POTERI

Dal Day after al patto Gentiloni bis

Che sentimenti proviamo, che facciamo all’indomani del crollo di Renzi, siamo anzi sicuri che sia crollato? Abbiamo scosso l’albero di brutto, ma chi raccoglierà i frutti da terra?

Su un sito di movimento non si dovrebbe eccedere con la psicologia personale, ma faccio uno strappo. Quando nel pomeriggio del 4 dicembre ho percepito un numero straordinario di votanti, ho avuto la precisa sensazione che il voto non si sarebbe risolto con un testa a testa bensì con un grosso scarto. Sentivo che si erano messe in moto forze imprevedibili e motivate. Peccato che non riuscissi a prevedere in quale senso. Speravo (senza ragioni e contro i calcoli dei sondaggisti) che la grande affluenza significasse trionfo del No e quando sono usciti gli exit polls e poi le proiezioni ho esultato. Mi è rimasta però la brutta sensazione di non avere il polso dell’elettorato, di non prevedere uno spostamento di quelle dimensioni e tanto meno di non sapere, neppure ora a cose fatte, quali spinte li abbiano mossi. Insomma, chi sono i miei compagni di strada, come si comporterebbero all’arrivo nel palazzo di un assegnatario marocchino, al passaggio di una coppia di gay abbracciati, come commenterebbero una violenza domestica, una frase razzista, una dimostrazione di studenti, uno sciopero operaio.

Da realista e difettando di scrupoli, prendo atto di una vittoria e porto a casa. Allo stesso tempo sono traumatizzato e inquieto. Desideravo dei sommovimenti profondi, ma mi piacerebbe capirne la direzione per contribuire a orientarli. Ciò mi sembra possibile solo in piccola parte, almeno al momento.

Mi guardo intorno e ho l’impressione di non essere il solo a nutrire questo sgomento, anche se oggi tutti giurano di aver previsto il risultato. Ha scritto schiettamente P. Franchi sul Corriere: «adesso nessuno lo riconoscerà, ma domenica scorsa, alla vista dei dati parziali sull’affluenza, lo abbiamo sperato (o temuto) in molti» – che ciò significasse consenso di massa al Sì – «a dimostrazione del fatto che, ad avere una rappresentazione diciamo così vaga dell’Italia reale, Renzi non è il solo».

La maggioranza silenziosa di un tempo non esiste più. Il recente passato, nel bene e nel male, è finito. Però non mi consolano le evocazioni di barbari e forconi alle porte: il viagra populista, per dirla con Bifo, non favorisce la lucidità nel cogliere i rapporti di classe e le tendenze.

Io mi sento parte di un altro NO: sociale, moltitudinario, antiliberista. Mi riconosco in una parte di quei flussi, di quell’affollarsi agli uffici comunali per ritirare il certificato e correre ai seggi. Ma quanto è grande questa parte? Non so darmi una risposta. Credo che la riflessione su questo ci occuperà a lungo, in parallelo alle iniziative concrete per portare avanti il nostro programma nelle condizioni definite dal tracollo del progetto renziano. C’è incongruenza fra il dato oggettivo di un rifiuto di massa dell’esistente e quello soggettivo delle inclinazioni consapevoli della maggioranza dei votanti. Chiara la composizione sociale e generazionale del No (rimando all’editoriale di Dinamo, Dopo il referendum: fare spazio al comune), meno chiaro se molti di loro non voterebbero per partiti dai programmi negativi o confusi. Se, cioè, l’insofferenza, sia in grado di passare al livello superiore di lotta sociale o si arresti al momenti su un cambio elettorale e per di più su partiti in sostanza moderati, con effetti di paralisi sulla stessa lotta sociale.

Renzi ha fatto quasi tutto da solo, creando le condizioni di una tempesta perfetta con la sua immensa stupidità e vanagloria, coltivata dal suo mentore Napolitano per conto dei poteri forti italiani, europei e atlantici, e incoraggiata dal servilismo dei media. Ci siamo inseriti non male, trascinando, in combinazione con varie forze, settori strategici dell’elettorato Pd (soprattutto fra i giovani precari, i lavoratori e utenti della scuola e dell’università, le municipalità ribelli) e preparando così le battaglie della fase di transizione che adesso si apre. La grande manifestazione Non una di meno del 26 novembre è stato l’esempio più alto del fare coalizione cui abbiamo cercato di contribuire. Non a caso si tratta di un movimento nuovo (o, se volete, di una nuova e originale ondata generazionale di un movimento femminista che scava da decenni). Vi sono stati esperimenti riusciti di sciopero sociale, forme originali di gestione degli spazi occupati, spunti promettenti di neo-municipalismo.

Invece nell’arco che va dall’estrema sinistra ai gruppi extra-parlamentari e ai movimenti del terzo millennio il bilancio è meno consolante. Non solo dobbiamo augurarci la dissoluzione delle formazioni partitiche e dei progetti velleitari di neo-formazioni che portano acqua Pd in difficoltà, ma dobbiamo constatare che la salute dei movimenti non è buona e forse non possiamo neppure auspicarne la “guarigione” nel senso di tener in vita forme presto invecchiate e ingestibili. Per i compiti posti dallo smottamento del blocco renziano e dalle incognite del No lo stato dei movimenti è inadeguato: si tratta di una sfida seria, mica è il caso di ridipingere gli steccati identitari a colori fiammanti o di inventarsi un qualche redivivo pope Gapòn a guisa di significante vuoto per infilarci astutamente contenuti rivoluzionari.

Consideriamo che la vittoria referendaria è solo un primo tempo: Renzi si è preso una tranvata pazzesca, ha pianto, ma è subito schizzato in piedi e si è messo a escogitare nuovi inganni e manovre, muovendosi in modo sempre più avventuristico al grido di Viva l’Italia. Lo stesso Napolitano, vero dominus del burattino di Rignano, ha iniziato a preoccuparsi, per esempio bloccando subito l’idea di un voto a scadenza ravvicinata. Invischiato dai poteri forti e delle deliberate proroghe della Consulta, Renzi si è trovato in mezzo fra due pericoli: esporsi per un secondo mandato, logorando la sua immagine e destinandosi a essere cucinato a fuoco lento, oppure scaricare ogni responsabilità, con il rischio di cedere il ruolo di comando a un collega di partito (Franceschini, detto a caso) che gli farebbe subito le scarpe. L’incarico al fido (chissà quanto) e flaccido Gentiloni ha prevalso infine su un improponibile Renzi-bis, per meno esporre il Coriolano di Pontassieve e garantirgli un residuo controllo sulle molte importanti nomine in scadenza. Al balletto di bugie me ne vado-non me ne vado-ritorno e mi vendico si è affiancata la venerabile liturgia di “rimpasto”, “staffetta”, governo balneare o sciistico, scioglimento della riserva, ecc.

Però Renzi non ha più dietro Napolitano e JPMorgan, tanto meno la maggioranza di un Pd timoroso di essere trascinato a picco dal suo fiasco. Che non si dia nessun pensiero delle sorti del Paese e del suo stesso partito l’abbiamo già visto con il referendum. Con il suo stile di giocatore ha tutta l’aria di rilanciare in modo ancora più pesante, trascinando nella caduta tutto il sistema che si è addensato intorno a lui. L’annuncio del congresso Pd a marzo 2017, preceduto dal tour in camper, parla chiaro. Non basteranno le riluttanze dei colonnelli e i lacci finanziari, neppure i ricatti europei. Dovremo passare per una seconda catastrofe, purtroppo non solo del renzismo e del Pd, ma del sistema bancario. Ricordiamoci il suo annuncio del 22 gennaio, a Porta a porta: “Mps è risanato, investire è un affare”.

E meno male che ancora non aveva preso in mano i servizi, appaltandoli a Carrai e al Mossad. Probabilmente è l’unica cosa buona che dobbiamo a Napolitano, per conto della gelosa Cia clintoniano-obamiana. Le cose potrebbero però cambiare nell’èra Trump, la cui nuova Cia potrebbe diventare il referente dell’avventurismo di Renzi, che infatti già medita di affidare i servizi all’intrigante Lotti, togliendoli all’ex-Lothar dalemiano Minniti. Bisogna temere chi non ha nulla da perdere perché già si è giocato tutto!

Il lato positivo di questi sviluppi è che adesso forse si prenderà coscienza che per rovesciare il sistema Renzi non basta il voto ma occorrono lotte concrete, scioperi, manifestazioni, costruzione di un’alternativa. Esiste un governo con cui prendersela e da mettere alla prova con richieste che non siano meramente costituzionali o di legge elettorale. Che il ritorno alla Prima Repubblica e a un’aperta egemonia democristiana, dopo la sbronza di post-verità, implichi almeno processi di contestazione e contrattazione. Tanto per cominciare.

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