COMMONS

Dal Valle a Villa Blanc, i beni comuni visti dall’alto

Quale governance immaginano per la città di tutti l’assessore Flavia Barca e la Luiss?
Una “inchiesta” sulla città e i beni comuni al tempo della partecipazione (tra pubblico e privato)

Lo scorso 2 Dicembre l’assessore alla cultura Flavia Barca ha tenuto alla Luiss Guido Carli il seminario Comunicare una politica pubblica per la cultura, organizzato nell’ambito del corso “Comunicazione istituzionale”. La Luiss è, ricordiamolo, una università privata vicina a Confindustria, fondata da industriali e banche per “educare i giovani ad una cultura sostanzialmente liberale di approccio all’impresa” -con una

“Associazione Amici della Luiss” presieduta da Francesco Gaetano Caltagirone.

La notizia riportata dai giornali è che l’ass. Barca ha attaccato le esperienze di occupazione e autogestione di spazi quali il Teatro Valle e il Cinema America Occupato a Roma, decretando che queste sono destinate a soccombere perché “l’occupazione può portare all’assenza di linee guida e di orientamento, causando, inevitabilmente, la fine di queste esperienze. Serve, piuttosto, una direzione, il supporto delle istituzioni…”

Una dichiarazione che sembrerebbe riprendere la proposta programmatica di creazione di una cabina di regia per la cura dei beni comuni, elaborata da Christian Iaione -professore di diritto pubblico, organizzatore del seminario, e direttore di Labsus, laboratorio per la sussidiarietà, una rete di soggetti appartenenti alla vasta galassia della cittadinanza attiva.

Iaione individua principalmente in due fattori la causa dell’attuale crisi della città: da una parte “i vincoli sempre più stringenti ai bilanci degli enti locali, imposti dalla disciplina comunitaria in materia di patto di stabilità e derivanti dalla dimensione del debito pubblico italiano..”, dall’altra “la graduale disaffezione e disattenzione dei cittadini verso questi spazi e servizi di interesse comune…” E’ interessante notare che secondo Iaione “questo atteggiamento di spoliazione di titolarità e responsabilità da parte dei cittadini consente l’aggressione predatoria di questi beni e servizi della comunità..”

Per far fronte a questa crisi, Iaione elabora una proposta di gestione condivisa dei beni comuni, anche a partire da una interessante analisi della trasformazione in atto dei poteri pubblici. “Dopo lo Stato Sovrano, dopo lo Stato Produttore e dispensatore (a caro prezzo) di servizi di benessere.. il welfare state, dopo il fallimento planetario dello Stato Regolatore… si affaccia la quarta rivoluzione istituzionale: lo Stato relazionale. Si tratta di uno Stato che produce governante, cioè governa reti di collaborazione tra diversi soggetti tutti interessati alla realizzazione di uno scopo comune.”

In questo contesto, “con il passaggio da logiche di government centrate sul paradigma bipolare a logiche di governante centrate sul paradigma sussidiario”, si collocherebbe la creazione a livello nazionale di un’istituzione pubblico-privata per la realizzazione di esperienze di governance dei beni comuni, rivolta principalmente alle pubbliche amministrazioni, con il sostegno finanziario dei privati (quali le fondazioni bancarie) in una relazione partenariale.

La creazione di questa cabina di regia si articolerebbe in tre fasi : la prima di formazione teorica degli operatori pubblici istituzionali a cura di docenti-tutor, la seconda di sperimentazione, la terza prevede “l’elaborazione dei Manuali di istruzioni e l’assistenza e affiancamento permanenti e continui da parte della Cabina di regia nell’uso dei Manuali.”

Sembrerebbe rientrare in questo programma la creazione nel 2011 di un Laboratorio per la governance dei beni comuni presso il dipartimento di Scienze politiche della Luiss, con l’obiettivo di “formare una figura professionale inedita nel panorama italiano, quella dei “professionisti della cura condivisa dei beni comuni”. Il laboratorio ha sottoscritto un accordo di partenariato con Roma Capitale per “aiutare l’amministrazione comunale a ripensare se stessa e ridisegnarsi secondo la logica di amministrazione condivisa e, conseguentemente anche di facilitazione dell’economia dei beni comuni”, dando vita ad iniziative quali Reinventada, “un esperimento di amministrazione condivisa” svoltosi il 27 ottobre scorso a Villa Ada, con il sostegno di tutto l’ambaradan di Sovrintendenze e Assessorati (ass. Barca compresa) per “sensibilizzare i cittadini alla cura dei beni comuni”, di fatto (in questo caso) invitando i cittadini a sostituirsi all’AMA per procedere alla “rimozione di scritte e graffiti sul tempio di Flora e nella pulizia dello spazio antistante”.

Il 17 ottobre scorso inoltre è stato presentato a Bologna il progetto “Le città come beni comuni”, un progetto pilota di nuova modalità di cura dei beni comuni fondata sul modello dell’amministrazione condivisa, frutto della collaborazione tra il Comune di Bologna, Labsus, Centro Antartide e Fondazione del Monte.

Nel contesto dell’alleanza tra pubblico e privato nella gestione della città assistiamo all’inquietante (ma forse anche prevedibile) tendenza all’accaparramento del discorso dei beni comuni e al suo dirottamento verso logiche aziendalistiche e manageriali, e al tentativo istituzionale di inglobare il concetto di bene comune, da una parte esautorando le esperienze reali di gestione dal basso, dall’altra chiamando alla partecipazione dall’alto.

L’ipotesi di una governante dei beni comuni tramite una alleanza di pubblico e privato contraddice il concetto stesso di bene comune, di una categoria relazionale che nasce e si colloca al di fuori di entrambe queste sfere, al di fuori della dicotomia Stato-Mercato, laddove queste hanno fallito nel suo governo. Non è sufficiente un’operazione lessicale per immaginare strumenti imprenditoriali di governante dei beni comuni, pubblica o privata che sia. Non è solo nelle forme di gestione, rispetto alle quali un master in businessadministration può essere risolutore e viatico, che il bene comune si realizza: è nel potere decisionale sulla funzione e la fruizione degli stessi che i cittadini partecipano realmente al progetto città con portata trasformativa, creativa, innovativa. I beni comuni si configurano nelle lotte, non preesistono ad esse, e se vengono individuati dall’alto non c’è forma di partecipazione e coinvolgimento della cittadinanza che possa davvero costituire una pratica di governo (non di governante) davvero alternativa all’esistente. Sono le istituzioni a dover partecipare ai progetti dei cittadini, non viceversa perché, come direbbero certi, “chi comanda comanda ubbidendo”.

Negli ultimi due anni sono proliferate in Italia azioni spontanee di riappropriazione, difesa e autogestione di spazi abbandonati, a rischio speculazione o chiusura, da parte di cittadini, chiamiamoli attivi (soprattutto giovani).

Oggi queste stesse esperienze sono attaccate e giudicate insufficienti da un’amministrazione che fa della “cittadinanza attiva” e della “partecipazione” un cavallo di battaglia. Che le istituzioni invitino i cittadini alla partecipazione è un segnale di apertura importante. Manca tuttavia una analisi convincente e veritiera delle cause della crisi della città, e una definizione sostanziale della partecipazione invocata: non è chiaro a quale livello di gestione della città siano invitati a partecipare i cittadini, se a un livello decisionale o meramente di manutenzione della città.

Di sicuro oggi non sono i cittadini a dover essere sensibilizzati sui temi della salvaguardia del territorio e della città, semmai il contrario. Le lotte per la difesa dei beni comuni che vanno dalle occupazioni dei teatri e dei cinema abbandonati, al movimento No-Tav, No Muos, alla galassia di esperienze locali meno note, di comitati e singoli cittadini che lottano quotidianamente contro progetti di speculazione edilizia, contro l’apertura di discariche, per il diritto al verde, alla casa, ai luoghi di socialità, per spazi di realizzazione di diritticostantemente negati dalle logiche del profitto e dagli interessi dei privati, hanno posto con forza questo problema. Queste battaglie si sono scontrate spesso con vari livelli di repressione, dall’indifferenza delle amministrazioni che spesso nasconde la connivenza con interessi opposti a quelli della collettività, fino alla loro criminalizzazione e persecuzione penale vera e propria. Oggi a Roma l’amministrazione cittadina è cambiata, si avviano percorsi di partecipazione, e le esperienze di cui sopra sono giudicate “insufficienti”.

Quale modello di cooperazione dovrebbe sostituirle? A quale progetto di città siamo chiamati a partecipare? Quale ruolo possono avere le esperienze di lotta in difesa dei beni comuni?

Un progetto di città la cui amministrazione svende il patrimonio pubblico e sottostà al ricatto del debito, del patto di stabilità europeo e della dittature della finanza?

E come si fa ancora a parlare della dicotomia pubblico-privato/ politico-finanziaria, nella città globale che “agisce sempre più da nodo delle reti economiche globali.. una nuova funzione che fa della realtà urbana il centro del nuovo potere politico mosso dalle transazioni finanziarie ed esercitato dagli attori protagonisti della globalizzazione economica“?

Sarà forse per questo che stiamo vivendo la “quarta rivoluzione istituzionale”, con il fallimento del welfare state, e il passaggio ad uno “stato relazionale”? Contestualizzando adeguatamente questa trasformazione, l’attuale invito alla partecipazione dall’altro suona troppo come uno strumento di rimozione collettiva delle cause della trasformazione della città, di pacificazione del conflitto sociale e di annacquamento di qualsiasi tentativo di cambiamento reale. Dopo il mito della decrescita felice, della sobrietà e del pauperismo, il mito della partecipazione, senza una critica radicale delle cause della crisi, e quindi delle istituzioni cooperanti, sembrerebbe essere, nell’accogliere e fagocitare l’istanza della cooperazione, l’ultimo tassello di una mistificazione politico-culturale delle dinamiche violente di sfruttamento ancora in atto.

La proposta culturale dell’ass. Barca, e quella di Iaione, insistono in più punti sulla cooperazione dei privati. Per esempio delle citate fondazioni bancarie, ovvero gli stessi soggetti in parte responsabili del debito pubblico di Roma, costituito in gran parte da mutui erogati dalla Cassa Depositi e Prestiti, di cui una parte del capitale azionario è passato dal 2003 nelle mani di fondazioni bancarie che applicano un tasso di interesse per i prestiti agli enti locali allineati a quello di mercato, traendo vantaggio dal finanziamento alle pubbliche amministrazioni.

Ma non occorre andare tanto lontano per scorgere la grande contraddizione della proposta di cui sopra. Torniamo all’inizio, da dove siamo partiti, dall’università privata che ho ospitato il seminario dell’ass. Barca: la Luiss.

Pochi giorni prima del seminario del 2 dicembre, il TAR ha bocciato il ricorso presentato dall’associazione ambientalista Italia Nostra contro la costruzione di un campus universitario della Luiss nel cuore di Villa Blanc, 47mila metri di verde che i cittadini chiedono vengano aperti al pubblico. Un progetto che prevede otto parcheggi e viabilità carrabile all’interno del parco, foresterie e ristorante; un progetto che si farà, nonostante la destinazione a verde pubblico prevista dal piano regolatore. Un progetto osteggiato e combattuto con forza dai cittadini riuniti nel Comitato in difesa di Villa Blanc, in una battaglia che dura da oltre quarant’anni.

Nel 1997 la Luiss comprò all’asta Villa Blanc per soli 6,5 miliardi di lire – poco più di 3 milioni di euro. L’allora Ministro dei Beni culturali, Walter Veltroni, avrebbe potuto ricomprare per poco più la Villa, ma non lo fece. Nel 2011 la Giunta Alemanno ha autorizzato la Luiss a effettuare i lavori – attualmente in corso – per la realizzazione di un campus universitario, sulla base di una semplice memoria di giunta.

Forse gli esperti di partecipazione e gestione dei beni comuni dovrebbero lasciar perdere Villa Ada e ricominciare a lavorare da Villa Blanc.

Forse esperti ed istituzioni dovrebbero avere più rispetto delle esperienze di lotta per la tutela dei beni comuni, e anziché voler “sensibilizzare” i cittadini, dovrebbero cominciare a relazionarsi con la capacità autonoma di usufruire, decidere e gestire gli spazi della città, spazi di tutti, spazi irriducibili alle logiche di mercato, al di fuori dell’alleanza tra pubblico e privato, spazi veri di democrazia, e di partecipazione.

Parliamone, parliamo di partecipazione, attuiamola, decliniamola, troviamo gli strumenti di una gestione condivisa dei beni comuni, nell’ottica di una collaborazione nuova, ma non a partire da una analisi teorica parziale, bensì a partire dalle istanze poste da chi spende le proprie passioni e il proprio corpo nella loro difesa, tutti i giorni.