SPORT

CoNaSP: Qualità o quantità?

Definire cos’è lo sport popolare, per tracciare un percorso condiviso di rivendicazione e crescita collettiva è il nostro progetto.

Nel marzo del 2014 abbiamo lanciato un appello e ci siamo riuniti presso la palestra popolare Valerio Verbano di Roma al fine di costituire un Coordinamento Nazionale che identificasse, in una visione comune e concreta, il concetto di “sport popolare”; un fenomeno che negli ultimi anni è stato indubbiamente inflazionato tanto all’interno dei movimenti quanto all’esterno e, se non ha alcun senso competere per far prevalere la propria visione su quella di altri, è tuttavia necessario cercare di costruire la propria per discuterla e renderla funzionale per quello che vogliamo sviluppare e proporre.

Abbiamo per questo lanciato l’idea della costituzione di uno strumento comune (CoNaSP – Coordinamento Nazionale Sport Popolare) che per la prima volta mettesse ufficialmente in relazione le varie realtà sparse in Italia interessate a questa idea al fine di ottenere, dal confronto e la condivisione di esperienze, una crescita collettiva. Un esperimento nuovo basato su minimi comuni denominatori utili a fare chiarezza sin dall’inizio su obiettivi, mezzi e metodi da sviluppare per superare i vari tentativi fallimentari che hanno provato a riunire il fenomeno “palestre popolari” senza precisi presupposti. Il punto di partenza è stato quindi definire la metrica attraverso cui riconoscere una realtà “popolare” integrabile nel progetto e di conseguenza come potenziale promotrice dello sport che vorremmo perchè aderente ai principi dell’ organismo che si andava costruendo.

Per questo motivo, dal confronto delle realtà presenti nella prima riunione, è nato un dibattito acceso dal quale sono nati dei gruppi di lavoro con il compito di tracciare nel tempo una linea collettiva definita.

Individuare il terreno comune da coltivare.

Il primo passo necessario è individuare e definire collettivamente cosa si intende per “sport popolare” e sin da principio è apparso chiaro che questo termine significa prima di tutto accessibilità e abbattimento di ogni barriera economica, sessista e razziale; ma c’è di più: il termine “popolare” vuol dire letteralmente “abitata dal popolo” inteso come comunità di individui che anche attraverso lo sport può dimostrare di sapersi contrapporre all’individualismo e alla solitudine imposti da questo sistema.

Inoltre non è secondaria l’opera di recupero e riqualificazione di tantissimi spazi sottratti all’abbandono e alla speculazione edilizia per diventare palestre popolari che hanno costruito in molti quartieri e borgate ambienti sani dove condividere la pratica sportiva, il benessere e la socialità oltre che a garantire la partecipazione allo sport agonistico.

Nella nostra analisi abbiamo però bisogno di chiarire alcuni passaggi: la militanza appartiene alla vita di ognuno di noi e vive in tutti gli spazi che attraversiamo quindi le polemiche intorno alla definizioni di spazi più o meno a matrice militante venduti come elemento di purezza lì troviamo francamente ridicoli. La situazione attuale di movimento ci consegna una larga frammentazione e non vogliamo che questo terreno di sperimentazione con tutti i suoi presupposti finisca presto nell’ ennesimo ginepraio inutile.

Probabilmente perseverare su queste modalità risulterà facile per quelle realtà sportive o pseudo-sportive che svolgono una funzione esclusivamente rivolta alla classica collettivizzazione di una esigenza (fare la nostra palestrina per allenarsi…) coadiuvata da una comunicazione propagandistica di nicchia che però nei fatti tradisce la sua vocazione “popolare” rivolgendosi esclusivamente ad un tessuto militante.

Abbiamo l’ambizione di costruire spazi aperti ai territori capaci di confrontarsi anche con lo sport ufficiale, e di fatto riconosciuto dalle stesse masse, concependolo come un campo di battaglia dove rivendicare l’abbattimento di ogni barriera economica e sociale. E’ indubbiamente il modo più diretto e concreto per tenere lontano da esso idee malsane. Il difficile lavoro di mettere in comunicazione e quindi di connettere le persone, provenienti da esperienze e realtà a volte molto diverse, è sicuramente un’ attività che crea molte contraddizioni ma è un esperimento più utile e fruttuoso dell’esercizio continuo alla differenziazione e alla divisione. Quindi, senza troppe auto-definizioni o slogan, lavoriamo con naturalezza affinchè nei nostri ambienti crescano gli anticorpi ad idee e personalismi che alimentano l’intolleranza e il macismo.

Rivendicare professionalità e auto-reddito può significare lotta di classe

Ci rivendichiamo una “professionalità” che non si vende al mercato dello sport ma fondata su una metrica di valori e un profondo senso di appartenenza; la possibilità di garantire anche formazione ed auto-reddito per alcuni ci sembra molto più realistico umano e politicizzato rispetto alla velleitaria idea per cui tutto quello che non viene fatto per volontariato e militanza è da iscrivere nel mercato e nel bieco business.

La linea di demarcazione tra speculazione e pratiche di auto-reddito è visibile in decine di esperienze sparse per il territorio nazionale.

Confondere le carte è spesso frutto di pulsioni adolescenziali oppure di agiate condizioni che certi “promotori puristi” tendono a nascondere, o peggio, di intrecci che portano alcuni soggetti a lavorare da una parte nel mercato che alimenta questo sistema per poi compensare con il volontariato “ideologizzato”. Ambiguità spesso stranamente ritenuta più “normale” di quella di chi sceglie di utilizzare in maniera funzionale il proprio sapere dentro i risultati diretti delle proprie lotte investendo e ( sempre ) rischiando la propria intera esistenza . Perché chi non vanta condizione agiata in questo mondo deve pur vivere e sa bene che o è costretto a sezionare e distribuire il tempo libero con il contagocce o a rinunciare. Ma questo è anche lo specchio di un movimento che spesso si ferma ai tabù e alle liturgie riuscendo raramente a curare quelle che possiamo definire esigenze di classe.

Qualità, sicurezza e responsabilità politica di ciò che proponiamo. Noi accettiamo la sfida!

Abbiamo capito dall’inizio che alcune visioni del modello di sport non potevano trovare campi di condivisione con alcune realtà perché totalmente fuori piano per noi nella causa sportiva.

Una questione spinosa, ampiamente dibattuta e discussa sin dalla prima riunione, riguardava le discipline da combattimento che possono definirsi pericolose da gestire dentro l’ auto-gestione. Questo non tanto nella pratica semplice, per forma ludica ed aggregativa possibile anche con un banale ente di promozione, ma piuttosto nelle situazioni nelle quali (in barba al “rifiuto della logica competitiva” tanto sbandierato da alcuni) si vuole organizzare “serate e spettacoli con combattimenti”, nei quali essendo prevista opposizione libera (scambio di colpi) si hanno precise responsabilità come promotori ed organizzatori.

In special modo ciò è sottolineato e contestato nella boxe nella quale, a differenza di altre discipline a causa dell’ordinamento sportivo in vigore in Italia che non condividiamo perché permette l’esistenza di una sola federazione egemone, la pratica agonistica è vincolata all’affiliazione presso la stessa per non essere definita “clandestina”.

Problema che risulta etico ma anche terribilmente pratico perché, anche volendo credere che una pratica settaria e autoreferenziale ridotta a “circolo privato”e fatta senza alcun riferimento sportivo ufficiale possa essere funzionale alla promozione di uno sport che abbiamo noi definito “popolare”, ci rimangono grossi interrogativi sulla sicurezza e soprattutto sull’eventuale riscontro implosivo del verificarsi di fatti gravi o drammatici che negli sport di contatto vanno sempre preventivati e considerati seriamente.

Situazioni improvvisate e non tutelate infatti possono finire in pasto alle fantasie dei media oltreché a sottoporre a responsabilità morali e politiche gli organizzatori e i promotori.

Per questo motivo da subito abbiamo preso una posizione chiara e coerente sul tema. Il CoNaSP concepisce due livelli di adesione: il primo, semplice di forma ludica ed aggregativa da attuare secondo esigenza e coscienza dell’organismo aderente; il secondo invece volto alla competizione che è impossibile e nocivo da auto-organizzare (magari in manifestazioni “fai da te” ) che oltre a sminuire il valore profondo dello sport (venendo denominate “birra e cazzotti”o simili) si riducono a circoli chiusi e favoriscono le situazioni implosive dette.

Il CoNaSP nasce come strumento per sviluppare lo sport, la sua cultura e la sua pratica con dinamiche coscienti radicandosi nei quartieri e nelle città per rivolgersi al popolo, quindi non ai soli militanti. Per questo non si pone né limiti e né confini non temendo il confronto con quello sport ritenuto ufficiale.

Sul CoNaSP: di tutto di più!

A seguito di queste nostre posizioni, dovute ad analisi dibattute e ampiamente illustrate con tutti coloro che risposero al primo appello in quel marzo del 2014, non siamo stati a guardare ed abbiamo costruito un collettivo che si riunisce ciclicamente ed organizza varie iniziative sul filo di quanto deciso. Il calendario di quanto fatto in questi mesi parla per noi.

Come sempre avviene, il decidere e il prendere posizione insieme al fare si sottopone alle critiche di chi osserva e soprattutto di coloro che per incompatibilità o volontà sono rimasti fuori dal dibattito con motivazioni più o meno razionali e più o meno degne di ascolto. Non ci siamo mai illusi di poter mettere d’accordo tutti e non ci siamo mai sottratti al confronto.

Di sicuro è evidente che le nostre scelte non hanno mai guardato, nella maniera più assoluta, alle adesioni a tappeto o ai numeri e quindi neanche alla spicciola competizione con chi la pensa diversamente, ma semmai allo sviluppo qualitativo e non quantitativo del nostro percorso.

Certe prese di posizione nette hanno indubbiamente fatto discutere ed è nato un acceso dibattito a distanza con chi evidentemente ha altre idee su come sviluppare lo “sport popolare”, ma pur facendolo comunque nella propria autonomia ha contribuito a creare molta confusione su chi siamo e cosa intendiamo fare.

Sul CONaSP e sulle sue scelte, sui metodi, sulle linee ed anche su chi lo promuove si è detto di tutto e di più.

La nascita del CoNaSP è stata uno spartiacque nel fenomeno e nel movimento in generale dopo i numerosi tentativi di riunire lo “sport popolare” senza dei precisi presupposti e forse per questo senza risultati.

Sono spesso stati criticati i nostri concetti di “professionalità” e “qualità” insieme al nostro rifiuto di concepire l’organizzazione di eventi al di fuori dello sport ufficiale facendo appello al “purismo” di rimanere fuori dalle federazioni e alla non professionalizzazione delle palestre popolari.

Scelte legittime se non venissero giustificate e condite da contraddizioni adite a delegittimare quelle che abbiamo affrontato ed argomentato più volte e nei giusti tempi.

Come organismo non cerchiamo nessuna gara e tantomeno nessuna egemonia da ottenere attraverso la delazione, ma semplicemente rivendichiamo la strada che abbiamo intrapreso perché la riteniamo coerente e funzionale al nostro ragionamento politico e sportivo. Ma visto che spesso siamo stati chiamati in causa su alcuni temi, ricevendo alcune critiche, vogliamo chiarire alcuni punti.

Sulla sicurezza e la responsabilità politica nei combattimenti auto-organizzati

Inizialmente alcune nostre analisi sulla sicurezza furono sminuite, forse per reazione, da chi ha intrapreso scelte diverse vedendo poi però comparire in alcune serate auto-organizzate dei velleitari annunci di “visite pre-gara” richieste e presenze di squadre di “primo soccorso”.

La beffa, alla quale non siamo sottoposti tanto noi quanto i praticanti ammaliati da queste diciture errate, è che forse non tutti sanno che ciò che contraddistingue una banale visita sportiva con ECG (elettrocardiogramma sotto sforzo) da quella che riguarda uno sport a pieno contatto è l’inclusione di accertamenti neurologici come EEG (elettroencefalogramma) e RMN (risonanza magnetica encefalo), visite oculistiche specifiche (con fondo oculare) e audio-metriche che solo centri appositi per agonismo affini al combattimento possono effettuare e rilasciare previo richiesta di una società; il “ primo soccorso” necessario per organizzare una riunione agonistica vera prevede sempre un medico a bordo ring ed un ambulanza con dottore a bordo ed attrezzata per la rianimazione ed entro una distanza prestabilita dal primo centro neurologico.

Elementi che non sono necessari per tutelare solo grandi campioni impegnati in scontri epici oppure dagli agonisti feroci secondo alcuni accecati dalla “furia assassina” da cui certe scelte di auto-gestione degli eventi si vuol far credere “salvaguardano” quanto più i neofiti che, con meno capacità difensive e preparazione, non hanno grande esperienza e per di più (senza magari neanche mai aver fatto le analisi dette dedicate) potrebbero presentare delle controindicazioni alla pratica agonistica che nessuno può conoscere.

Perché i colpi sono traumi e quando arrivano non si domandano in quale contesto lo fanno (sport o auto-organizzazione), arrivano e basta; chiunque ha un minimo di conoscenza del combattimento sa bene che basta una serie di coincidenze per creare un atterramento (Knock down o Knock out) che ricordiamo avviene anche laddove non è cercato, richiesto e addirittura consentito come in discipline light e dimostrative di varie arti marziali.

A controllare questo difficile contesto ricordiamo che dovrebbe (tutto è condizionale) esserci un arbitro ufficiale che anche quando è tale è comunque sottoposto ai normali limiti personali; figuriamoci un arbitro improvvisato che non ha neppure fatto un corso preposto.

Spesso ci siamo sentiti dire che “un’affiliazione non garantisce nulla di per se, se non una copertura burocratica legale” oppure che “affiliarsi comporta una struttura ed una competenza che non è facile da avere per una detta realtà”; entrambe queste opposizioni rivelano la contraddizione di voler scegliere di traghettare dei soggetti in esperienze non semplici da gestire senza nemmeno potergli garantire quello che invece una normale palestra garantisce.

Per questo motivo riteniamo la responsabilità politica alla base della scelta del livello che una realtà popolare intraprende per se e di conseguenza per i propri atleti.

Sulla questione della qualità e dell’agonismo

In questi mesi di lavoro il progetto CoNaSP ha avuto una crescita lineare e coerente di cui siamo soddisfatti in quanto ha dato vita a molteplici iniziative e tutte molto partecipate. Ma rileviamo anche una curiosità controversa e critica, spesso frutto di fantasie ed analisi spicciole.

E’ sembrato, ad esempio, che quando rivendichiamo una professionalità ed una competenza (la famosa qualità dello “sport popolare” che proponiamo) nelle strutture e nelle persone facciamo promozione alle federazioni o, addirittura, al Coni. Come se dicessimo che gli operai della Fiat foraggiano il capitalismo perché scelgono di lavorare per la famiglia Agnelli e pagando le trattenute al governo sono pure finanziatori renziani.

Al di là delle dicerie e delle scuse accampate forse per far quadrare le proprie scelte, in generale il discorso secondo noi rientra indubbiamente negli obiettivi che le singole realtà coinvolte intendono darsi e verso quale dimensione e aspirazione tendono nella loro città e nel loro quartiere. Se intendono dimostrare di poter sfidare e potersi sostituire allo sport mercato o se vogliono limitarsi alla socialità per scelta o capacità. I due “livelli”, criticati da alcuni come fossero classismo, servono ad avere un approccio onesto alle proprie possibilità prima di tutto verso i propri frequentatori e verso il popolo al quale ci rivolgiamo.

Perché laddove si sceglie di partecipare allo sport questo è un mezzo e non il fine; un mezzo per dimostrare che una realtà popolare è in grado di fornire una competenza capace di mettere in contraddizione un sistema in cui prevale solo la logica del mercato.

L’aggregazione e la forma ludica non necessitano di particolari accorgimenti ed ognuno fa bene a scegliere quelli che preferisce (anche se i minimi presupposti richiesti da un semplice ente di promozione per queste attività non sono vincolanti e possono aiutare a valorizzare e tutelare l’ambiente).

Tuttavia sembra che a molti ciò non basta. Necessitano di replicare la ”competizione dal basso” a tutti i costi per poi definire in maniera settaria le legittime posizioni e ambizioni come qualcosa di insano illudendosi così di essere salvi da limiti e contraddizioni.

A nostro avviso la fuorviante idea di “rimanere puri” in quanto al di fuori delle discusse e discutibili federazioni è solo una pantomima oltreché una limitazione delle nostri potenzialità presenti e future; perché laddove c’è questa volontà di andare oltre all’aggregazione e un’inclinazione all’agonismo questo non deve essere demonizzato e visto come un elemento negativo ma semmai di positivo da portare avanti con gli stessi valori per creare contraddizioni in una società che invece vorrebbe “sterilizzare” ogni ambiente, anche quello sportivo, dalla coscienza critica.

Spesso abbiamo anche rilevato la beffa di come alcune realtà che si dicono “antitetiche” per scelta agli ambienti sportivi ufficiali siano poi animate e realizzate da chi ha avuto, o ha in parallelo, esperienze nelle stesse federazioni e in società sportive ufficiali.

Una sorta di vita “parallela” che alla fine mette in discussione anche la legittimità della rivendicazione di rinuncia di compromessi oltre alla palese negazione del diritto di ogni praticante avvicinato di fare diversamente. Per non parlare poi dell’ambigua inclinazione di chi pratica o ha praticato realmente il combattimento e si cimenta in situazioni popolate da neofiti improvvisati.

Montare su un ring ed opporsi ad un avversario è sempre e comunque una sfida, quindi agonismo. Lo spirito con il quale si intraprende questo cammino non è dato dal “dove” o dalle scelte di auto-gestione di chi organizza, ma dal “come” che è frutto dei valori e della cultura dell’ambiente dal quale si proviene.

Con il CoNaSP abbiamo quindi segnato un punto di svolta sul tema fungendo da spartiacque e facendo una cosa nella quale in Italia siamo poco avvezzi: abbiamo preso una linea coerente ed una posizione chiara per rivendicare il diritto allo sport.

A nostro avviso infatti tutte queste realtà descritte non possono definirsi “differenti punti di vista” sul tema, ma semmai palesi contraddizioni in seno alla logica che compone il termine “sport popolare”. In quanto per essere sport deve essere tale e per essere popolare altrettanto.

Noi abbiamo fissato dei paletti e lo abbiamo fatto senza curarci di quanto questa posizione potesse essere “vendibile” in una società nella quale meno si cerca di far quadrare le proprie idee e le proprie scelte e più adesioni si ottengono.

Un percorso indubbiamente difficile da intraprendere e da scegliere per se ed i propri praticanti, perché nello sport sin da principio si impara che “o si fa la qualità o si fa la quantità”. Ed essere inclini alla seconda senza passare obbligatoriamente dalla prima è per noi un errore: quindi non ci vogliamo curare troppo di adesioni e chiacchiere.

Un concetto che non vuole guadare ai semplici risultati sportivi, come qualcuno vorrebbe far credere, alla necessità di inseguire la creazione di “campioni”, ma alla risposta che intendiamo dare al popolo stesso verso il quale ci affacciamo. Questa è per noi la qualità, un fatto prima di tutto culturale. Se poi nelle realtà popolari oltre ad aggregare persone si creano campioni tanto meglio per quello che rivendichiamo e per il modello di sport che vogliamo promuovere. Del resto spesso in certi ambienti si prende per modello una realtà come quella pugilistica cubana che dimostra nello sport reale e nelle competizioni contro i modelli capitalisti il suo valore.

La parentesi della contraddizione nella contraddizione: il modello cubano

Una parentesi doverosa sulla velleitaria inquadratura della specifica realtà cubana, tema discusso con un confronto pubblico nella presentazione del libro “pugni e socialismo” e del documentario “gancio swing” avvenuta nella tre giorni CoNaSP tra Palermo e Trapani (visto che come detto non ci sottraiamo al dibattito).

Abbiamo infatti rilevato l’abbaglio di voler inquadrare forzatamente il modello cubano in un’ottica affine al rifiuto dell’agonismo, dell’utilizzo di concetti “sani ed esclusivi” a quella realtà come “il rispetto dell’avversario”, “il valore della squadra”, ed infine sentito parlare del rifiuto del professionismo come scelta etica per la sicurezza degli atleti.

Nello stesso documentario e libro si presentava il modello cubano strutturato con la sua “piramide dell’eccellenza” termine che in se devasta ogni approccio che non sia altamente competitivo; la sola definizione lo indica. Semmai nella struttura cubana spicca il principio socialista, per altro più trascurato, di dare a tutti una possibilità di sport di qualità e non affidarlo al mercato come avviene in molti altri paesi.

Il “rispetto dell’avversario” ed il “valore della squadra” invece non sono figli della scelta di agonismo o meno e nemmeno una peculiarità di Cuba, ma semplicemente dei valori che un ambiente sportivo sposa durante la sua costruzione. Si può dire che un sistema che poggia su idee sensibili a livello sociale e rifiuta metriche di mercato indubbiamente facilita questo approccio, ma non si può affermare per onestà intellettuale che ciò non possa avvenire anche in una normale società dove chi insegna a prescindere dalle idee si mostra sensibile a questi temi per sua cultura e formazione.

In merito invece alla ricerca della tutela e della sicurezza dei pugili questa è assai dubbia da dimostrare col rimarcare la scelta di effettuare il solo dilettantismo e vietare il professionismo visto che adesso gli Elite (categoria di punta del neo-dilettantismo) a Cuba fanno almeno tre o quattrocento incontri in carriera senza casco e senza guanti anti-shock per volere dell’AIBA ( ente che regola le competizioni dilettantistiche ed è ancora più egemone del Coni avendo privatizzato le olimpiadi ed imposto al CIO cambiamenti globali).

Inoltre ricordiamo che quando questo ente ha scelto di formare squadre APB e WSB, ovvero chiavi professionistiche finite addirittura dentro le olimpiadi, anche Cuba, che per anni si è fatta sfuggire pugili stufi del dilettantismo che finivano a Miami nelle mani degli USA per inseguire il sogno del professionismo, ha formato i “Domadores” (squadra professionistica delle WSB) piegandosi e rimangiandosi anni di posizione in un attimo.

Cuba ha fallito qui semplicemente perché ci poteva arrivare prima visto che questa era una posizione che aveva un senso, forse, ai tempi della contrapposizione tra USA, URSS e DDR, ma che negli ultimi anni con lo sgretolamento dei paesi detti aveva poco significato.

Le ambizioni di un atleta poi, dato che il professionismo nella boxe non è solo variazione economica ma anche evoluzione sportiva di un percorso, non possono essere tarpate e nel caso possono essere anche funzionali al paese di origine.

L’esempio di Ugo Chavez, che aveva glorificato e promosso un pugile socialista come Edwin Valero (purtroppo scomparso prematuramente, ma divenuto giovane campione del mondo con un record ineguagliabile di 27 incontri vinti con altrettanti Ko, e che non poteva tuttavia combattere negli USA per la poca simpatia) aveva creato più contraddizioni e problemi al potere sportivo/economico statunitense che non le scelte cubane. Cuba, purtroppo, cade in contraddizione ad ogni fuga di un atleta valido generato dal proprio sistema ma assorbito dal sistema capitalista ( come appunto il pugile in copertina del detto libro Guglielmo Rigondoux che proprio per questo motivo è finito nelle mani del sistema statunitense per combattere e conquistare un mondiale da professionista nella “libertà” a stelle e strisce).

Paradossalmente il “modello cubano” viene preso come spunto solo per far quadrare forzatamente alcuni aspetti che non collimano più mostrando evidenti falle, né tantomeno possono cucirsi su realtà che vivono una condizione completamente diversa come quelle della boxe auto-organizzata (il termine clandestino in questo contesto non ci piace a prescindere).

Concludendo.

La strada intrapresa dal CoNaSP è indubbiamente una scelta di responsabilità collettiva, di creazione di un percorso di crescita comune che non si vuole “vendere” a nessuno e non insegue numeri e adesioni. Le linee sono frutto di analisi e discussioni aperte in continua evoluzione, ma all’interno della coerenza di quanto individuato come principio per definire “sport popolare”.

Un organismo che non si sottrae al confronto all’interno e con l’esterno e non si cura di dover replicare a dinamiche che non appartengono al dibattito, ma al gossip.

In mesi di lavoro, che definiamo orgogliosamente “di qualità”, abbiamo prodotto competenza attraverso seminari di teoria e pratica sportiva, sulla metodologia dell’allenamento, sulla gestione delle ASD, sull’alimentazione e la formazione in generale. E li abbiamo resi momenti accessibili e non mero business.

Ci siamo confrontati con lo sport a 360 gradi mostrando cosa può produrre una realtà sportiva coscientemente refrattaria al mercato e ci siamo confrontati sempre apertamente con chi vede lo sport popolare in altra maniera.

Inoltre una volta trattata apertamente, esaustivamente e definitivamente la questione delle competizioni nei “combattimenti” in questo documento, vogliamo voltare pagina: ricordiamo che CoNaSP è anche molto altro (dal Calcio Popolare alla Ginnastica Artistica) e che sono stati organizzati molteplici momenti di formazione come seminari di pesistica olimpica ed altri sono in progetto sulle metodologie di allenamento fisico e tattico nel calcio e negli sport di squadra. Questo perché guardiamo allo sport in generale.

Non abbiamo contato e non contiamo adesioni, tantomeno aderenti. Proseguiamo nel nostro percorso senza alcuna competizione sicuri che, come insegna lo sport, laddove si insegue la quantità difficilmente si fa la qualità.

Avanti con lo sport popolare di qualità! Co.Na.Sp Comitato Nazionale Sport Popolare