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Daeş, un’utopia negativa

“Daeş. Viaggio nella banalità del male” di Sara Montinaro è il frutto di un meticoloso incrocio di testimonianze dirette, documenti, notizie giornalistiche e ricerche accademiche, che l’autrice ha condotto attraverso numerosi viaggi in area siriana e anche grazie a un percorso di militanza nell’ambito della lotta curda

L’Isis non è affatto sconfitto. Questa affermazione – che la studiosa e attivista politica Sara Montinaro mette a fuoco nell’ultima parte del suo Daeş. Viaggio nella banalità del male (Meltemi, 2020) – suona quasi come un’ipotesi di ricerca, ancor prima che come un monito da rivolgere al futuro prossimo. Dato per finito dopo la battaglia di Baghouz del marzo 2019, in cui è appunto caduta l’ultima sua roccaforte in territorio siriano, lo Stato Islamico è presto diventato marginale nel dibattito pubblico (occidentale). La “politica del terrore” che ha sconvolto le comunità musulmane di Africa, Asia e medio oriente così come le società europee, “incredule” di essere oggetto di tanto odio, ora è percepita forse solo come un’eco, un colpo di coda. Anche recenti attentati, quali quello avvenuto il 2 novembre dello scorso anno a Vienna, risuonano nella cronaca giornalistica e nei commenti come semplici “recrudescenze”, per quanto violente.

Eppure, il libro di Montinaro – frutto di numerosi viaggi di ricerca e militanza a cavallo fra Turchia, Rojava, Siria e Iraq – prova a dimostrare quanto questo sia un clamoroso errore di prospettiva. «Nel corso delle interviste – racconta l’autrice a un certo punto del libro – con Abdu Mohammed Belgica, con al-Assim Hulanda, con le spose di Daeş, con l’intelligence delle Sdf, con le comandanti Ypj, con l’imam e Fatima, e parlando e confrontandomi con amiche e amici siriani, emerge molto chiaramente che qualcosa succederà. Tutte e tutti, in un modo o nell’altro, ribadivano lo stesso concetto: l’Isis non è morto e ritornerà più forte di prima».

 

Perciò, anche se magari ci si trova in una congiuntura storica dove non si sente così urgente la necessità di certe domande, è quanto mai importante provare a buttare lo sguardo sia in avanti che indietro, abbozzare una ricostruzione del passato, risalendo alle origini più profonde dell’ideologia di Daeş, e al tempo stesso azzardare una previsione di ciò che ci attende di qui a breve, delineando i contorni di equilibri politici e territoriali che vanno mutando molto rapidamente.

 

Per fare questo, occorre sgomberare il campo di riflessione da due “tentazioni” molto comuni verso cui tendono tanti discorsi e tante analisi che hanno per oggetto lo Stato Islamico. Da una parte, infatti, il nome dell’Isis viene spesso associato quasi solo al suo aspetto più eclatante e (per usare una terminologia forse infelice) “reboante”, dalle scenografiche decapitazioni filmate e poi diffuse fino alle esecuzioni capitali in cui si manifesta un odio viscerale (e visceralmente violento) per ogni tipo di diversità: la strage nella redazione di Charlie Hebdo, il Bataclan, le persone lanciate da un tetto della città irachena di Fallujah perché “colpevoli” di omosessualità, lo sgozzamento dei prigionieri nel video The making of illusion, il brutale genocidio della popolazione yazida… Dall’altra, con una sorta di “riduzionismo” analitico che ambisce forse a essere “strategico”, si tende a volte a spiegare la nascita e lo sviluppo di Daeş come delle semplici reazioni a eventi in qualche modo esterni, che siano relativi cioè a particolari rapporti di forza nel contesto mediorientale o all’immarcescibile conflitto fra sciiti e sunniti, oppure ancora come conseguenza delle operazioni militari e predatorie compiute in quei territori da parte delle superpotenze occidentali.

 

Rovine di Sinjar (fonte: commons.wikimedia.org)

 

Daeş. Viaggio nella banalità del male ha il pregio di evitare queste due opposte semplificazioni. Sbaglieremmo a vedere solo il lato più nichilista e irrazionale dello Stato Islamico, percependolo come un’insensata esplosione di odio cieco e irrefrenabile. Ma, al contempo, volerlo comprendere esclusivamente nei termini della storia e della sociologia rischia di essere una narrazione tutto sommato rassicurante, che non tiene conto del potenziale effettivamente eversivo e di radicale novità che Daeş rappresenta agli occhi tanto di un “occidentale” quanto di chi vive nelle aree e nei contesti in cui la sua ideologia estrema ha trovato piena e concreta espressione.

 

Montinaro, nelle numerose sezioni che compongono la ricerca, si muove dunque e con eguale intensità fra partecipazione militante e rigore espositivo: la prima parte del libro (“Genealogia dell’Isis e nascita dello Stato Islamico”) ricostruisce agilmente la storia del pensiero islamico a partire dalla divisione fra sunniti e sciiti, fra Califfato e Imamato, per capire quali e quante tracce di questa antica frattura si siano sedimentate nell’oggi, mentre l’ultima parte (“Daeş a confronto con la realtà”) prova appunto a ipotizzare gli sviluppi del fenomeno che potrebbero interessare a breve l’area siriano-irachena, con particolare attenzione alle sorti dell’esperimento del confederalismo democratico in Rojava, ma anche in paesi europei come l’Italia, per quanto concerne la questione dei foreign fighter.

 

In mezzo, quasi a far da raccordo, due capitoli più specifici e davvero preziosi (“Organizzazione parastatale dell’Isis” e “Donne e Daeş”), in cui si entra nel merito e con grande dovizia di particolari dell’organizzazione burocratica, militare e legislativa instaurata dallo Stato Islamico nei territori finiti sotto il suo controllo e del ruolo, talvolta ambiguo, che in tale organizzazione comunitaria hanno trovato gli individui di genere femminile.

Al centro dell’intero ragionamento, una convinzione elementare ma feconda: «Le infinite diatribe territoriali-tribali delle popolazioni autoctone, le innumerevoli scuole di pensiero teologico sviluppatesi nel corso dei secoli e le ingerenze perpetrate da potenze straniere, in primis dall’accordo Sykes-Picot, sono l’humus dal quale l’ideologia fondamentalista dell’Isis ha preso forma», dice Montinaro in capo al suo discorso. «All’interno di questo contesto, infatti, lo Stato Islamico-Isis ha riempito un vuoto [corsivo nostro, ndr] presentandosi alla umma sunnita come unica alternativa politica al momento esistente». Non una forza esogena e aliena rispetto allo stato di cose, dunque, ma anzi un fenomeno che in qualche modo va a rispondere a esigenze e bisogni diffusi all’interno della popolazione, quando non – in una minima parte – il prodotto stesso di queste esigenze e questi bisogni: pur evidenziandone il carattere aberrante e nefasto, cioè, l’ideologia di Daeş va innanzitutto riconosciuta per quanto possiede di funzionale (e finanche appetibile) dentro una situazione data. Il funesto sogno dei militanti (e delle militanti!) dell’Isis è dunque quello di una utopia negativa, in cui si mischiano quasi con egual misura sentimenti di rivalsa storica nei confronti dell’occidente e di altre comunità islamiche, fascinazione per l’esercizio di una violenza cieca e vendicativa, un fanatismo nostalgico per le strutture sociali “tradizionali” così come sincera volontà di vivere in modo integrale e coerente la propria fede religiosa, desiderio di beneficiare di uno stato sociale e di un’organizzazione statale più efficienti di quelle presenti in certi contesti, pura e semplice necessità di autodeterminarsi.

 

È quanto emerge dalle conversazioni che l’autrice ha avuto con molti ex-combattenti ed ex-affiliati dell’Isis, incontrati soprattutto nella primavera del 2020 durante delle visite ai campi di detenzione della Syrian Democratic Forces Al-Hol e Roj, e che riporta nei loro punti più salienti nel corso del libro.

 

Ma è anche quanto emerge dalla stessa descrizione, ottenuta attraverso il meticoloso incrocio di testimonianze dirette, documenti, notizie giornalistiche e ricerche accademiche, dell’apparato statale e burocratico messo in campo da Daeş nei territori conquistati. Il grosso investimento posto nella creazione di una capillare struttura amministrativa, legislativa e poliziesca, ramificata in numerosi ed eterogenei uffici o sezioni (i Dīwān, o dipartimenti) che vanno dalla guerra alle finanze, dalla propaganda alla salute, dalla polizia religiosa sia maschile che femminile all’applicazione della legge islamica vera e propria, dimostra come l’Isis, lungi dal rappresentare un soggetto politico votato soltanto al caos e alla barbarie, è invece anche animato da una ricerca spasmodica (quasi al limite della nevrosi paranoica) di ordine, sociale e comunitario. Nessun “tribalismo” o “primitivismo”, dunque, ma anzi una concezione dello stato e dei suoi apparati di funzionamento in tutto e per tutto moderna, contemporanea.

In questo senso, il tema dei foreign fighter – che non a caso assume un peso preponderante nel libro e che per certi versi rappresenta una delle questioni di maggiore attualità – va letto anche nella sua valenza di “sintomo”, di “spia” che mostra parte del non-detto nel dibattito pubblico sull’argomento. Montinaro è molto chiara: «Far finta che il problema non esiste ci renderebbe in qualche modo complici. La nostra società si deve assumere la responsabilità di aver creato questi frutti. […] È arrivato il momento in cui bisogna avere coraggio!». Il destino di quanti e quante hanno lasciato il proprio paese per unirsi all’Isis, a diversi gradi di affiliazione e responsabilità, è qualcosa che ci riguarda come collettività. Non solo da un punto di vista giuridico e legislativo, ma anche e soprattutto perché si tratta di un fenomeno attraverso il quale sarebbe forse possibile (e doveroso) mettere in discussione l’“inconscio valoriale” delle nostre comunità, dei nostri modi di produzione e riproduzione sociale.

 

Se è vero – come si afferma ancora in Daeş. Viaggio nella banalità del male – che «Daeş, oltre ad aver turbato l’occidente, si è rivelato essere un terremoto anche per la comunità musulmana» (anzi, soprattutto per la comunità musulmana, visto che il principale obiettivo di questo tipo di fondamentalismo è proprio estirpare i nemici interni all’Islam), occorre non sottovalutare il potere di attrazione che ha esercitato e continua a esercitare su chi invece cresce e si trova in contesti a prevalenza “non-musulmana”.

 

Numerosi studi e numerose testimonianze hanno infatti smontato la vulgata delle “seconde generazioni”, per cui a unirsi all’Isis dai paesi occidentali sarebbero esclusivamente figli di immigrati di fede islamica. Al contrario, come precisato dalla stessa Montinaro nel libro, «i motivi che hanno portato migliaia di giovani europei a unirsi a Daeş sono svariati; semplificare e focalizzarsi solo su alcuni di essi sarebbe sicuramente fuorviante e non veritiero». In questo senso, la parabola dello Stato Islamico interroga davvero la contemporaneità nella sua interezza: l’ideologia che lo sorregge, forse anche solo e meramente in quanto ideologia, va a riempire un vuoto che abita il cuore tanto del contesto islamico che di quello occidentale (dice una donna che si è entrata a far parte di Daeş partendo dal nostro paese: «No, non mi sono pentita. Non mi manca l’Italia. Qua ho trovato me stessa, ho trovato la mia strada, […] la strada del Profeta»). Allo stesso tempo, anche i destini di chi si è recato in Siria per combattere sul campo una tale ideologia – e che, purtroppo, in questa battaglia ha magari perso la vita, come Lorenzo “Orso” Orsetti – interrogano un medesimo vuoto, una medesima e radicale volontà che la storia possa fare un corso diverso da quello attuale.

 

Combattenti Ypg e Ypj (di Kurdishstruggle da Flickr)

 

La parabola dello Stato Islamico rappresenta, cioè, una sorta di anello di congiunzione fra due differenti quadri socio-politici, fra due diversi periodi storici. Se da una parte l’ondata di cambiamento avviatasi con le cosiddette “primavere arabe” ha subito una brutale chiusura e un irrigidimento, dall’altra però abbiamo assistito alla nascita dell’“utopia concreta” del Rojava e della lotta curda: un’esperienza dalla quale, peraltro, nasce concretamente anche Daeş. Viaggio nella banalità del male, che si “nutre” appunto dei viaggi di militanza compiuti dall’autrice in Siria del Nord e delle testimonianze di combattenti curde.

 

La sezione del libro dedicata alle “donne di Daeş” (in cui vengono descritti i diversi compiti, fra controllo e adescamento, svolti dalla componente femminile all’interno dello Stato Islamico) allora è come se chiamasse in causa, sottintendendolo, il proprio vicino contraltare.

 

Di contro alla visione religiosa e alla struttura sociale misogine dell’Isis in cui le donne, se anche assumono un ruolo attivo, lo fanno poi in fondo per ribadire una completa subalternità all’uomo, la Jineologia (“scienza della donna”) curda prova invece a costruire una comunità e una politica collettiva a partire dal femminile, che possa sovvertire l’ordine tradizionale e patriarcale. Che possa sovvertire, infine, ogni sistema di dominio e prevaricazione.

«Per noi il concetto di democrazia è quello che deriva dalla Grecia e che significa che le persone si possono governare da sole», viene affermato nel libro durante la conversazione con un imam a proposito della possibile prefigurazione di un islam democratico. «Daeş utilizza il significato attuale in termini di governance, per indicare una forma di governo. Per noi invece democrazia significa che tutti devono partecipare ed esprimere le proprie idee. Tutti devono accettare il diritto di ciascuna persona ad avere la propria idea e le decisioni vanno prese insieme. Questo per noi significa essere liberi».

Biji Azadi, allora, «Lunga vita alla libertà»!

 

Immagine di copertina di Levi Clancy da commons.wikimedia.org