l’Afghanistan partendo dalla distinzione tra profughi provenienti da aree colpite dalla guerra e migranti economici. Una distinzione totalmente arbitraria, che fotografa un Afghanistan di circa cinque anni precedente alla stesura del medesimo documento. A Germania, Finlandia e Svezia vanno poi aggiunte altre due nazioni che nel 2015/16 hanno rifiutato in massa agli afghani lo status di rifugiato: la Danimarca e, fuori dall’UE, la Norvegia. È utile ricordare come di questi 5 Paesi solo uno ha fatto parte della missione “ISAF” in Afghanistan dal 2001 al 2014: la Germania. La stessa Germania che ha spinto nell’ambito di quella stessa alleanza internazionale per la chiusura della missione, con il conseguente ritiro di 32 paesi su 37. La missione NATO è diventata dal 2015 “RS”, e proprio Berlino ha ritirato in questo cambio il 75 % del proprio personale in Afghanistan (rimangono sul campo nell’ambito di questa missione solo USA, Georgia ed Italia).

Nel 2015 lo stesso ministro afghano per i profughi – che da lì ad un anno avrebbe firmato gli accordi con l’UE e con Germania, Svezia e Finlandia – aveva definito il proprio paese come “non sicuro”, invitando le autorità europee a sospendere i rimpatri, allora ancora limitati. Dopo gli incontri tra il ministro e gli ambasciatori di Norvegia e Regno Unito, dopo diversi accordi commerciali e dopo un aiuto di 3,5 miliardi di euro per il suo governo, il ministro ha evidentemente cambiato posizione nel giro di qualche mese. Nella giungla di documenti, accordi, protocolli di intesa che riguardano la questione degli afghani in fuga dalla nefasta guerra voluta da Bush, emerge la reintroduzione, sempre nel quadro UE e sempre nel 2016, di uno strumento inventato nel 1994, abbandonato per il suo dubbio valore legale: il lasciapassare europeo. Nel caso in cui il governo di Kabul non avesse sottoscritto né l’accordo con l’UE dell’ottobre 2016, né gli accordi bilaterali, l’UE aveva già istituito uno strumento che permetteva la deportazione dei rifugiati in uno Stato terzo, in un limbo in cui sarebbero stati riesaminati i casi. È lo stesso tipo di dispositivo che oggi permette all’Italia di chiudere accordi con la Libia, con dittature africane, o all’UE con la Turchia sui siriani.

È da quando, in un modo che eufemisticamente potremmo definire ottimista, Bush dichiarò sconfitto il regime dei Talebani nel 2002, gli stati dell’UE provano a inventare modi per deportare gli afghani aggirando il diritto internazionale. Questi sforzi si sono rivelati fallimentari, poiché la politica militare e quella estera dei singoli paesi dell’Unione si era impegnata in Afghanistan in ordine sparso, così da creare zone grigie del diritto internazionale tra l’alleanza intervenuta in Afghanistan, i singoli governi nazionali e l’Unione Europea. Con il solito piglio decisionista, con la copertura mediatica della retorica dell’accoglienza dispiegata nell’estate del 2015, la Germania ha preso in mano la situazione. Mentre la Cancelliera Angela Merkel si presentava al mondo come paladina dei diritti contro l’Europa del ritorno al nazionalismo, il suo ministro dell’Interno, Thomas de Maizieres, annunciava l’intenzione di affrontare la questione dei rifugiati afghani con il rimpatrio diretto dei richiedenti asilo respinti. De Maizieres aggiungeva che avrebbe spinto l’intera UE a discutere del tema e che, qualora non si fosse giunti a una soluzione, la Germania avrebbe sottoscritto un accordo bilaterale con il governo di Kabul.

Da lì ad un anno con il suo peso politico, la Germania ha ottenuto sia l’accordo UE, che l’accordo bilaterale. E addirittura la ridefinizione della missione militare NATO. Questi accordi, come quello con la Turchia, sono stati siglati senza il voto dell’Europarlamento, svuotato di ogni potere. Allo stesso modo che con le politiche economiche, l’austerity e la gestione della crisi greca, la Germania ha riaffermato ancora una volta la sua idea di governance europea: delle questioni reali si occupano la Commissione e i diversi governi europei, il Parlamento Europeo si limiti a discutere e vigilare su eventuali vizi di forma.

Se dovesse essere utile confermare l’estorsione mossa dalla Germania e dall’UE sul fragile governo di Kabul nell’accordo fatto sulla pelle dei rifugiati, basta citare l’intervento del ministro degli Esteri afgano al proprio parlamento, di ritorno da Bruxelles: “I Paesi europei ci hanno detto: ‘O vi diamo degli aiuti per i profughi afghani nei nostri Paesi o per i progetti di sviluppo in Afghanistan. Potete scegliere tra queste due opzioni’”. La messa in pratica del caro vecchio slogan della peggior destra “aiutiamoli a casa loro”, rispetto alla quale Merkel si presenta come alternativa.

Dalla ratifica dell’accordo, Svezia, Germania, Finlandia, Danimarca e Norvegia hanno accelerato le procedure di esame delle richieste d’asilo da parte degli afghani. L’impressione che si ottiene dall’analisi dei documenti ufficiali è che un blocco di Paesi stia sempre più determinando un cambio di passo verso una politica estera europea che passi anche da una politica militare europea. La Germania è ovviamente in prima fila, come confermano le dichiarazioni recenti della Cancelliera. Per farlo, sotto un profilo irreprensibile per il diritto internazionale, bisogna chiudere l’”anomalia afghana”, chiuderla dal punto di vista militare, quindi anche chiuderla sul piano umanitario, pazienza che questo significhi la morte per decine di migliaia di persone in fuga.

Il cinismo insopportabile e l’ipocrisia dell’Unione Europea a trazione tedesca, rende possibile definire l’Afghanistan come “paese sicuro”.

L’Afghanistan è un paese sicuro solo per i politici europei

Un paese sicuro ma in guerra permanente da cinquant’anni. Questo è l’Afghanistan verso cui partono i charter della vergogna. Forse per capire effettivamente il “male” verso cui l’Europa in generale, e la Germania in particolare, deportano decine di migliaia di afghani, è bene usare le parole che ha pronunciato qualche giorno fa il Capo dei Servizi Segreti USA, Dan Coats, a 15 anni dall’inizio del loro intervento militare: “La situazione politica e di sicurezza in Afghanistan andrà, quasi certamente, a deteriorarsi nel 2018, anche con un modesto aumento della assistenza militare dagli Stati Uniti e dai suoi partner, in Afghanistan si lotta per frenare la dipendenza dal supporto esterno fino a contenere l’insurrezione o raggiungere un accordo di pace con i talebani”. Un’affermazione che, al netto di ogni cattiva fede da parte di chi scrive, potremmo interpretare con un “non solo l’Afghanistan non è una nazione pacificata e sicura, ma stiamo perdendo la guerra e l’unica soluzione è trattare una pace con i nostri nemici, i talebani”. “I taliban hanno buone ragioni di credere che stanno vincendo” ha infatti confermato l’analista del Dipartimento di Stato USA Weinbaum al Newsweek.

Come l’ISIS con l’Arabia Saudita più recentemente, i talebani dal 1996 fino al 2001, appoggiati dal Pakistan, fondarono l’Emirato Islamico dell’Afghanistan, che all’epoca comprendeva oltre il 90 per cento del Paese, imposero la sharia e un’interpretazione del Corano “letterale” (talebani è il nome con cui si definiscono gli studenti di teologia coranica di etnia pashtun, etnia cui appartengono circa la metà degli afghani e dei pakistani). Ciò che non rispondeva al loro controllo era una parte del paese appoggiata da un’alleanza tra Iran, Russia e India. Ma dopo l’11 Settembre 2001 gli Usa lanciarono una campagna militare contro il regime dei talebani. Campagna che fu dichiarata vittoriosa con l’insediamento di un nuovo governo a Kabul. I fatti degli ultimi 15 anni stanno a dimostrare come, in realtà, la guerra non solo non è stata vinta, ma addirittura persa e come il governo afgano ormai non controlli il territorio che, nel 2017, risponde nuovamente per il 70% al controllo dei taliban.

Durante la sua amministrazione, l’ex presidente Barack Obama ha annunciato il ritiro delle truppe statunitensi dall’Afghanistan. Gli Usa hanno speso gli ultimi anni a formare le forze di sicurezza afghane, ma ogni tentativo in questo senso è risultato fallimentare. Dall’apertura dell’era Obama ad oggi i talebani hanno guadagnato terreno, partendo dal controllo delle aree più periferiche del paese e delle vie logistiche di comunicazione. Nel cono d’ombra generato dallo spostamento dell’attenzione verso il mondo arabo e verso l’ISIS, i taliban hanno prodotto una controffensiva che ha completamente reso inutili le migliaia di morti che dal 2001 ad oggi hanno insanguinato l’Afghanistan.

Addirittura, secondo gli ultimi rapporti USA, i taliban hanno aumentato la loro forza militare rispetto al 2001 arrivando a quasi 30.000 militanti. Per paradosso e ironia, una loro scissione ha fatto nascere anche in Afghanistan una cellula wahabita che si richiama all’ISIS con circa 1.000 soldati. Questa cellula ISIS combatte in modo violentissimo i taliban e minaccia a sua volta il controllo di una parte del territorio.

Il Washington Post ha inoltre recentemente portato alla luce rapporti tra i vecchi “nemici”: talebani, Iran e Russia nel controllo del territorio per rispettivi interessi geopolitici. Questo è uno degli aspetti più grotteschi della vicenda: mentre l’Unione Europea stringe accordi con un governo debolissimo “riconosciuto” a Kabul, la Russia e l’Iran, una volta uniti contro i talebani, hanno iniziato a tutelare i propri interessi nell’area stringendo accordi e relazioni con i seguaci del Mullah Omar. Nel mese di febbraio 2017, il generale dell’esercito John Nicholson Jr., un alto comandante Usa in Afghanistan, ha affermato nella sua relazione al Senato che “la Russia è diventata più assertiva nel corso dell’ultimo anno, dando in modo aperto credito e legittimità ai talebani nel tentativo di minare gli sforzi della NATO e rafforzare le parti belligeranti” con la scusa che i talebani sono stati coinvolti nella lotta contro l’ISIS proprio in Afghanistan. Il generale USA ha infine affermato anche che “il vicino Iran sta fornendo sostegno ai talebani”.

Ma, nonostante le affermazioni ufficiali che denunciano l’anomala collaborazione tra Federazione Russa, Iran e talebani, gli Stati Uniti hanno prestato poca attenzione alla nazione dilaniata dalla guerra da loro stessi scatenata. A questo disimpegno progressivo degli ultimi anni, si è aggiunta la politica del nuovo presidente Donald Trump. Il nuovo inquilino della Casa Bianca ha colpito due mesi fa con la “Mother of all the bombs” le postazioni ISIS in Afghanistan, ma a ben guardare le forze in campo, al netto di ogni vuota retorica, questo ha rinforzato i taliban, e quindi la Russia e persino l’Iran. Un cambio di paradigma rispetto alle azioni mirate dell’amministrazione Obama che, assassinando i capi tribù taliban colpendo con gli interventi (quasi) “chirurgici” dei droni, aveva destabilizzato l’intero paese trascinandolo in una fase ancora più sanguinosa della precedente guerra civile permanente per il controllo di gasdotti, vie logistiche dell’immigrazione e delle piantagioni di oppio.

Per completare il terribile quadro del Paese, che le istituzioni europee e la Germania ritengono safe, si può aggiungere il ruolo documentato in sede NATO di due nazioni tra loro nemiche e con arsenali nucleari come l’India ed il Pakistan, che forniscono denaro alle diverse parti in guerra per impedire la pace. E si può infine segnalare come i taliban, le varie forze militari, l’ISIS, gruppi tribali che controllano i territori contesi agiscano con stupri, omicidi di massa, rappresaglie contro i civili, attentati terroristici, massacri, regolamenti di conti contro le diverse minoranze etniche che vivono sul territorio (minoranze cui appartengono la maggioranza dei rifugiati che stiamo deportando verso morte certa).

Quindi “Afghanistan is not safe” e nel 2017 lo sarà ancora meno. Su questo hanno perfettamente ragione (e sono concordi nel dirlo) i rifugiati, gli attivisti, i militari e gli osservatori internazionali. Ma ai governi europei evidentemente non interessa. Per questo, il 2017 sarà un anno di espulsioni e di proteste. Il trattamento riservato ai profughi afghani è uno dei tanti vergognosi frutti delle politiche di asilo europee. Sono politiche ingiuste perché non garantiscono protezione a chi dovrebbe riceverla; discriminatorie, perché si basano sull’assunto che la vita e la libertà di alcune persone valgono meno di quelle di altre; brutali, perché prevedono il ricorso al ricatto e alle intimidazioni (con i governi degli stati terzi) e alla violenza (contro i cittadini di questi stati). Prevalgono gli interessi nazionali mentre dovrebbe prevalere il diritto. Per tutte queste ragioni, si tratta di scelte che devono essere combattute.

I rifugiati afghani utilizzati come carne da cannone in Siria

Parlando con i rifugiati afghani qui a Berlino e con attivisti siriani e iraniani, ho potuto scoprire una verità incredibile. Una verità che, andando a ritroso tra gli articoli di diversi giornali (su tutti il Wall Street Journal, il Guardian e la FAZ tedesca), era già stata diffusa negli scorsi anni, non colpendo evidentemente l’opinione pubblica: gli afghani deportati dai paesi UE, per evitare la morte certa in Afghanistan, si arruolano nelle milizie sciite iraniane o siriane per combattere l’Isis. In cambio ottengono cittadinanza, casa e uno stipendio (tra i 500 e i 1000 dollari al mese).

Eccolo il peggio cui l’Europa costringe migliaia di persone: scegliere tra una morte certa e una morte molto probabile. Costringere chi scappa da una guerra a scegliere se tornare a casa e subire la guerra o essere dirottato a combatterne un’altra, altrove, per interessi diversi.

Già nel 2013, un video della CNN sulla Siria mostrava un prigioniero dell’ISIS che non parlava l’arabo ma Dari, lingua di una minoranza etnica afghana. La circostanza evidentemente non destò alcun sospetto. Il prigioniero prima dell’esecuzione, disperato, diceva: “Gli iraniani pagano gente come me per venire qui a combattere. Io sono un afghano emigrato in Iran. Gli iraniani ci portano a combattere in Siria, io non voglio più combattere”.

Il video fu giudicato evidentemente frutto della propaganda di Daesh, e derubricato a operazione di depistaggio politico dai più.

Ma già nel 2014 proprio la CNN intervistò sul campo altri afghani arruolati, scoprendo il segreto di Pulcinella che tutti conoscevano in Siria, a Bruxelles, e nei centri di accoglienza tedeschi. Come ricostruito anche dal Wall Street Journal esiste una formazione militare attiva tra la Siria e l’Iraq, la divisione Fatemioun, appartenente alle milizie sciite iraniane composta esclusivamente da cittadini rifugiati afghani. Una componente non marginale (solo negli ultimi tre mesi sono circa 400 gli afghani caduti nei pressi di Raqqa, nella battaglia contro Daesh). Una battaglione che rappresenta, ovviamente dopo Hezbollah, la principale forza militare sciita sul campo di battaglia. I militari vengono pagati con Riyal iraniani, su conti correnti iraniani per cifre che variano tra i 500 e i 1.000 dollari mensili. Viene inoltre garantito loro lo status di cittadino iraniano e una casa per le famiglie nel Beluchistan iraniano (la regione a confine con l’Afghanistan, nonché l’area più povera e desertica dell’ex Persia).

L’Iran non ha mai fatto mistero del suo coinvolgimento in Siria, ma aveva sempre sostenuto la natura “volontaria” del proprio intervento secondo i rigidi protocolli della legge internazionale, tanto cara, almeno formalmente, al Cremlino. Le verità che vengono fuori dalla vicenda degli afghani della divisione Fatemioun smentiscono queste tesi.

Il reclutamento avviene con cadenza quotidiana nei villaggi di Mashhad e Qom, i due villaggi iraniani con la più grande popolazione di rifugiati afghani. Mashhad, a tre ore dal confine afghano è la seconda città più popolosa dell’Iran dopo la capitale. Tra le infinite baraccopoli dove vivono gli afghani (alcuni di loro di religione sciita e per questo già rifugiati da prima del 2001), in particolare nella città santa di Qom, dove vengono sepolte le salme che tornano dalla Siria, file di giovani aspettano davanti alle moschee di diventare “difensori del santuario”. Si arruolano per la guerra in Siria ed Iraq contro i sunniti di Daesh, ma prima di tutto inseguono la speranza di togliere dalla miseria sé e la propria famiglia. Per fornire la dimensione del fenomeno, e il bacino di carne da cannone da cui l’Iran può attingere, basta pensare al numero di afghani regolari in Iran, circa un milione, a cui vanno aggiunti due milioni di irregolari che in Iran sono presenti in modo regolare circa un milione di afghani, e si stimano a circa due milioni le presenze irregolari.

Se questo è l’arruolamento che tocca ai rifugiati afghani presenti in Iran già da diversi anni (sciiti in particolare), più inquietante è la sorte di chi viene rimpatriato coattamente in patria. Da un’inchiesta della CNN condotta nell’Afghanistan orientale nel 2015, emerge un arruolamento in loco, da parte di agenti iraniani attivi in aree sotto il controllo dei talebani. Arruolamento che non risparmierebbe neanche ragazzi con meno di 18 anni (con l’autorizzazione “formale” della famiglia). Come riportato dalla medesima inchiesta, sono proprio i taliban a offrire l’alternativa in quelle aree ai rifugiati deportati dall’Europa: o la pena di morte o l’arruolamento in Iran. Chi sceglie, comprensibilmente, l’arruolamento ,ha garanzie sulle sorti della propria famiglia. Lo sventurato viene condotto, bendato, presso una stazione di polizia sotto il controllo dei talebani e mandato attraverso il territorio afghano in Iran sotto la supervisione degli agenti iraniani.

La Guardia Rivoluzionaria gestisce l’addestramento militare di chi viene portato in Iran. Ai più giovani che tornano vivi dal fronte viene garantito il ricongiungimento familiare, la formazione universitaria e una pensione di guerra. Con una legge votata appena un anno fa dal parlamento, in caso di morte sul campo di battaglia viene immediatamente riconosciuta alla famiglia dell’afghano arruolato lo status di rifugiati in Iran. La Guardia Rivoluzionaria Iraniana e i suoi consiglieri militari sono attivi fin dall’inizio del conflitto al fianco di Bashar Al Assad a Damasco, e recentemente hanno dichiarato l’esistenza di volontari provenienti anche dal Pakistan (il che confermerebbe una continuità mai formalizzata con il controllo del reclutamento da parte dell’etnia pashtun, cioè in altre parole dei taliban).

A ulteriore riprova della sorte tremenda che tocca agli afghani, carne da cannone di un conflitto in cui l’Occidente è grande manovratore e narratore interessato, anche un’inchiesta fatta dalla BBC nel 2015 (il Regno Unito è stato il primo Paese a intervenire in Afghanistan al fianco degli USA, ma anche il primo Paese a negare lo status di rifugiato agli afghani in fuga). Secondo la BBC nel 2015 c’erano circa 10.000 afghani impegnati nella regione di Aleppo, scarsamente armati e addestrati.

Ancora una volta i media internazionali e i siti esperti di geopolitica “interessata” non si sono chiesti cosa ci facessero 10.000 soldati afghani ad una distanza di 4.000 km da Kabul, né come avessero attraversato quattro confini di altrettanti paesi in conflitto. Per dare una misura dell’efficacia dell’arruolamento spietato messo in campo per combattere l’ISIS, in confronto al disinvestimento occidentale in Afghanistan, basti far notare che le milizie afghane presenti solo nell’area di Aleppo, in Siria, solo nel 2015, sono pari all’intero numero di forze militari del governo afghano addestrate dalla NATO negli ultimi 7 anni per “stabilizzare il Paese”.

La divisione incontrata all’epoca dalla BBC era composta dalla minoranza Hazara, la più minacciata dai Taliban in patria (la più radicale nelle proteste contro le deportazioni odierne dall’Europa). Amir, un militare afghano intervistato dall’emittente inglese ad Aleppo, dichiarò candidamente: “Arrivati in Unione Europea non riceviamo né documenti di viaggio né di identità. Ogni giorno viviamo nella paura di un arresto e di deportazione. Non possiamo lavorare od ottenere alcuna licenza, in alcuni casi neanche una scheda SIM per il telefono cellulare, quando viene rifiutato il permesso veniamo portati dai centri per richiedenti asilo direttamente ai centri di espulsione e da lì di nuovo in Afghanistan”. Era il 2015 e non c’era ancora alcun protocollo di intesa con il governo Afghano, erano casi individuali a cui la Commissione d’esame della domanda rifiutava il permesso. È lecito pensare che negli ultimi mesi la situazione sia peggiorata.

Nella stessa inchiesta della BBC viene intervistato un altro soldato afghano, rispetto all’intervento militare contro l’ISIS: “Ci siamo resi conto di essere truppe sacrificabili per Assad. I generali dell’esercito siriano ci trattano con disprezzo e ci utilizzano per i compiti più ingrati, come truppe d’assalto e d’avanguardia. Non abbiamo alcuna fornitura, spesso stiamo senza cibo e acqua nel deserto. Abbiamo conquistato intere aree siriane con elevate perdite umane e abbiamo, pagando un altissimo prezzo, riconsegnato il territorio nelle mani dei soldati dell’Esercito Siriano”.

Per un’inchiesta del Guardian del 2016, viene intervistato un 24enne rifugiato afghano in Inghilterra a cui è stato rifiutato lo status. Il giovane, Majtaba Jalali, è nato in Iran ma non ha la cittadinanza iraniana. Con straordinaria lucidità dichiara: “Questa è una guerra che l’Iran sta combattendo a spese di qualcun altro e sono i rifugiati afghani in Iran che stanno pagando il prezzo del sostegno di Teheran ad Assad. L’Iran mente sui reali motivi dell’accoglienza verso gli afghani. Non ci sono motivi religiosi ma solo politici. Invece di proteggere i propri profughi, l’Iran li sta usando.”

Viste le politiche messe in campo dopo l’accordo del novembre 2016 tra UE e governo afghano, il suo ragionamento potrebbe essere traslato alla Germania e all’intera Europa.

Nello svolgere questa inchiesta mi sono imbattuto in un documento ufficiale dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati che già nell’aprile 2013 denunciava l’arruolamento coatto in Afghanistan dei rifugiati deportati per combattere in Siria. Evidentemente alla Germania e all’UE questo documento di quattro anni fa è sfuggito, come è sfuggito alle commissioni dello stesso UNCHR per il rilascio dello status di rifugiati e a gran parte delle organizzazioni, Frontex in primis, che si occupano di rifugiati.

Ricapitolando. Dopo l’11 settembre 2001 l’Occidente ha dichiarato guerra ai Taliban del Mullah Omar e di Osama Bin Laden. Purtroppo per gli afghani scappati da quella guerra, negli ultimi 16 anni l’Unione Europea ha deciso di compattare la propria strategia estera e militare e deve chiudere in fretta la parentesi afghana, in cui si era cimentata in ordine sparso. Per farlo, ha dovuto dichiarare il paese centroasiatico sicuro, anche se non lo è, e ha dovuto stringere accordi con un governo fantoccio ormai non in grado di controllare il territorio. Dichiarando il Paese sicuro ha accettato, suo malgrado, le conseguenze umanitarie di questa scelta. L’UE, e la Germania in primis, ha deciso di regalare carne da cannone per altre guerre. Per la “ragion di Stato” sacrifica il diritto internazionale e l’ipocrita “accoglienza”, consegnando in massa famiglie di afghani pronti per essere arruolati a forza dai Taliban (proprio loro, gli stessi del 2001) per andare in Siria a difendere Assad (ma non era un nemico?) da Daesh, con il beneplacito della Russia e il supporto logistico dell’Iran.

Di recente, però, fortunatamente qualcosa ha iniziato a scricchiolare anche nel cuore di pietra europeo. Si è aperto un altro fronte di opposizione, istituzionale ed interno questa volta, con grande irritazione di Berlino: sei Bundesländer (stati federati tedeschi) su sedici hanno infatti deciso di sospendere i rimpatri forzati verso l’Afghanistan, sfiduciando nei fatti il governo federale (in Germania i laender hanno poteri persino superiori al governo, in alcuni casi), sostenendo che le condizioni di sicurezza nel paese non sono compatibili con il ritorno di richiedenti asilo respinti. Ma, mentre tempi della politica decidono cosa fare di decine di migliaia di esseri umani mandati a morte certa, le retoriche xenofobe e razziste, le “ragioni di stato” e la postverità della retorica geopolitica ci sta rendendo complici di un massacro reiterato contro gli afghani e di altri conflitti.

Smettiamola con la geopolitica da tavolino: ascoltiamo chi fugge

Qualche giorno fa, tutte le principali testate giornalistiche occidentali parlavano della rottura tra gli USA e la Germania al G7 di Taormina sui temi che riguardano il cambiamento climatico e l’accoglienza dei migranti. Più volte si citava l’intervento di Angela Merkel in cui si richiamava l’Europa ad una propria indipendenza in politica estera e militare dagli USA e dalla Russia. Ma mentre la Cancelliera richiamava alla necessità di difendere valori europei come l’ambientalismo e l’accoglienza per produrre uno scarto “ideologico” contro il protezionismo di Trump ed il nazionalismo sovranista di Putin, questa mia piccola ricerca, fatta proprio partendo dalla capitale tedesca, mi dimostrava come dietro un paravento di “neoumanesimo liberal” le discussioni delle governance riguardavano cinicamente solo interessi economici ed aree di influenza politica. Nella settimana successiva al G7 di Taormina sono stati firmati protocolli di intesa militare tra Danimarca, Germania, Svezia, Finlandia e Novergia; quattro paesi UE e un paesa extra UE. Stranamente, gli stessi Paesi che hanno cambiato le regole di accettazione dei rifugiati afghani, gli stessi Paesi che hanno firmato accordi bilaterali con Kabul per i rimpatri forzati. Un nesso che, mi auguro, dopo questo articolo apparirà non solo non casuale, ma strettamente conseguenziale.

Partendo dalle piccole e terribili storie “minori” dei rifugiati afghani, dal basso insomma, ho ricostruito una complicata rete di relazioni ed interessi che spiega finalmente senza alcuna retorica il mondo per come si dà oggi, almeno limitatamente al “capitolo Afghanistan”. Il G7, come anche il prossimo G20 di Amburgo, per come sono stati raccontati e per come verranno raccontati, dopo questa personale ricerca mi appaiono completamente svuotati di ogni tensione “ideologica”. Angela Merkel non appare più come Obama l’aveva chiamata “la Cancelliera del mondo libero”, ma piuttosto come un vero e proprio “dispositivo retorico” con cui la Repubblica Federale Tedesca compatta e rinforza i propri interessi geopolitici sull’Europa e nel mondo.

Il fatto che questo appaia più chiaro mettendo in connessione le storie di chi scappa dalla guerra, con gli atti ufficiali, i flussi di denaro, i rapporti delle forze in campo può solo dimostrare come la “geopolitica da social network”, il campismo, sia funzionale a segmentare la lettura del mondo in tante piccole porzioni che, se perdono connessione tra loro, rendono più facile la diffusione di retoriche xenofobe che blaterano di invasioni e islam o prendono le parti di tifoserie opposte.

Lungo un filo rosso che da una scuola di Norimberga arriva alle montagne al confine tra Afghanistan e Pakistan, passando per i centri di detenzione, gli aereoporti europei, le sedi istituzionali di Bruxelles, Berlino e Kabul, i centri abitati del Beluchistan Iraniano e persino il Pentagono, come anche nel deserto al confine irakeno-siriano, si snoda la spiegazione razionale, logica, materialista della tragedia afghana.

Una crudele odissea con decine di migliaia di protagonisti verso cui la nostra indifferenza, la nostra pigrizia, il nostro distacco svolge un ruolo centrale.

Doveva finire male, finirà peggio”. Con la convinzione che la storia non finisce, spero che il metodo di ricostruzione della politica internazional, dello ‘scacchiere geopolitico’, parta dai corpi in fuga, dalle storie, così da interpretare il mondo fuori dalla propaganda nazionaliste o con gli occhiali dell’eurocentrismo dei nostri media.

ps: giovedì 1 giugno il governo federale tedesco ha annunciato, in seguito agli attentati recenti e agli scontri di Norimberga e alle posizioni dei Laender di avere intenzione a luglio 2017 di verificare le reali condizioni di sicurezza dell’Afghanistan. Non sappiamo tuttavia in questo tempo quanti afghani saranno deportati. Intanto, sabato 3 Giugno 2017 a Kabul un attentato ha ucciso 18 persone ad una cerimonia a cui partecipava anche il premier; l’attentato è stato criticato dai Taliban e rivendicato dall’ISIS.