PRECARIETÀ

Disoccupazione «reale» e mobilitazione permanente

Considerazioni sparse sui recenti dati Istat.

I recenti dati diffusi dall’Istat sulla disoccupazione in Italia (11,1%), e in particolare sulla sua concentrazione presso la popolazione giovanile (37,1%), sarebbero dovuti balzare in primo piano nel dibattito giornalistico ed elettorale, essere materia di interpretazioni e di opzioni politiche contrastanti. Dobbiamo invece ringraziare il presidente uscente dell’eurogruppo, Jean-Claude Junker, per aver lanciato l’allarme e costretto gli esponenti politici a proferire qualche – inutile e confusa – parola. Contrariamente al commento sbalordito dei giornali, non stupisce affatto però, che sia stato proprio un eminente esponente del Ppe e della tecnocrazia europea a pronunciare quelle parole. Nelle dichiarazioni di Junker, infatti, più che la magnanimità traspare a chiare lettere il timore per il possibile affacciarsi, in Europa, di una crisi di governabilità e di legittimazione delle istituzioni europee come misura dell’inarrestabile biforcazione sociale che sta interessando la società del vecchio continente. Questo il riferimento al salario minimo e alla classe operaia.

Si passa quindi da reazioni ambigue e confuse, ad alcune che non si possono definire altro che ignobili: tra le seconde va sicuramente annoverato il rifiuto secco di alcuni importanti esponenti della Cgil e della Cisl alla proposta di salario minimo in nome della difesa dei contratti nazionali oramai inapplicati per una quota significativa – e crescente – di lavoratori. Qui accanto al corporativismo, tra l’altro privo ormai di qualunque potere, si affaccia il pericoloso disinteresse per le sorti di una forza lavoro stritolata dalla corsa al ribasso dei salari.

Tra le dichiarazioni confuse invece, oltre a quelle di Nichi Vendola che riesce ancora – dopo tanti anni di esperienza politica – a confondere il salario minimo con il reddito garantito, vi sono i cripto-socialisti, quelli che vorrebbero «rimettere il lavoro al centro dell’agenda politica». Si proverà a mostrare come, in una fase come quella presente, il richiamo generico al lavoro e alla lotta alla disoccupazione rischi di essere, nel migliore dei casi, puramente retorico e nel peggiore, decisamente ambiguo. Conviene quindi addentrarci, benché in modo schematico e sintetico, nel merito di alcune delle trasformazioni che la crisi sta determinando nel mercato del lavoro e nel modo in cui, queste trasformazioni, stanno mettendo in discussione le categorie con le quali siamo abituati a rappresentarlo.

I dati Istat sulla disoccupazione, in realtà, non ci forniscono molte informazioni, se non quella di per sé drammatica della crescita – e soprattutto della cronicità – che sta assumendo il fenomeno.

Meno evidenti e dibattute sono invece le tendenze che riguardano la modificazione della struttura del mercato del lavoro e i dispositivi messi in moto per governare la forza lavoro.

1.

Iniziamo col dire che il tasso di disoccupazione registrato dall’Istat (già di per sé preoccupante) comprende solo una parte della «disoccupazione reale». Sono gli stessi istituti di statistica a mettere in luce l’insufficienza di queste rilevazioni. Come si sa, il tasso di disoccupazione «conta» i disoccupati a partire dalla coesistenza di tre condizioni base: 1) la persona non deve aver lavorato nemmeno un’ora nella settimana della rilevazione; 2) deve dichiararsi disponibile a lavorare; 3) deve aver effettuato una ricerca di lavoro nell’ultimo mese. Il Cnel* prova a calcolare sui dati del 2011 quanto sarebbe il tasso di disoccupazione se si aggiungessero al computo anche 1) coloro che rispondono alle prime due condizioni ma non alla terza, ovvero coloro (i cosiddetti scoraggiati) che non hanno lavoro, sono disposti a lavorare, ma non hanno svolto una ricerca nell’ultimo mese, magari a causa delle pessime condizioni del mercato; 2) i lavoratori in cassa integrazione, i quali benché risultino tra gli occupati, sono di fatto in una zona intermedia tra il lavoro e il non lavoro; 3) le persone che sono state costrette ad accettare un contratto part-time che ritengono però insufficiente: queste persone possono essere considerate a tutti gli effetti come parzialmente occupate e parzialmente disoccupate. A partire da questa estensione del concetto di forza lavoro ai cosiddetti attivi potenziali si calcola che il tasso di disoccupazione, in Italia, risulterebbe addirittura raddoppiato, sforando abbondantemente il 20%. Va inoltre notato che la componente potenziale della forza lavoro, in una fase di cronicizzazione della disoccupazione e in una mercato come quello italiano particolarmente destrutturato, ha e tendenzialmente avrà, un peso proporzionalmente sempre più importante.

2.

Una volta esteso il concetto di forza lavoro e rideterminata la misura del tasso della «disoccupazione reale», occorre passare alla struttura del mercato e alle sue mutazioni in corso. Qui è necessario rilevare una tendenza molto particolare rispetto alla sua presunta struttura «duale». Le teorie del dualismo del mercato del lavoro, tanto nella loro versione originaria e radicale quanto nella loro versione neoliberale, hanno affermato l’esistenza di sotto mercati senza alcun rapporto di concorrenza e competizione reciproca. In altre parole, il mercato primario (garantito e ben retribuito) e quello secondario (precario e sotto-remunerato) sarebbero caratterizzati da scarsa interrelazione e quasi nulla mobilità tra i segmenti. Questo modo di funzionamento, ben presente all’inizio della fase di crisi della società salariale e all’avvento del post-fordismo, si distingue in modo netto dallo schema classico proposto da Marx con il famoso «esercito di riserva», secondo il quale tutta la forza lavoro (regolarmente occupata, disoccupata o sottoccupata) sarebbe implicata in rapporti di competizione e concorrenza e unificata negli effetti regolativi della dinamica salariale. Nello scenario attuale, si può ritenere che, almeno per una parte consistente – e crescente – del mercato del lavoro, stiano tornando a essere vigenti meccanismi tipici dell’esercito di riserva. In altri termini aumenta il grado di sostituibilità e di permeabilità tra i segmenti. Se si osservano le variazioni del tasso di disoccupazione in relazione alle dinamiche salariali si può notare che l’aumento della disoccupazione si muove nella stessa direzione della contrazione dei salari, così come va nella stessa direzione del tasso di crescita dell’esercito dei working poor (in Italia era del 10,7% nel 2011 – assai più elevato della media europea – 8,9% **). Gli studi sulle dinamiche della povertà (poverty mobility) e sulle transizioni occupazionali dimostrano in modo incontrovertibile che i casi di scivolamento da segmenti solitamente ritenuti garantiti a situazioni di vulnerabilità aumentano a vista d’occhio. Per giunta, come nello schema marxiano, la disoccupazione funziona come regolatore, verso il basso, dei livelli salariali e delle condizioni di lavoro. Ciò che sostanzialmente è del tutto irriducibile alla versione originaria dell’esercito industriale di riserva è invece il meccanismo della sua produzione. Qui la finanziarizzazione dell’economia introduce una discontinuità radicale. La sovrappopolazione relativa, in questo caso, non è più determinata dalle dinamiche interne all’accumulazione capitalistica, ovvero al rapporto tra capitale fisso (macchinario) e capitale variabile (forza lavoro). Ci troviamo di fronte ad una dinamica inedita nella quale alla crescita (finanziaria) corrisponde solo in minima misura accumulazione di capitale. Questa acquisizione, invece di smentirla, conferma casomai l’estrema integrazione fra economia finanziaria ed economia reale così come l’estrema volatilità delle variazioni degli stock occupazionali in relazione ai cicli (e alle bolle) finanziarie.

3.

In Italia, si può notare una doppia fase dell’andamento della disoccupazione rispetto al ciclo della crisi. In un primo momento, almeno fino al 2011, la contrazione non aveva sortito effetti particolarmente visibili sul tasso di disoccupazione. Era ciò che spingeva gli «esperti» di economia a sdrammatizzare la situazione italiana rispetto al resto d’Europa. Come è noto, il tasso di disoccupazione aumenta sia per il calo dei posti di lavoro, sia per l’aumento della popolazione che entra nel mercato alla ricerca di un lavoro. Nei primi anni della crisi si è avuta una diminuzione del tasso di occupazione assai più contenuta della diminuzione del Pil, così come, sull’altro versante, la stessa offerta di lavoro, di fronte alla contrazione, si è ridotta nella stessa direzione. Oltre al massiccio ricorso alla Cig, si sono mobilitate le risorse economiche interne alle famiglie, spesso si è ritardato, quando si poteva, l’ingresso nel mercato del lavoro magari allungando il periodo degli studi oppure sostando nell’area dell’inattività (in Italia, la componente dei laureati tra i cosiddetti Neet è assai consistente – nel 2009 più dell’11% ***). Questi elementi hanno per un certo periodo giocato un effetto frenante rispetto alla disoccupazione. Effetto però, com’era ovvio, svanito con il passare del tempo. Tutti i meccanismi che hanno agito da argine sono crollati intorno all’anno 2011.

Dietro all’impennata del tasso di disoccupazione (impennata che ha riguardato dal primo momento la componente giovanile, passata dal 20,3% del 2007 all’attuale 37,1% e in secondo luogo, soprattutto a partire dallo scorso anno, anche quella media) non si nasconde solamente la perdita di posti di lavoro ma una migrazione costante di soggetti dall’area dell’inattività a quella dell’attività (il tasso di quest’ultima si è bloccato dopo il 2008 per poi riprendere a crescere all’inizio del 2011) dovuta essenzialmente al progressivo disfacimento del «reddito sociale». Con questa espressione intendiamo la riduzione generalizzata di tutti i redditi (relativamente) indipendenti dal salario di mercato, quindi in particolare quelli derivati dalle prestazioni dello Stato e quelli mobilitati all’interno delle famiglie (si vedano a tal proposito le variazioni nei comportamenti di risparmio e la progressiva esposizione all’indebitamento privato).

La riduzione del «reddito sociale» comporta quindi un’esposizione degli individui sul mercato del lavoro o, come sarebbe più corretto dire, una loro maggiore dipendenza. L’effetto congiunto della crisi occupazionale e al contempo della riduzione del reddito sociale complessivo comporta un processo che possiamo definire di proletarizzazione passiva**** , cioè una generale mobilitazione della popolazione e un travaso senza precedenti dall’area dell’inattività a quella dell’attività. È quello che acutamente Maurizio Lazzarato ha descritto come il passaggio dal paradigma del «pieno impiego» a quello della «piena attività». Come questo enorme processo stia concretamente avvenendo, per quali dinamiche di messa a valore della propria vita e di auto-attivazione passi, non siamo ancora in grado di dirlo. Ciò che però è essenziale sottolineare, è che dentro questa evoluzione le classiche distinzioni tra occupati e disoccupati, attivi e inattivi, garantiti e non garantiti, si fanno sempre più vacillanti quando non proprio inadeguate. La proletarizzazione passiva ricompone i movimenti della forza lavoro sotto il segno della mercificazione, del declassamento e della vulnerabilità di massa.

4.

Le scadenti performance economiche dell’Europa e dell’Italia dimostrano, tuttavia, che questa generale mobilitazione della forza lavoro non è in sé sufficiente a riattivare la ripresa. Questo è il segnale che, nonostante tutto, la crisi capitalistica è innanzitutto crisi dei meccanismi di produzione del plusvalore e di governo della forza lavoro. In altri termini, alla proletarizzazione passiva non corrisponde alcun modello di messa a lavoro in grado di far balzare in avanti i profitti. È questo, in ultima analisi, il problema attorno a cui sono chiamate ad esprimersi le istituzioni europee e le «agende» dei vari governi nazionali.

L’indicatore più vistoso di questo programma politico lo troviamo nella ristrutturazione dei sistemi di protezione sociale contro la disoccupazione. Qui l’Italia sconta ancora una certa lentezza nel processo di trasformazione.

Se nel mercato del lavoro assistiamo, come abbiamo visto, al moltiplicarsi di zone di indistinzione e permutazione tra la condizione di occupato, disoccupato e inattivo sotto la spinta dello smantellamento del reddito sociale e della crisi occupazionale, sul lato delle prestazioni sociali siamo di fronte all’emersione di un dispositivo di governo della forza lavoro che abbandona il principio della protezione a favore di una regolamentazione dinamica, finalizzata alla continua e sistematica compatibilizzazione dei comportamenti dell’offerta e della stessa soggettività della forza lavoro. Siamo cioè di fronte ad un nuovo dispositivo di incentivazione al lavoro che abbandona decisamente il binomio occupato/disoccupato, assicurato/assistito. Così come la soggettività del working poor ricompone ciò che il fordismo aveva tentato di disgiungere, la figura del lavoratore da quella del povero, i sistemi di protezione si riconfigurano oltre la distinzione (welfare dualism) fra assicurati (lavoratori) e assistiti (poveri). Tra un sistema di assicurazione sempre più selettivo e meno accessibile per chi non dispone di carriere standard e un insieme di misure residuali contro l’intrappolamento nella povertà, si insedia un impianto baricentrato sulla figura del lavoratore povero e sulla sua generalizzazione, un sistema nel quale la forma-salario (derivata dal mercato) si compone (e si confonde) con le forme di sostegno al reddito (derivate dalle prestazioni assistenziali dello Stato) in vista di una continua adattabilità della forza lavoro a quello stato d’eccezione permanente che caratterizza, ormai in modo strutturale, le congiunture economiche. In questo contesto i piani per l’occupabilità o la patetica invocazione del pieno impiego, rischiano di essere riferimenti alquanto ambigui, così come ambigui risultano essere gli appelli al lavoro come fonte, di per sé, di giustizia sociale e rimedio contro la povertà.

Al contrario, occorre prendere atto della progressiva sovrapposizione tra componenti salariali e reddituali, invertendone però il segno: da dispositivi di riduzione della forza lavoro a variabile dipendente del capitale, a vettori di autonomia per le soggettività, di pratiche di coalizione e di esperienze di autovalorizzazione.

*Rapporto sul mercato del lavoro 2011-2012, Cnel, Settembre 2012

** Dati Eurostat

*** Rivista delle Politiche sociali, 3/2011

**** Riprendo qui l’espressione usata da Offe e Lenhardt in Teoria dello Stato e politica sociale, Feltrinelli, 1979