EUROPA

Decostruire l’architettura, costruire la dittatura della finanza.

La BCE inaugura il 18 marzo a Francoforte il suo nuovo edificio: un’archittettura a negare la città. La BCE inaugura per affermare il suo programma di sempre: bruciare la nostra vita.

Francoforte. Il nuovo edificio della BCE si scorge da lontano. Impossibile non vederlo. Per farlo devi tenere gli occhi a terra. Quelle due torri sembrano volere proprio questo quando, per la distanza, non riescono a raggiungerti e avvolgerti con l’ombra dei loro 185 metri di altezza.

Torri messe li a costruire il punto finale delle principali prospettive urbane della città. Si devono vedere sempre. Dalla riva dei musei (Museumsufer) dove si conta la maggiore concentrazione del numero dei musei in Europa. Dall’ Alte Oper, il centro delle rappresentazioni culturali. Dai blocchi del quartiere finanziario le contemplano compiaciuti gli occhi imploranti che scrutano quel potente, per loro, benevolo padre.

La costruzione della nuova sede della BCE ha fatto cambiare volto in pochissimo tempo al quartiere di Ostend, un tempo caratterizzato da depositi e magazzini, da moli per lo scarico delle merci. L’arrivo di questa enorme costruzione, sul lungofiume della città, ha innescato una serie di mutamenti in tutta l’area circostante trasformando la zona portuale con caratteristiche industriali, considerata “periferia”. E’ quello che succede nelle metropoli del neo liberismo.

I costi di costruzione sono lievitati di 400 milioni. Un terzo del costo totale. Quando sarà inaugurato, il 18 marzo, avrà inoltre accumulato tre anni di ritardo sul programma. Ma chi occuperà quegli spazi di questo non si preoccuperà minimamente.

Perché quell’edificio dovrebbe avere rispetto della città che intende negare?

Per realizzare la propria sede la BCE ha acquistato i 12 ettari che la ospitano dal Comune di Francoforte. Una sorta di rivincita sulla città dove l’architettura, intesa come disciplina, tra il 1925 e il 1930 , seppe costruire quella città attraverso un cortocircuito. Fare di se stessa manuale di progettazione. Man mano che si realizzavano edifici, quegli esempi di cemento e le nuove tipologie edilizie venivano trascritti nella riflessione teorica ospitata nella rivista più d’avanguardia nell’Europa degli anni 20 del ‘900, Das Neuve Frankfurt.

Esempi e tipologie tratte non da motivazioni funzionali ma dalla storia della città stessa. Da come si era trasformata a come si progettava di continuare a trasformarla. Una felice stagione di “sperimentazioni” intorno al tema dell’abitare. Resa possibile dall’essere l’ Amministrazione comunale, allora, in possesso del 43% dei suoli urbani e dall’aver scelto di amministrare la città attraverso le costruzioni di case sociali per i più.

Con l’invenzione di un programma: l’Existenzminimum, formulato dai maestri del razionalismo, attraverso una serie di norme bio-fisiologiche, dimensionali e una serie di principi distributivi, funzionali e organizzativi dello spazio abitativo. Un paradigma costruttivo e un metodo scientifico, oggettivo e razionale, per rispondere al fabbisogno sociale di abitazioni, garantendo benessere e soddisfacimento dei bisogni biologici e sociali.

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Per minimo s’intendeva un minimo relativo, (rispetto al minimo assoluto offerto dalla speculazione privata), necessario per garantire sufficiente aerazione, soleggiamento, ventilazione, illuminazione, ecc. Ma, soprattutto, con minimo s’intendeva anche una questione di misure, di dimensioni, indispensabili non tanto alla sopravvivenza quanto a un’esistenza sociale.

Quelle realizzazioni, nel quinquennio 1925-1930, davvero impressionanti per numero e qualità, dovute all’attività di uno straordinario gruppo di architetti guidati da Ernest May, si diedero come compito ridisegnare il modello urbano di Francoforte.

Il progetto che la BCE inaugura tra pochi giorni è esattamente il contrario.

Questo edificio ospita chi vuole ridisegnare il mondo come se stesso. Per farlo si oppone alla città. La sostituisce con una sorta di autonoma città verticale dove, al posto del tessuto edilizio, delle strade e delle piazze, si sovrappongono una sull’altra, in un grande atrio alto oltre 60 metri, piattaforme che portano a collegare tra loro gli uffici che trovano posto nelle torri.

Queste si sovrappongono all’imponente edificio esistente del centro ortofrutticolo (Grossmarkthalle) dichiarato per la straordinarietà delle proprie strutture in calcestruzzo precompresso (allora agli albori di questa pratica) un edificio da tutelare, e da rispettare per essere stato luogo di stazionamento per i deportati ebrei durante la guerra. Più che un operazione di recupero, lo spazio progettato, ora si presenta come un grande atrio – basamento che costruisce l’intero intervento come tessuto connettivo. Non esistono relazioni possibili fuori di qui. Non esistono futuri possibili.

La Francoforte di Mayer è stata un modello urbano più generoso che utopico. La corona delle Siedlung (i lunghi edifici dell’abitare disposti nel verde) poste vicino ai centri della produzione, collegate con il centro urbano della città da una forte rete infrastrutturale, innescavano un rapporto con la natura, si opponevano al modello ottocentesco parigino del barone Hausmann. Al rimodellamento urbano, al distruggere, al ricostruire, al cacciare gli abitanti sempre più lontano.

Un progetto che aveva come scopo il “lavoro liberato” che non seppe né riuscì, però, a legare le ragioni dell’abitare ad una complessiva costruzione di un nuovo mondo. Naufragò sotto i colpi del mercato capitalistico che, non potendo intervenire sulla proprietà dei suoli, fece salire i costi di costruzione ad oltre il 190% in più rispetto quelli di prima della guerra.

Oggi i costi in più, toccano il miliardo e duecento milioni. Sono esibiti come elemento che impreziosisce come un trofeo quest’edificio. Sono proprio loro a renderlo quasi metafisico a staccarlo anche dai propri aspetti contingentali.

L’esaltazione dei suoi requisiti funzionali (il tetto giardino che raccoglie l’acqua piovana, il riscaldamento degli uffici alimentato dal calore di scarto del centro di calcolo, il ricorso alla geotermia per riscaldamento e raffreddamento degli ambienti , la domotica spinta… ) finisce con il cancellarlo materialmente come un edificio della città.

Se nella città c’è la nostra salvezza questa deve essere rifiutata, non ci deve essere permessa.

Quest’edificio s’inaugura con l’acquisizione da parte della BCE del debito pubblico europeo per mezzo del Quantitative easing di Draghi. Acquistandoli varrà per ogni governo quello che in questi giorni si sta sperimentando con la Grecia. Si rinegozieranno debiti e si concederanno prestiti, si permetterà così l’autonomia finanziaria solo a chi continuerà a sottoporsi alle politiche di austerità.

La BCE con questo edificio ha inteso sovraccaricare l’architettura delle proprie aspettative condensandole in una figura che si serve del ricordo di molte elaborazioni ideologiche, a partire dalla sua morte, che si porta appresso per negarle. L’architettura non è più chiamata a costruire edifici e insieme e con essi, quando ci riesce, come nel caso proprio della Francoforte del 1925, a sperimentare idee.

La cultura della finanza non ha tempo per interrogarsi intorno la “morte dell’architettura”. E’ certa d’aver vinto, d’aver in mano la soluzione definitiva. Sceglie, per renderla visibile, lo studio viennese Coop Himmelb(l)au fondato da Wolf D. Prix e Helmut Swiczinsky che fanno del decostruttivismo il loro manifesto. Un’architettura “senza geometria”, una non architettura che si avvolgeva su se stessa, dove è il caos l’elemento ordinatore, per “decostruire” ciò che è costruito. La decostruzione come smembramento strutturale delle relazioni gerarchiche fra le parti e non soltanto come disarticolazione delle forme. Il riferimento è al post strutturalismo e alla de-costruzione della struttura dell’intero pensiero occidentale.

Sono in molti, di fronte a questa realizzazione, a rimproverare ai due architetti viennesi, il loro passato “rivoluzionario”. Quando progettavano la “morte dell’architettura” e la necessità di bruciarla.

« Non vogliamo costruire Biedermeier (elementi romantici).Non ora né mai. Siamo stufi di vedere Palladio e altre maschere storiche. Non vogliamo un’architettura che esclude tutto ciò che è inquietante. Vogliamo un’architettura che dà di più. Un’architettura che sanguina, che sfianca, che turbina e che rompe, anche. Un’architettura che accende, che punge, che squarcia e sotto stress, lacrima. L’architettura deve essere cupa, ardente, liscia, rugosa, angolare, brutale, rotondeggiante, delicata, colorata, oscena, voluttuosa, sognante, seducente, repellente, asciutta, bagnata e palpitante. Viva o morta. Fredda – allora fredda come il ghiaccio. Calda – allora ardente come un’ala in fiamme. L’architettura deve bruciare »

Un manifesto dei movimenti sociali tedeschi affisso per tutta Francoforte oggi gli ricorda che togliendo la lettera “b” bruciare (brennen) diventa costruire (rennen). Come vogliono i padroni del mondo. Come loro hanno fatto eseguendo i loro voleri. Non basterà un’architettura “storta” a fermare il 18 la nostra rabbia.