MONDO

Confederalismo democratico: una rivoluzione da difendere. Due giorni di conferenza a Roma

Due giorni di conferenza sul confederalismo democratico a Roma, proprio a ridosso dell’attacco al Rojava da parte del regime di Erdogan. Un’occasione per comprendere la rivoluzione nel nord della Siria sotto diversi aspetti e provare a connetterla con lotte e movimenti da ogni parte del mondo

Proprio (e purtroppo) in concomitanza con l’annuncio dell’operazione “Sorgente di pace”, nel cuore della Garbatella si è svolta la due giorni di conferenza sul confederalismo democratico promossa da Uiki – Ufficio d’Informazione del Kurdistan in Italia. Una coincidenza che rende ancora più importanti e urgenti testimonianze, appelli, riflessioni e racconti da parte di chi – fra attivisti, teorici, giornalisti, avvocati – ha declinato secondo la propria prospettiva (e la propria area d’appartenenza geografica) l’“esperienza Rojava” il 5 e il 6 ottobre presso il teatro Palladium di Roma.

E, visto che si parla dall’Italia e dunque dal contesto europeo, val la pena sottolineare subito uno dei nodi centrali della questione (anch’esso, peraltro, ribadito nei fatti proprio nei giorni a ridosso della conferenza): l’accordo fra Ue e Turchia sui migranti, per cui il governo di Ankara si vede ricevere 6 miliardi di euro affinché “blocchi” le frontiere d’ingresso ai migranti che cercano di entrare sul suolo europeo. Questo per ribadire che la costruzione di una nuova società e di un socialismo nuovo in Rojava non è qualcosa che sta accadendo “da qualche parte nel mondo”, con cui si può magari esprimere solidarietà da lontano. Al contrario, si tratta di una situazione in cui i governi europei sono concretamente implicati e che, ancor più concretamente, mette in gioco la capacità delle nostre società di mobilitarsi in prima persona per cambiare i rapporti di forza che rendono la rivoluzione curda costantemente sotto attacco, non solo da parte delle forze del Califfato (che, in seguito alle operazioni militari di Erdogan, ha rialzato la testa) ma soprattutto da parte delle potenze confinanti (Turchia) o ex-“alleate di comodo” (gli Usa di Trump).

 

 

Infatti, la prima sezione della conferenza (“La nascita del nazionalismo”) prova a discutere di come lo stato-nazione o, più in generale, la concentrazione di sovranità in organismi para-statali e interstatali rischi sempre di reprimere e schiacciare popoli, culture ed esperienze che si sviluppano “ai margini” della cittadinanza comunemente intesa. Le rivendicazioni indigene in sud-America, a cui si associano le battaglie per la difesa dei territori e delle risorse naturali spesso preda delle multinazionali, gli scioperi (seppur sporadici) del contesto asiatico contro le politiche neoliberali, le quali non cessano di dirottare la ricchezza prodotta socialmente verso i privati, le quotidiane (e benefiche) “violazioni” da parte dei migranti della Fortezza Europa, sia dei suoi tangibili muri e delle sue tangibili barriere sia – simbolicamente – di un discorso pubblico che si costruisce sempre più attorno all’esclusione, e ovviamente la lotta del popolo curdo, più volte repressa nel sangue ma che non conosce battute d’arresto, sono appunto espressioni di una tale dinamica. Ciò che sembra suggerire la sperimentazione del Rojava, oltre chiaramente alla solidarietà con chi si trova in rivolta fra i meccanismi dello stato-nazione, è dunque di ripensare la cittadinanza in quanto tale. Non, cioè, come un semplice diritto che possa solo ed esclusivamente essere assegnato dall’alto secondo regole e principi prestabiliti, ma una sorta di “processo aperto e inclusivo”, una chiamata collettiva che implica la condivisione di prospettive politiche e sociali comuni. Il progetto del confederalismo democratico (e, dunque, lo spostamento tattico-teorico dall’idea di una nazione curda) significa proprio questo: riunire i popoli che abitano l’area nord della Siria innanzitutto attorno alla costruzione di una nuova società e non soltanto dentro un’entità territoriale che va difesa a livello politico e militare.

Il che vuol dire – seguendo le suggestioni della conferenza – concepire la cittadinanza come partecipazione (non solo in Rojava), decentralizzare il potere, elaborare istituzioni il più possibile “fluide” e attente alle esigenze di chi di volta in volta vi si appella.

 

 

Per raggiungere tali obiettivi è però vero che la lotta deve dispiegarsi su tutti i fronti, non da ultimo quelli “profondi” della coscienza e delle rappresentazioni simbolico-sociali. Se, come è stato ricordato da più interventi, il neoliberismo capitalista è un processo che innanzitutto attenta alla bio-diversità (dove per bio non si indica solo la complessità delle specie naturali, ma anche e sopratutto l’insieme delle facoltà psichiche e fisiologiche propriamente umane su cui si esercita il controllo dei regimi disciplinari), va allora posta attenzione anche alle costruzioni identitarie, ai poteri e contro-poteri che inseriscono l’individuo in una rete di saperi e pratiche globalizzate.

In questo senso, centrale è la connessione – già evidente di per sé, ma che comunque la conferenza approfondisce su vari versanti – fra jineologia, liberazione della donna in Medio Oriente, movimento femminista italiano ed europeo e, più in generale, fra l’esperienza del Rojava e l’idea del confederalismo democratico con culture e pratiche “altre”. La ricerca di maggiori parità ed equità nei rapporti uomo-donna non è semplicemente un fatto sociale o di “aggiustamento” degli organi istituzionali, ma innanzitutto la de-costruzione di certi schematismi di pensiero, la decolonizzazione di tutta una serie di immaginari inter-personali e, dunque, al tempo stesso politici. Se vogliamo, è un’operazione (quasi letterale) di archeologia del sapere: le donne curde raccontano di come la realizzazione del confederalismo democratico in Rojava sia anche un tentativo di recuperare la tradizione matriarcale sviluppatesi in quell’area geografica fino a un certo punto. Un’opera, cioè, di “scavo teorico” per rinvenire modelli e strumenti dimenticati ma che invece potrebbero tornare molto utili oggi.

Tutto ciò non significa idealizzare un passato o una supposta condizione di armonia che non esistono più. Al contrario, significa provare a leggere la storia in altro modo, per metterne in discussioni le comuni “gerarchie interpretative” e tradurle così in possibilità presenti.

 

 

Proseguendo nei parallelismi, se dunque l’idea di confederalismo democratico e la lotta curda in Rojava ci invitano a pensare la decentralizzazione del potere e la tutela delle diversità come assi principali dell’azione politica, allo stesso modo, ci invitano pure a decentralizzare il nostro sguardo e diversificare l’attenzione. La terza sessione (ma, in generale, un po’ l’intera conferenza) prova infatti a presentare e ripercorrere a volo d’uccello tutte quelle esperienze di lotta che si sono sviluppate lontane dai “palazzi” o dai classici meccanismi rappresentativi.

Dalla più che ventennale mobilitazione dei Senza Terra brasiliani, alla depredazione ambientale che si svolge sul territorio indiano fino allo sfruttamento delle risorse come mezzo di controllo geopolitico nell’est della Turchia, il paradigma che sembra sempre più urgente affrontare è quello dell’estrattivismo. Lo sfruttamento, la nuova ondata di forze politiche nazionaliste e fasciste, il “dominio dell’uomo sull’uomo” in ormai quasi tutti i campi dell’esistente derivano dunque dalla costante ricerca di estrazione di valore e profitto, tanto dalla terra e dalle sue “materie prime” (come magari avviene in Amazzonia) quanto dalla dimensione più intangibile della psiche e delle emozioni (come facciamo sempre più esperienza sulle piattaforme comunicative o nelle dinamiche della gig economy).

Ed è un paradigma (fa notare soprattutto Federica Giardini) da cui non sono immuni neanche i rapporti interni ai movimenti e fra i movimenti. Il rischio, cioè, è quello di replicare l’attitudine estrattivista nel momento in cui si prova a entrare in contatto con esperienze rivoluzionarie, quale può essere appunto quella del Rojava, oppure quando si sviluppano (ed è una tendenza in crescita, per esempio, all’interno dell’accademia) rapporti di scambio e di studio fra ricercatori e contesti di auto-organizzazione politica. La solidarietà e la complicità, vale a dire, non possono ridursi a una mera condivisione di conoscenze e informazioni, ma dovrebbero sempre inserirsi in un processo di “auto-educazione reciproca” in cui i contributi esterni, anche i più teorici e astratti, siano sempre sostegno alle azioni e alla capacità di mobilitazione più concrete dei movimenti.

 

 

D’altronde, il senso più ampio della due giorni di conferenza alla Garbatella è proprio quello di sottolineare come una delle forze più grandi dell’esperienza del Rojava, così come delle esperienze di municipalismo radicale e autogestione dei territori che si sono sviluppate in varie zone del mondo, sta nella loro dimensione internazionalista. La prospettiva del confederalismo democratico guarda a contesti e obiettivi ben precisi, di natura “locale”, ma dentro un orizzonte di trasformazione di dinamiche in tutto e per tutto globali.

Perciò l’internazionalismo del XXI secolo, di cui è parlato lungo la giornata di domenica, dovrà per forza dispiegarsi su una molteplicità di livelli: militanza e solidarietà diretta, critica e denuncia dell’estrattivismo, pressioni sulle istituzioni, battaglie legali a favore dei dissidenti, avvicinamento e scambio reciproco di concezioni e idee. Oggi ancor più di prima, a difesa di una rivoluzione che ci coinvolge tutti da vicino.