OPINIONI

Democrazia e precarietà nella scienza. Riflessioni a margine di Propaganda Live

Nella puntata di sabato 20 novembre Alessia Ciarrocchi, ricercatrice dell’Università di Reggio Emilia, ha parlato di condizioni di ricerca e lavoro nel mondo scientifico. Il suo intervento ha sollevato diversi dubbi

La puntata di ieri di Propaganda Live ha ospitato un intervento e una breve intervista ad Alessia Ciarrocchi, ricercatrice dell’Università di Reggio Emilia. A suscitare grande scalpore e aprire il solito dibattito social è stata lultima parte dellintervista, quella dove Ciarrocchi ha affermato che la precarietà dei ricercatori è una scelta di vita e non unimposizione.

Da giovane precario che sta svolgendo il suo primo contratto precario in Polonia, con tutte le difficoltà legate alla pandemia, non posso negare che le affermazioni della dottoressa Ciarrocchi mi abbiano suscitato profonda rabbia e tristezza, ma a ben vedere anche la prima parte dellintervento, quella dedicata alla scienza, ha destato non meno perplessità.

La ricercatrice comincia infatti il suo breve monologo con il solito stereotipo sulla ricerca additata come corrotta da interessi privati in tempo di pace e come faro di speranza in tempi di crisi, usandolo per introdurre una domanda posta da altri suoi colleghi: la scienza è democratica?

Ci sarebbe già da sorridere per lingenuità della domanda, non fosse che dallinizio la dottoressa lascia intendere chiaramente cos’è per lei la scienza: ovviamente questa coincide, come nel caso di Burioni e altri studiosi, con il suo campo di expertise, ovvero la biologia molecolare. Che altri campi possano avere regole diverse, metodi di ricerca diversi e, perché no, problemi diversi, è un’idea che non sfiora minimamente i paladini della scienza in tv.

Ad ogni modo, Ciarrocchi tiene a dire subito che lei non è d’accordo con i suoi colleghi: la scienza è democratica, in quanto tutte le opinioni vengono trattate allo stesso modo indipendentemente da chi le abbia formulate, dal suo genere, orientamento sessuale o etnia.

Queste affermazioni, per quanto corrette sulla carta, stonano con lesperienza quotidiana di qualsiasi ricercatore o ricercatrice: lavoriamo in un ambiente scientifico in cui le donne rappresentano sempre una minoranza, specialmente nei gradi più alti delle gerarchie accademiche.

Lavoriamo in un ambiente scientifico dove la maggior parte delle donne viene espulsa intorno ai 35 anni, spesso in coincidenza con la maternità, evidentemente incompatibile con la vita da ricercatrice vista lassenza di qualsivoglia servizio di assistenza per i genitori e vista la mole di articoli scientifici da pubblicare con continuità, il famoso publish or perish. Lavoriamo in un ambiente scientifico dove vediamo numerosi colleghi e colleghe, per quanto bravi, essere costretti a lasciare il mondo della ricerca, perché non provenienti da una famiglia sufficientemente abbiente da poter coprire i frequenti periodi di disoccupazione e conseguente assenza di stipendio, visto che i ricercatori precari non godono quasi di alcuna misura previdenziale. Riassumendo, la scienza non è di tutti e di tutte, ma solo di chi si può permettere di farla.

Ciarrocchi sostiene anche che la scienza è trasparente, in quanto i risultati delle ricerche sono resi pubblici dopo un processo di peer review. Senza lanciarsi nel campo della filosofia della scienza, laffermazione della dottoressa stride ancora una volta con la realtà dei fatti.

Sappiamo bene, infatti, come nel mondo della ricerca neo-liberale lunica cosa che conta sia pubblicare articoli e farseli citare, pena lespulsione dal mondo della ricerca: può allora sorprendere che spesso i revisori adducano motivazioni strumentali nellostacolare la pubblicazione di un articolo, in modo da ostacolare la carriera di persone poco gradite o per favorire i propri colleghi nelleterna competizione a cui siamo costretti?

Va anche ricordato che le riviste scientifiche, nella stragrande maggioranza dei casi, non sono ad accesso libero, bensì a pagamento: solo i ricercatori che appartengono ad istituzioni che possono permettersi di pagare gli esorbitanti costi degli abbonamenti possono accedere liberamente agli articoli propri e dei propri colleghi, per gli altri non rimane altro che arrangiarsi scaricando illegalmente gli articoli o accontentandosi di versioni non peer-reviewed presenti negli archivi.

Nel monologo la dottoressa sostiene anche che la scienza sia pluralista, in quanto si lavora in gruppo. La pluralità dovrebbe indubbiamente essere una necessità in ogni ambito di ricerca. Tuttavia ancora una volta la realtà è lontana dallideale, per gli stessi motivi per i quali non è corretto affermare, come fa Ciarrocchi al punto successivo, che la scienza sia condivisa perché i risultati delle ricerche, le strumentazioni e le tecniche di laboratorio utilizzate sono rese pubbliche. In un mondo ideale dovrebbe certamente essere così, ma ancora una volta i meccanismi del mondo della ricerca ostacolano le buone pratiche scientifiche: da anni infatti, anche e soprattutto nei campi di ricerca affini a quello della dottoressa Ciarrocchi, esiste un enorme problema di riproducibilità scientifica. Questo è dovuto proprio al fatto che si verifica puntualmente una competizione estrema per accaparrarsi finanziamenti, che mette in concorrenza perenne tra loro i laboratori e, conseguentemente, le équipe che vi lavorano, al loro interno certamente pluralialmeno per le competenze necessarie allo svolgimento delle ricerche. Questa competizione porta i ricercatori a tenere il più possibile segreti i propri metodi e le proprie tecniche. Senza contare che riprodurre e verificare gli esperimenti di qualcun altro è una perdita di tempo in un sistema che premia solo la pubblicazione di nuovi risultati da farsi citare per aumentare i propri indicatori alla prossima Vqr (Valutazione della Qualità della Ricerca).

Ciarrocchi dice anche che la scienza è progressista «perché lavora sempre per un domani che sia migliore delloggi»: nobile scopo, certamente, se non si considerano le ingenti risorse disposte ancora oggi per la ricerca militare nella maggior parte dei paesi del mondo. La ricerca, purtroppo, non è tutta volta alla costruzione di un futuro migliore, e buona parte di essa continua a essere usata per scopi tuttaltro che progressivi. Bisognerebbe chiedere ai superstiti di Hiroshima cosa ne pensano della bomba atomica, o ai reduci del Vietnam cosa ne pensano del napalm. O cosa ne pensano i milioni di persone che hanno perso il lavoro e si sono visti tagliare i servizi sociali in nome di risultati scientificipartoriti da raffinati pensatori della Bocconi o altre costosissime università. O cosa ne pensano tutte le persone Lgbtqia+ che ancora oggi lottano, nonostante i progressi sociali e politici fatti in tal senso in una parte dei paesi del mondo e allinterno di alcune istituzioni mediche nazionali e sovranazionali, per non essere considerate malatedal punto di vista scientifico. Perché non può essere la scienza a essere progressista, ma solo chi la fa.

La dottoressa chiude infine il suo monologo affermando, in modo puramente retorico, che la ricerca debba essere finanziata pubblicamente, senza risparmiarsi locuzioni mai stantìe come «premiare la competenza e la professionalità». Sarebbe il caso di dire, evitando la retorica, che la scienza e la ricerca sono sì beni comuni, ma che per proteggerli e averne cura non bastano i finanziamenti, ma serve una ben più ampia riflessione sui meccanismi decisionali e organizzativi del mondo della ricerca, sulla distribuzione dei finanziamenti e luso che se ne fa, e soprattutto sulle condizioni di vita e di lavoro di chi la ricerca la fa: non solo non abbiamo scelto di essere precari, ma vogliamo immaginare un mondo in cui fare ricerca non sia una condanna o una vocazione, ma un normale lavoro.