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Diventare immortale e morire. Jean-Luc Godard (1930-2022)

È morto oggi il regista che ha inventato e reinventato il cinema. Oltre cento film tra lungometraggi e prodotti audiovisivi di vario genere, la nouvelle vague, il periodo maoista, l’autoesilio in Svizzera e molto altro. Difficile raccontare una vita così piena, meglio procedere per momenti di una cinefilia ispirata e istigata da Godard, raccontare insomma una propria versione del regista franco svizzero

C’è un prima e un dopo nella formazione di molti cinefili, l’apparizione di una frase su uno schermo, frase totalmente fuori contesto rispetto al film, Si vous n’aimez pas la mer, si vous n’aimez pas la montagne, si vous n’aimez pas la ville, allez vous faire foutre, che in italiano suona più o meno come «se non ti piace il mare, non vi piace la montagna, non vi piace la città, allora vaffanculo». È del resto un repertorio di citazioni da tirare fuori alla bisogna Fino all’ultimo respiro (1960), il primo lungometraggio di GodardEd è anche un repertorio di un nuovo modo di intendere il cinema (nuovo allora, nuovo oggi), come quegli strani saltelli temporali, si chiamano jump cut, avrei imparato anni dopo, in un corso sulla Nouvelle Vague tenuto dal compianto Roland-François Lack (preferiva Truffaut, ma è un derby che ormai non interessa quasi a nessuno). Sono una delle innovazioni formali, radicali, poco ortodosse, introdotte dalla Nouvelle Vague, quel gruppo di cinefili largamente maschi totalmente ossessionati dal cinema tanto da dimenticarsi inizialmente pure un po’ la politica che tra fine anni Cinquanta e inizio anni Sessanta, passati dalla critica (“Cahiers du cinema”) al cinema filmato, hanno sconvolto il cinema autoriale mondiale. Godard, Truffaut, Chabrol, Resnais, obliquamente tanti altri (poche altre, come Agnès Varda, la dimenticata Cécile Decugis, montatrice): il cineforum Ezechiele 25:17 di Lucca fece vedere tutti gli esordi, 2001/2002 o giù di lì, presidio culturale, chissà in quante altre città in mezzo mondo qualcuno ha proiettato copie di pellicole rumorose a occhi inesperti di sedicenni assettati sconvolgendogli per sempre la vita – la nostalgia, sì, la nostalgia, ma del resto questo novecento che non smette di finire lo fa. Ma come si poteva non innamorarsi della sigaretta in bocca di Jean-Paul Belmondo simbolo della sua generazione, pronto a liberarsi, scappando da tutto, anche da una assurda guerra coloniale, a non innamorarsi di quella Parigi così elettrizzante, di quell’americana (oggi direi statunitense) con quell’accento francese così stereotipato. E voi cosa avreste scelto between grief and nothing? È Faulkner, è Godard, è Jean Seberg sdraiata su un letto, siamo tutti noi costretti ogni tot a farci questa domanda lacerante, between grief and nothing cosa sceglieresti, a chiederci se davvero vale la pena, come Belmondo, scegliere il nulla, «perché il dolore è idiota, è un compromesso, o tutto o niente». 

Il poster della rassegna Godard retrouvé al Filmstudio di Roma

Ritorna, non se ne va, le cassette prestate, i DVD, i file scaricati, ma soprattutto i film visti in sala, in pellicola finché si è potuto. Godard retrouvé. Film inediti o introvabili di Jean-Luc Godard, autore-simbolo del cinema moderno. Roma, Filmstudio 2, 20 dicembre 2006-9 gennaio 2007. Improbabili visioni e discussioni, «eh ma certo il periodo 80-90, non è mica come la nouvelle vague o la ritrovata brillantezza di questi ultimi anni». Bah. La culture: la règle; l’art: l’exception. Il est de la règle de vouloir la morte de l’exception… recitava il poster della rassegna con un Godard versione cartoon, che ha campeggiato appeso da qualche parte in qualche decina di stanze dove ho vissuto, pazientemente ripiegato in altrettante decine di traslochi. La morte dell’eccezione come aspirazione. E poi, sempre al Filmstudio, anche Le nouvelle vagues il nuovo cinema europeo negli anni ’50-’60, sempre intorno a metà/fine anni Zero, l’ultimo grande periodo della cinefilia romana – non lo sapevamo, per fortuna, altrimenti avremmo sacrificato al cinema anche quel poco rimasto di socialità, se solo avessimo saputo gli anni di chiusure, riadattamenti, cambiamenti che avrebbero travolto i cinema romani e l’incapacità di preservare almeno qualche Godard per i nati negli anni Duemila – che ne sanno i Duemila, si direbbe oggi, un po’ boomer. 

E poi Le Petit Soldat (1960) l’Algeria e molto altro, Anna Karina che guarda lo schermo e piange davanti alla Giovanna d’Arco di Dreyer, il sedere di Brigitte Bardot, il balletto più famoso della storia del cinema (ho una cartolina con questa scena e una citazione godardiana, ogni tanto mi capita in mano e non so chi me l’ha regalata) in Bande à part (1964) – non casualmente il nome della casa di produzione di Tarantino – Alphaville (1965) pure per quelli a cui non piace la fantascienza, Jean-Pierre Léaud e Chantal Goya in Masculin féminin (1966), l’arrivo della politica La cinese e l’accumulazione incontrollabile di Weekend (entrambi del 1967), il maoismo e i film collettivi con Dziga Vertoz (il gruppo di cineasti francesi, essenzialmente lui e Jean-Pierre Gorin, non il regista sovietico)Mi sono chiesto se avesse senso scrivere un pezzo in memoria di Godard parlando dettagliatamente di tutti i film, che si fa persino fatica a contare, 131, dice Imdb, includendo tutto anche corti medi episodi documentari, oltre ai lungometraggi (40/50), o se invece è meglio procedere per ricordi, sketch, accumulazioni, momenti di una cinefilia ispirata e istigata da Godard. Esistono in fondo infinite versioni di questo articolo perché ognuno ha la sua versione di Godard. Procediamo, dunque: di recente, ancora, Les Carabiniers (1963), in un cinema del Midwest, la dimostrazione che cinque minuti di Godard, anche in un film di nulla, sono tutto. Bastano pochi minuti ai fuoriclasse per svoltare un film. 

Una scena di Masculin féminin

Godard è stato l’archivista di tutte le vite che non abbiamo vissuto e di tutte quelle che avremmo voluto vivere. Ma tutti i monumenti vanno abbattuti. Anche questo, anche Godard, anche colui che ha inventato e reinventato il cinema. Con i padri e i maestri è noto quello che bisogna fare. Il cinema poi, dopo averlo raccontato nelle monumentali Histoire(s) du cinéma (1988-1998), lo aveva già salutato lui, Adieu au Langage, 2014, quando ci aveva fatto vedere cosa si poteva fare con il 3D – il capriccio di un regista che non ha più nulla da dire e vive isolato dal mondo, lo ha definito qualcuno, senz’altro a ragione, del resto salutava la lingua cinematografia, la stessa che aveva inventato. O forse l’ennesima sperimentazione riuscita, ma una cosa non esclude l’altra. 

Lo fa dire nel suo primo lungometraggio, Quelle est votre ambition dans la vie? Devenir immortel et mourir, l’ambizione nella vita è quella di diventare immortali e morire. Immortale lo era da tanti anni, da quando si era ritirato in un rumorosissimo auto semi esilio svizzero, da cui appariva saltuariamente (quasi un genere, gli avvistamenti di Godard che va a fare la spesa), ma continuava a lavorare, a dire cose, anche su Instagram in una surreale diretta durante la pandemia. La sua è stata negli ultimi anni una presenza-assenza, nel mondo del cinema e della cultura, di festival disattesi, incontri mancati, come si vede in Visages Villages di JR e Agnès Varda, un film che è (anche) una ricerca di Godard, una esplorazione dell’incontro tra lui e la grande regista francese e una negazione dello stesso. Presenza e assenza. Oggi insomma Godard, dopo essere diventato immortale, è morto. 

In copertina: una scena di Fino all’ultimo respiro