editoriale

Crisi di governo. Si succedono vari scenari, tutti brutti

Comunque vada a finire il braccio di ferro sul governo fra Mattarella e le due formazioni populiste che hanno presentato il famoso “contratto”, ci sono quattro punti già chiari: che Salvini ha vinto la partita, che Di Maio è in affanno, che Conte è irrilevante e che il Pd è fuori gioco

Salvini ha dimostrato una notevole abilità tattica, relegando ai margini Di Maio, ridotto a mettere like sotto i suoi proclami sintetici («davvero arrabbiato») e dispiegando tutta la potenza del suo doppio scenario: o prendere la direzione di fatto di un governo sotto il suo controllo (Interni e Savona all’Economia), piegando la riluttanza del Presidente della Repubblica, o andare a elezioni anticipate a breve, riscuotendo un vistoso successo e rendendosi indipendente da Berlusconi e Meloni. Questa seconda soluzione (sia che risulti il primo partito in assoluto sia che diventi numericamente assai più potente azionista di maggioranza nella coalizione di centrodestra) suonerebbe anche come bruciante sconfessione di Mattarella, aprendo davvero una crisi istituzionale e un passaggio di regime. Nel momento in cui ha alzato l’asticella affermando, con toni alla Laclau, che non ci sono più destra e sinistra ma solo alto e basso, élite e popolo (intendendo con ciò che il centro-sinistra è defunto e il centro-destra a trazione berlusconiana è diventato un rottame), Salvini si è intestato il cambio di fase e di regime.

Di Maio non è assolutamente in grado di giocare una simile partita, dato che a livello governativo ha messo sul tavolo troppo presto le sue (povere) carte ed è stato costretto ad accontentarsi di un uomo di paglia “terzo”, ma soprattutto ha un giustificato terrore delle urne (vedi Molise, Friuli-Venezia Giulia e Valle d’Aosta), rischiando di perdere buona parte del suo fluttuante elettorato nonché il proprio ruolo di “capo politico” del Movimento. Più in generale i pentastellati scontano la mancanza di un partito e di una macchina interna di selezione dei quadri, verifica del consenso e costrizione all’obbedienza, tanto che sono costretti a fumosi espedienti quali il vincolo di mandato, la piattaforma Rousseau e contratti civilistici con gli eletti per tenere insieme e consultare la base, esponendosi in simultanea all’accusa di inefficacia e di scarsa trasparenza democratica. Il tutto a fronte di un partito “bolscevico”, ben rodato e radicato sul territorio e sugli amministratori come la Lega.

Conte (candidato da Di Maio prima a ministro poi a Premier) ha fatto una figura meschina, prima difendendosi con accenti maldestri in un pasticcio di Cv (come se mai fosse servito un Cv a De Gasperi o Craxi o perfino a Gentiloni), poi finendo schiacciato fra Mattarella e Salvini nella difesa di Savona: comunque finisca la storia è chiaro che non lo ha scelto lui e, alternativamente, non è stato in grado di difenderlo. Conte svela soltanto che Di Maio non può fare il Premier, pur avendo la maggioranza relativa nella coalizione che ha siglato il “Contratto”, per il veto di Salvini: dunque chi comanda Conte e Di Maio è Salvini. Nun c’è bisogno ‘a zingara / p’andivinà, Giggì…

In tutto questo la sinistra è restata alla finestra (secondo la dottrina renziana del pop corn), anzi ha approfittato della vacanza per sbranarsi ulteriormente al proprio interno, in termini che è persino difficile rendicontare in maniera coerente. Tira forte la tentazione dei renziani (più che di Renzi) a varare in fretta un’operazione macroniana di abbandono del Pd, con o senza la prospettiva di un collegamento a Berlusconi. Tanto ormai la parte anti-renziana del Pd non ha più nessuna chance di fare operazioni con il M5s né di imbastire un’autentica opposizione di sistema. Di LeU, PaP e brancaccini assortiti continuiamo a tacere per carità di patria.

Tutti gli scenari ancora in bilico sono a pari titolo catastrofici: l’annichilimento dell’opposizione politica, parallelo all’indebolimento (non alla distruzione) di quella sociale, è un pessimo contesto per tutti, uomini e donne, indigeni e migranti. Al massimo possiamo augurarci di prendere tempo, dilazionare la chiusura del cappio per costruire qualche argine ed evitare errori che potrebbero avere in futuro conseguenze nefaste – tipo benedire i veti europei, i ricatti del mercato, dello spread e delle agenzie di rating o irridere alla pochezza del nuovo ceto politico, come se rivalutassimo i Lotti e la Boschi, i Franceschini o i Minniti perché stanno arrivando i ”barbari”. Quelli avevano già varcato i confini con il Jobs Act e SalvItalia, con il fiscal compact e l’inserimento del pareggio di bilancio in Costituzione. Non ce lo scordiamo. Poi che al peggio non c’è mai fine è un altro discorso.