ROMA

Dove sta Corcolle

Perché la scelta di fare di Roma una città diffusa è servita ai signori della rendita. Un tempo abusivi oggi proprietari sempre tenuti lontano dal poter decidere di che fare della città e dei propri diritti

Interviene G. “Io a Corcolle non ci sono mai stato. Sono stato però, anche un sacco di volte, a Ponte di Nona”. Siamo “dentro” un’assemblea. Parliamo di Roma. Della città che vogliamo. Di quella in cui ci sentiamo intrappolati. Parliamo di Diritto alla città. Una bella assemblea. Siamo in tanti e questo succede da un po’ di tempo.

Nella confessione geografica di G. c’è Roma. Ci sono i temi e le lotte dei movimenti. Gli spazi, le realtà, il protagonismo, in una parola la vita, dei tanti centri sociali. I servizi urbani che balbettano. I palazzi del potere con i loro riti e le nostre manifestazioni. I tanti “dove” che abbiamo liberato. Quelli che ci hanno sottratto. Quelli da cui ci hanno cacciato. Ci sono le molte periferie auto sovrappostesi al corpo della città, senza che noi le conoscessimo. Quelle politicamente decise e costruite, ma non urbanisticamente risolte. Come appunto è Ponte di Nona. La nominiamo spesso per il suo essere distante. Distante da dove?

Dalla colonna del milliarium aureum, al Foro sotto al Campidoglio, da cui Augusto misurava le miglia che separavano Roma dalle altre città dell’Impero? Dal centro storico abitato solo fino a pochi decenni fa ed oggi derubricato a feticcio commerciale di se stesso? Da quei quartieri disegnati dai piani regolatori che neppure quando hanno dato sostanza a quei disegni colorati, sono riusciti a definire l’abitare? Da palazzine, tirate su da costruttori (sic) con il permesso di chi, insieme con l’autorizzazione per farlo, si presentava all’incasso per spartire i profitti della folle rendita urbana?

Ci sono tante Roma. Quando rincorrendo le vie consolari, sguainate come spade prima e dopo il GRA, ci imbattiamo in continue marmellate edilizie, spalmate tra altrettanti vasti terreni agricoli, vediamo queste Roma per la prima volta. Solo che non aggiungiamo nulla a quello che abbiamo già visto. Non aggiungiamo nessuno dei particolari urbani con cui coabitiamo ogni giorno. Non troviamo neppure immagini da rubare altrove e confrontarle con ciò che vediamo. Non ci serviamo di altri occhi.

Di quelli che ci fornisce il cinema. Siamo distanti dai palazzoni in bianco e nero del neorealismo o dalle rovine edilizie dai colori acidi fotografate da Wim Wenders. Di quelli che ci fornisce la pittura. Non siamo nelle periferie di Sironi. Qui le architetture molecolari delle casette e delle minipalazzine, non riescono a costruire ombre possenti. Ne ci sono le grandi attrezzature urbane scintillanti di Vespignani. Ostiense e Portonaccio sono figurativamente un altro mondo. Sono altri immaginari. Anche le pagine di Walter Siti hanno altre location. Siamo soli e nessuno vede meglio di quello che vediamo noi.

Chi ha visto prima di noi qui abita. In case uguali come accade in molti di questi posti. Avviene anche nei nostri posti. Dove ci muoviamo. Dove abbiamo ritagliato e strappato le nostre isole. Ci diciamo spesso, sempre più spesso, che dovremmo abbassare i nostri ponti levatoi. Facciamoli posare. Superati i fossati, ci accorgeremo che ovunque, anche intorno a noi, troveremo quartieri costruiti da regole urbanistiche fatte apposta per condannare Roma ad essere una città slabbrata.

Ovunque siamo a Roma. Anche se ci sentiamo distantissimi attaccati, come bambini curiosi, al finestrino delle auto – i più ardimentosi di un autobus – per vedere che cosa c’è lì fuori.

C’è che Roma, quella che conosciamo, è simile oggi a quella che vediamo per la prima volta. Non esiste una parte off-shore rispetto al resto del suo territorio. E’ tutta territorio perché tutto il territorio è merce. E’ avvenuto quale risultato dell’espropriazione territoriale che ha costruito la città diffusa.

Ponte di Nona ma, prima di quel quartiere sprofondato sul fianco della Prenestina, c’è la vasta campagna che la stacca da Tor Bella Monaca. Dopo vaste zone verdi, pratoni, ondulazioni del terreno ed è Rocca Cencia…

…Bufalotta, il Quartiere Rinascimento (sic), prati che sembrano pettinati come carezze di verde, qualche boschetto e collinette ed ecco le sgangherate case di Cinquina…Hanno un nome o si chiamano tutte “ufficio vendite?”…

…La centralità di Castellaccio, attaccata a larghi scampoli di verde che si rincorrono secondo l’altimetria, relitti di pinete, pianori liberi ed ecco Mezzocammino dove le case sono uguali a quelle di Cinquina, Tor Bella Monaca…

Si finisce e si ricomincia ovunque.

Roma sta tutta in questa straordinaria anomalia. Gli ettari urbanizzati sono la metà di quelli esistenti e la densità edilizia è bassa. Roma è un multiplo di case deserte e isolate. Frammenti continui di città che, invece di costruirsi come discorso urbano, ammassano le case tra loro e ovunque a queste case mancano sempre molti dei servizi.

Misurare le distanze serve poco. Così come serve a poco misurare i metri quadri di standard che ci dovrebbero essere. Ora anche questi possono essere monetizzati. Si paga per poterne fare a meno. Un servizio che non c’è. Non ci sarà, ma verrà quotato. Come se ci fosse.

Così come le case. Invendute e tenute chiuse. Per migliaia di famiglie in emergenza abitativa sono case che non ci sono. Ci sono. Consumano suolo e non assicurano la vita. Ma non sono le sole.

Oggi anche possedere una casa costa. Costa molto. Il balletto tra ICI, IMU, TARSI ha di fatto aumentato e di tanto la loro tassazione. Un paese costruito nei decenni sulla proprietà edilizia, sull’avere “casa propria”, sul mattone come bene rifugio, trova moltissime famiglie a non poter più mantenere questa proprietà, spesso costituita da individui edilizi segnati dal tempo, che necessitano di costosissimi interventi di manutenzione.

A Corcolle , quando G. ci andrà, scoprirà uno strano repertorio edilizio proprietario fatto di case di pochi piani tirate su in fretta. Per la maggior parte condonate, raccolte all’interno di un successivo piano comunale sono oggi perfettamente regolari. Tipologie frammentate, palazzine, villette pretenziose, lotti coperti al massimo per strappare la maggiore cubatura possibile, strade in condizioni precarie, servizi essenziali in parte pagati dagli abitanti stessi. Un decoro urbano self service.

A Corcolle, come in molti altri posti simili, si è auto costruito l’essere proprietario. Disposto con fatica su di un doppio insediamento a cavallo della via Prenestina Polense (a 22 km da quella colonna del Foro). Qui, rammendando quanto tirato su “spontaneamente”, gli urbanisti comunali hanno disegnato un insediamento che dall’alto appare come il dispiegarsi delle ali di un grande rapace. Scendendo alla quota del terreno è un incrociarsi di strade e stradine tra loro ammagliate. Qui vive un numero di persone quante sono quelle di Catanzaro, Pisa, Grosseto…

Solo che chi qui abita si è accorto che il numero come l’ essere proprietari non basta per decidere come fare città. Non è sufficiente per chi ha dovuto, per avere un tetto, prima: soggiacere all’acquisto di un lotto all’interno di un territorio abusivamente suddiviso in piccole e piccolissime partizioni; poi vivere condannato a spostamenti continui, a strade senza marciapiede, a interventi sempre provvisori destinati a restare a lungo tali, a lottare per avere i più elementari dei servizi come la scuola, ad indebitarsi per finire un intonaco per la facciata di casa, per comprarsi e mantenere un mezzo con cui supplire al’abbandono dei servizi pubblici…. a raggranellare i soldi per pagare le quote del Consorzio con cui quel lotto dopo tanto tempo da zona “O” (questo il gergo urbanistico per definire i vasti settori abusivi da condonare) veniva iscritto nel registro della città. Decisioni prese sempre da altri. Sei proprietario, ma la città non ti appartiene. Sei escluso dalle le sue scelte.

Questo in una città dove altri, pochi, proprietari decidono quello che si deve fare. Come fa Mezzaroma quando decide di fare un nuovo quartiere poco distante a ridosso di Villa Adriana. Come vuole fare e fa Parnasi ovunque. Come si vede fare a Caltagirone davanti le cui case si passa avanti e indietro tutti i giorni.

A Corcolle. come in tutta la città, vediamo che Renzi e Zingaretti, come prima hanno fatto Berlusconi e Polverini, insistono con spingere ad essere padroni in casa propria. Con il nuovo/vecchio “Piano Casa” e con lo “Sblocca Italia” chi la casa ce l’ha è invitato a spostare mattoni. Come in un Lego in scala 1:1 quei metri quadri che sembrano ora gratis, sono destinati a trasformarsi in un indebitamento costante e progressivo. Costerà caro, giocare a fare “Il Caltagirone”. Anche non uscendo fuori dal pianerottolo. La proprietà di dove si abita, anche se ti condanna all’asservimento debitorio, sarà l’ultima risorsa che credi di avere.

Ti sentirai pronta a difenderla. Ad iniziare dal non sopportare coloro, come è successo a Corcolle, che con la loro sola presenza rappresentano un deprezzamento di quel bene. Le recenti manifestazioni non hanno guardato a chi fossero quelle persone che si sono aggiunte a quella comunità. Non hanno pensato che, aver deciso di farle vivere male e in modo indegno, serviva a cancellare la condizione abitativa di chi lì c’era; a non far misurare il distacco dalla città di Ignazio Marino. A cancellare la distanza dai progetti annuncio: dal nuovo stadio, dalla pedonalizzazione del Tridente…. dalla vetrina allestita per i colleghi Sindaci europei invitati il prossimo 1 ottobre in Campidoglio.

A continuare a pensare che si può continuare a vivere con collegamenti pubblici quasi “virtuali”. A entrare ed uscire dallo squadrato dedalo delle strade attraverso un solo varco. A tremare, quando piove, di non riuscire a “guadare” il fiume di acqua che quelle vie non riescono a smaltire. Dimenticati. Da ricordare, solo, quando non si trova un altro posto dove localizzare l’emergenza di turno, quello che non si sa risolvere: che una volta si chiama nuova discarica, poi pratiche e luoghi di accoglienza per chi viene da noi a chiedere aiuto, cacciato da guerre e miseria.

Sulla divisione di chi le abita, sulla ghettizzazione di quegli spazi, sulla frammentazione urbana, immobiliarismo e finanza hanno costruito la propria rendita. Per continuare in questo modo hanno bisogno di aggiornare il modo di come narrare le periferie. Ad iniziare dall’appiccicargli addosso ogni problema che non si sa o si vuole risolvere per alimentare le divisioni tra loro e al loro interno. Segregandole, colpendole nell’ elementare diritto alla mobilità. Costruirle continuamente come radici urbane della crisi della città. Come se Roma fosse un’altra cosa. Corcolle e le altre. Distanti da dove?

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