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“Don’t Look Up”: Giant Meteor for president

Il nuovo film di Adam MacKay (su Netflix) è una satira lucida sugli effetti del cambiamento climatico sul pianeta. Gli scienziati avvertono, la politica non ascolta, o imbraccia il fucile. Il nostro mondo assomiglia sempre di più a quello del film dell’ex maestro di comedies demenziali. Ma c’è sempre meno da ridere, e per alcuni tanto vale tifare asteroide

A Hollywood i film sulle collisioni siderali, compongono un sottogenere proprio del disaster movie, nelle varianti B-movie e kolossal – nell’estate del 1998 di questi ne uscirono addirittura due in simultanea: Armageddon – Giudizio finale (Michael Bay) e Deep Impact (Mimi Leder). L’incombere minaccioso di un corpo celeste sulla terra ha fornito anche il pretesto per introspettive riflessioni escatologiche come Melancholia di Lars Von Trier (2011) e almeno una rom com (Cercasi amore per la fine del mondo di Lorene Scafaria, 2012). In Don’t Look Up (Adam MacKay) una cometa in inesorabile traiettoria verso la terra è l’espediente narrativo che mette in moto la trama di una satira politica dagli accenti farseschi e un inequivocabile nocciolo di amarezza.

La storia dei due astronomi (Leonardo di Caprio e Jennifer Lawrence) che scoprono un meteorite in rotta di collisione e cercano vanamente di mobilitare leader e opinione pubblica a un qualche tipo di manovra evasiva, è l’allegoria di Adam McKay sulla crisi “esistenziale” del mutamento climatico e l’ignavia con cui una classe politica planetaria sta fallendo nell’affrontarla.

Gli avvertimenti degli scienziati non vengono derisi solo dall’amministrazione di una presidente trumpista (Meryl Streep in una delle più riuscite imitazioni dell’ex presidente), sono anche trivializzati dai media e dubitati da un pubblico ignorante e volubile, dato a complottismi e strumentalizzazioni da parte di demagoghi e guru di Silicon Valley. «Se guardate il film» – ha ricordato il regista sul suo Twitter – «ricordate che la scienza per agire contro il mutamento climatico c’è. Quello che manca sono la coscienza, la volontà e l’azione!».

Il film rompe l’assunto assiomatico del genere: l’unità di intento dell’umanità che di fronte alla minaccia si stringe attorno allo sforzo per la sopravvivenza.

Don’t Look Up è un film post-trumpista e dunque post-happy ending, in cui la catastrofe incombente provoca una assurda dissociazione psicotica che nel 2021 appare banalmente naturale, per gli stessi motivi per cui Contagion (il film di Steven Soderbergh che nel 2011 prefigurava con precisione scientifica il dilagare di una pandemia zoonotica di SARS-Cov) risulta ormai completamente inverosimile per via del finale, in cui la popolazione si mette ordinatamente in fila per ricevere il vaccino contro il virus. Il film di McKay si svolge nel metaverso negazionsta in cui tutti da qualche anno abitiamo e a questo mondo rivolge la sua satira, tanto più graffiante ora che a quella climatica si è sovrapposta la catastrofe sanitaria. È una satira amara nella scia del Dr. Stranamore (1964) di Stanley Kubrick e Quinto Potere (1976) di Sidney Lumet, con antecedenti più recenti ne La seconda guerra civile americana (1997) di Joe Dante e Idiocracy (2006) di Mike Judge, ognuno un’allegoria del grottesco hybris della modernità.

Forse anche per questo il film ha diviso la critica e molto pubblico americano (lo score su “Rotten Tomatoes” è di appena 55%).

Al regista si rinfaccia principalmente la mancanza dell’umorismo a cui aveva abituato con la proficua collaborazione con Will Ferrell in commedie come Ricky Bobby – La storia di un uomo che sapeva contare fino a uno (2006), Anchorman – La leggenda di Ron Burgundy (2004), Fratellastri a 40 anni (2008), Poliziotti di riserva (2010), Duri si diventa (di cui è produttore, regista è Etan Cohen). Ma il cinema di McKay, che nasce come sketchista di Saturday Night Live prima di diventare maestro di comedies demenziali, da qualche anno si muove sul terreno della satira politica sempre più inquadrata come estensione cinica e grottesca di un capitalismo disfunzionale. La grande scommessa (2015) racconta la grande truffa finanziaria dei derivati subprime e Vice (2018) la deriva neocon della destra americana. Da produttore McKay collabora con Sacha Baron Cohen (Grimsby – Attenti a quell’altro, 2016; Il dittatore, 2012) e produce un documentario sugli Yes Men e Candidato a sorpresa di Jay Roach che nel 2012 denuncia le ingerenze politiche dei miliardari ultrareazionari fratelli Koch. Si immette cioè nel fertile filone di satire politiche hollywoodiane come Essi Vivono (1988) di John Carpenter, Citizen Ruth (uscito in Italia con il titolo La storia di Ruth, donna americana, 1996) di Alexander Payne, Sesso e Potere (1997) di Barry Levinson e Colori della vittoria (1998) di Mike Nichols.

Ora con Don’t Look Up affronta un aspetto fondamentale della dilagante involuzione populista: la crisi epistemica alla base dell’attuale degrado della politica e della democrazia.

Negli Stati uniti che si apprestano a celebrare, più divisi che mai, l’anniversario di un tentato golpe predicato sul complotto dell’“elezione rubata”, c’è il senso tangibile di un attacco concertato alla verità e alla stessa realtà condivisa come minaccia incombente per la democrazia. E c’è anche il senso che l’era Biden possa non rappresentare che un labile interregno prima di una plausibile, anzi probabile, restaurazione nazional-populista. Come ha ricordato in questi giorni Noam Chomsky, uno degli effetti più prevedibili che seguirebbero sarebbe un’immediata ripresa delle politiche anti-ambientali già messe in campo dalla precedente amministrazione. Gli Usa refrattari al protocollo di Kyoto, fuoriusciti dai trattati di Parigi e ora potenzialmente inadempienti agli accordi Cop 26, rappresentano essi stessi una potenziale scheggia impazzita contro il pianeta, in preda alla compulsione anti-scientifica satiricamente, ma lucidamente, rappresentata da McKay.

La patologia fatale e suicida del negazionismo e del complottismo sono il terminale di un progetto che a partire dagli anni ‘80 ha visto il neoliberismo “militarizzare” il rancore e la paranoia bianca in culture wars utili per attivare un elettorato sempre più estremista.

Gli odierni movimenti anti-scientifici cooptati dal partito (post) repubblicano sono conseguenza diretta dell’originale alleanza reaganista con settori dell’integralismo evangelico i quali hanno sdoganato una retorica sempre più violentemente apocalittica nella politica americana. In Don’t Look Up il mercenario machista interpretato da Ron Pearlman che spara a raffica contro il meteorite con l’AR-15, rende in un’inquadratura la metafora più adatta dell’America che quest’anno ha lanciato la moda, fra parlamentari trumpisti, delle foto di famiglia armate davanti all’albero di Natale.

Una delle critiche al film riguarda il tono di rimprovero del protagonista, l’amarezza che prevale sull’umorismo “classico”. Ma c’è sempre meno da ridere in un mondo in cui il concetto di “estinzione” è entrato a far parte della dialettica politica. Lo stesso termine “Giant Meteor” è da qualche anno assurto a meme di campagne elettorali satiriche che invocano l’asteroide ammazza-pianeta come candidato preferibile alla vuota retorica dei partiti e dei consulenti di immagine. Dietro agli slogan situazionisti c’è, proprio come nel film di McKay, una inequivocabile amarezza che si collega allo Zeitgeist apocalittico e post-politico in cui nemmeno l’ombra incipiente degli asteroidi sulle nostre teste basta a zittire la futile baruffa che imperversa sui social.