ITALIA

Davide Curcuruto: «La violenza omofoba è strutturale, servono azioni collettive»

L’attivista, appartenente a varie realtà transfemministe e queer, dopo aver ricevuto insulti omofobi molto pesanti sui social da un docente dell’Università di Messina ha deciso di denunciare l’accaduto per lanciare un discorso politico più ampio

Attaccato su Facebook da un professore universitario di Messina per il suo orientamento sessuale, Davide Curcuruto anziché lasciarsi intimidire ha deciso di esporsi in prima persona scrivendo una lettera pubblica per denunciare l’accaduto e aprire un confronto pubblico sulla violenza strutturale che ancora colpisce troppe persone appartenenti alla comunità queer. Lo abbiamo raggiunto telefonicamente per farci raccontare la sua vicenda e il suo attivismo, locale e non solo, con il collettivo che ha contribuito a fondare durante l’estate 2020.

 

Ti va di raccontare che cosa è successo?

Tutto è iniziato diversi mesi fa. Io e questo docente dell’Università di Messina eravamo indirettamente collegati, perché tra il 2017 e il 2018 ho fatto parte del Fronte della Gioventù Comunista, che poi ho abbandonato proprio perché al suo interno le questioni di genere non esistono. Poiché lui fa parte del Partito Comunista, diretto da Marco Rizzo, eravamo nella stessa bolla social. Dopo essere uscito dal Fronte, avevo iniziato ad avvicinarmi agli spazi transfemministi, ma lui era rimasto tra i miei contatti di Facebook. So che, nel frattempo, aveva fondato un gruppo chiamato “Comunisti antifemministi”: in pratica per lui il nemico erano le frocie e le donne.

Nei mesi scorsi è iniziata la sua attività di stalking sul mio profilo: ad esempio a dicembre avevo fatto un post sulla mascolinità e lui mi aveva insultato dicendo «dovrebbero farti un TSO», «fatti curare», insomma insulti omofobi, abilisti e chi più ne ha più ne metta. Allora avevo deciso di eliminarlo dalla mia lista contatti. Pensavo che senza vedere i miei post gli sarebbe passata la voglia di insultarmi. Invece no, ha continuato a farlo fino al climax del fatto incriminato, il 7 aprile: mi sveglio e mi ritrovo Facebook pieno di notifiche di suoi commenti a diversi post, tutti piuttosto violenti. Poi mi arrivano dei messaggi da parte di amici che avevano ancora il suo contatto sul social network: mi dicono che lui aveva pubblicato vari screenshot di miei post, tra cui una riflessione sul catcalling che io avevo scritto in un gruppo privato da cui lui era già stato espulso.

Allora vado su questo post e mi rendo conto che aveva scritto di tutto, tra cui «frocio perso», «per questi fare politica è parlare dei propri pruriti», «questi tizi vanno epurati», «fatelo scendere a Messina così lo pestano e probabilmente gli piace pure»… Io ero stupito da tutta questa violenza, ma neanche più di tanto perché, da quando ho fatto coming-out, episodi del genere si ripetono ciclicamente: anzi quando ero più giovane ho anche subito aggressioni fisiche (una volta sull’autobus alcune persone volevano lanciarmi dal mezzo a strapiombo sul mare).

 

Come sei arrivato alla decisione di denunciare?

All’inizio non ci avevo pensato più di tanto, ma poi, sempre tramite Facebook, ho scoperto che lui era un professore universitario di Messina. A quel punto in me è scattato qualcosa: un flashback della mia adolescenza. Mi sono immedesimato nel me sedicenne, che può essere qualsiasi giovane frocia oggi: una persona priva di reti, che vive quella situazione, in cui al di là delle amicizie, non esiste una comunità… Come si sarebbe potuta sentire quella persona a leggere queste cose? Soprattutto se scritte da un docente universitario. È stato in quel momento che ho deciso di fare qualcosa per la mia comunità, per le persone che si trovano nella stessa situazione in cui mi trovavo io anni fa: ho scelto di fare una denuncia pubblica. È una cosa a cui tengo molto: non voglio trasformare questa cosa in una battaglia personale.

Che lui abbia una sanzione penale o disciplinare a me interessa relativamente: certo, non posso dire che mi dispiaccia, sarei ipocrita, però il mio intento principale è quello di riportare questa cosa pubblicamente, con l’intervento dell’università e delle associazioni, anche sull’onda di #moltopiùdizan. Voglio mandare un messaggio alla comunità: intanto per dimostrare che c’è un’associazione a Messina, Liberazione Queer, che è attiva sul territorio, che è una consultoria e che può fare rete, e allo stesso tempo per dimostrare che un’azione collettiva pubblica può portare a dei risultati. Ad esempio, abbiamo ottenuto un incontro con il rettore in cui faremo delle proposte, cercheremo di ottenere un osservatorio sulla violenza di genere, così come degli interventi strutturali sulla didattica: questo è molto importante perché è un modo di smuovere le istituzioni, in cui io continuo a non credere, ma allo stesso tempo è la società in cui viviamo e ci dobbiamo fare i conti.

 

Roma Pride 2019, dall’archivio di DINAMOpress

 

 

Che supporto hai avuto dai collettivi?

Arcigay mi ha fornito il supporto legale e gli sono molto riconoscente, ma per il supporto politico mi sono rivolto al collettivo Liberazione Queer, che ho contribuito a fondare. Insomma avevo anche un interesse affettivo nel fare le cose con i miei compagni e le mie compagne. Il collettivo è nato a luglio, sulla scia di #moltopiùdizan, che abbiamo portato avanti con la rete TFQ, insieme al B-Side Pride di Bologna e il Macao di Milano. Su queste parole d’ordine nasce il collettivo di cui la mia città aveva disperatamente bisogno. In quel periodo ero a Messina (ora vivo a Bologna) e all’inizio eravamo pochissime persone, ma poi c’è stata una sorta di esplosione soprattutto tra le generazioni più giovani. Da lì il collettivo si è allargato connettendosi alla rete queer nazionale, ovviamente facendo propri anche i temi di Non Una Di Meno. Abbiamo scelto di chiamarci Liberazione Queer perché vediamo un’intersezionalità profonda della lotta queer nel transfemminismo: noi ci definiamo prima di tutto un collettivo transfemminista.

 

Quindi il fatto di trovarti già in una rete di attivismo è stato determinante per poter denunciare e avere la forza di esporti anche mediaticamente su questa storia …

Assolutamente. Se non ci fossero stati TFQ, B-Side Pride e Liberazione Queer non sarei mai intervenuto. Infatti in passato, per aggressioni anche più violente e più gravi, non ho fatto nulla. Prima, anche se avevo una rete di supporto, tra i miei amici o con mia madre, non riuscivo ad elaborare politicamente questa cosa, perché la violenza che avevo subito era completamente normalizzata. Quando vivi queste situazioni e vedi che nessuno reagisce, anche se ti arrabbi e pensi che non dovrebbe succedere, in fondo ti dici che è così, perché è la società in cui vivi.

Quando invece entri in contatto con altre persone come te che ti aiutano a politicizzare tutto quello che ti succede, è diverso. Perché cominci a capire che il problema non sei tu, ma è la normalità, o almeno ciò che ti abituano a pensare come normale. E poi la rete di militanza, oltre a darmi la forza di denunciare, mi ha dato anche un altro scopo: attraverso la discussione con i miei compagni e le mie compagne, abbiamo voluto trasformare queste storie in momenti di riflessione collettiva. Ci tengo molto a sottolinearlo: io vorrei utilizzare il megafono che ho in questo momento per lanciare la piazza del 15 maggio, che è stata convocata a Roma a livello nazionale per ribadire #moltopiùdizan. Perché il fatto che si parli di me, Davide Curcuruto, che ho subito un’aggressione omofoba, non può esaurirsi così: quante aggressioni omofobe al giorno subisce la mia comunità senza che vengano denunciate? Io voglio usare questa storia per lanciare un discorso politico, perché la mia non è una denuncia individuale, ma un’azione politica.

 

Nella lettera che hai pubblicato dici: «Il transfemminismo mi ha insegnato a decentrare lo sguardo da me stesso». Cosa intendi con questa frase?

Finché mi sono sentito solo, non avrei mai avuto la forza di mettermi in mostra o di cercare aiuto. Adesso che sono in rete ho anche la possibilità di cambiare punto di vista, come ho fatto ad esempio nei confronti della mia città. Io me ne sono andato da Messina odiando la mia città, anche sulla scia di una narrazione egemonica, che vuole il sud del mondo (sia a livello nazionale sia continentale) come qualcosa da trainare o da salvare. Questo è un retaggio coloniale che è presente anche nel nostro paese. Io sono un fervente meridionalista. Quando me ne sono andato dalla mia città ero ancora immerso in questa narrazione, quindi pensavo che Messina mi stesse dando tutta quella violenza perché in fondo era inferiore rispetto al grande nord in cui vivo adesso. Poi mi sono reso conto che anche questa era una narrazione egemonica e ho cominciato a decentrare lo sguardo partendo dalla mia esperienza: quello che mi era successo faceva parte di una rete di oppressioni che si intersecavano a vicenda.

Ad esempio: mi sono sempre chiesto come mai al Sud vedevo un atteggiamento meno razzista, ma più omofobo. La risposta che mi sono dato è che, in una terra dove non esiste un sistema di welfare, la famiglia assume questa funzione primaria, quindi tutto ciò che mette in discussione la centralità della famiglia viene visto come un attacco all’essenza della vita delle persone. Allo stesso tempo, per me è molto importante anche capire che quello che mi è successo non riguarda solo me, ma tutta la mia comunità. Espormi pubblicamente, adesso che ne ho le forze, significa anche comprendere che attraverso una denuncia pubblica posso aiutare le persone della mia comunità che sono lontane da queste reti.

 

La tua storia, tra l’altro, è uscita sui media proprio in un momento di acceso dibattito pubblico sul ddl Zan…

Quello che mi è successo è strettamente legato al dibattito sulla legge Zan. Noi vogliamo sicuramente questa legge, che è un punto di partenza, ma non possiamo fermarci qui. È ciò che stiamo richiedendo con la rete nazionale transfemminista, con il B-Side Pride, con il laboratorio Smaschieramenti, con Liberazione Queer e tutto quel percorso iniziato da luglio che sostanzialmente rivendica molto più di Zan. Il problema è che la legge, oltre a non considerare le soggettività non binarie, mette in atto un meccanismo sanzionatorio. Come se la violenza di genere non fosse strutturale: noi attacchiamo il singolo che fa una cosa sbagliata nella società liberale perfetta, dove si mistifica questa normalità.

Ma la violenza che viviamo quotidianamente non basta che sia punita attraverso una sanzione: deve essere decostruita attraverso una riflessione che metta in discussione questa idea di un soggetto coerente neutro che semplicemente non esiste e produce la violenza che la società capitalistica ha imposto dalla sua nascita. Quindi quello che chiediamo e che ribadiremo il 15 maggio è di ripartire anche da un altro modo di pensare la politica queer, tramite interventi politici e sociali. Nella società vogliamo consultori, centri antiviolenza, vogliamo finanziamenti veri per questo, vogliamo che gli spazi pubblici come le scuole e le università si impegnino davvero a contrastare la cultura etero-patriarcale dominante attraverso l’educazione sessuale e all’affettività. Vogliamo che ci siano degli osservatori nazionali e regionali su queste tematiche e non semplicemente una legge che manda l’ennesimo aggressore in prigione. Che cosa abbiamo ottenuto così?

Inoltre, anche per la mia storia di militanza, non vedo la prigione come uno strumento di correzione, anzi è un luogo dove si buttano determinate marginalità e non c’è nessuna rieducazione. Perciò questa diventa veramente un’occasione per pensare alle gerarchie strutturali in cui tuttu siamo immersu, in cui non ci sia una divisione tra diritti sociali e diritti civili. Dobbiamo contestare queste divisioni giuridiche e la società deve cambiare a partire dalle diverse alterità in cui siamo immersi. Come persone proletarie, come persone frocie, come donne, come soggettività dai generi non conformi e come persone razzializzate dobbiamo partire da tutto ciò che ci rende fuori norma per mettere in discussione la norma stessa.

 

 

Immagine di copertina dall’archivio di DINAMOpress