editoriale

ComproOro vs bioveganerie: cronache di un suicidio assistito

Di fronte alle repentine trasformazioni che riguardano i centri urbani, si reagisce solitamente ricorrendo ad un atteggiamento nostalgico. Tuttavia, dietro lo svuotamento del centro e la sua gentrificazione occorre vedere il mutamento della composizione sociale e l’azione di precise scelte politiche: solo a queste condizioni sarà possibile pensare nuove alleanze sociali e un nuovo modo di abitare la città

In questi giorni, nel centro di Torino, si sono registrate alcune piccole scosse. Ha ufficializzato la propria chiusura il noto circolo arci Amantes di via Principe Amedeo, si è sparsa la voce dello sfratto alla storica libreria Comunardi di via Bogino, ha chiuso in fretta e furia la celebre birreria Roar Roads di via Carlo Alberto e si parla della prossima cessazione per il noto negozio di abbigliamento Olympic di Piazza San Carlo. Queste attività, molto diverse tra loro, si trovano però nello spazio di poche vie limitrofe e segnalano un momento di passaggio in una lunga stagione di mutamento commerciale. Questo mutamento è da un lato segnato dalla chiusura di marchi storici della Torino bene, che avevano perso clientela e contestualmente non avevano saputo o voluto riconvertirsi in qualcos’altro (in questo senso, per alcune di queste attività si può tranquillamente parlare di mortalità naturale). Si pensi alle gastronomie storiche, ad esempio: troppo costose per i nuovi abitanti e con clienti anziani e facoltosi in diminuzione naturale. Dall’altro lato, però, diversi negozi hanno subito anche una pressione immobiliare da parte di attività concorrenti che hanno, in questo momento, più mercato. è il caso del settore della ristorazione cool. Per chi conosce Torino, basta guardare via Maria Vittoria e via Principe Amedeo nel quadrilatero compreso tra via San Massimo e via delle Rosine per riconoscere la nascita di un distretto alimentare giovanile e alla moda. Riassumendo, tanti fenomeni spingono sotto la crosta commerciale del centro storico torinese, ma questo discorso vale anche per la maggior parte delle città italiane: cambiano gli abitanti, i nuovi arrivati hanno abitudini di consumo diverse dai precedenti e in questo scenario un ruolo fondamentale lo giocano i proprietari degli spazi commerciali con le relative logiche di estrazione di valore. Non è raro, ad esempio, vedere spazi tenuti selettivamente vuoti e in attesa di nuovi locatari disposti a pagare un fitto maggiore.
Una reazione tipica a questi cambiamenti che osserviamo, e di cui siamo pure partecipi, è di tipo nostalgico: si perdono pezzi di memoria urbana, spazi che ospitavano ricordi, e si realizza che tutto questo non tornerà più: che sia la nostra giovinezza, il primo vinile comprato da Maschio o quella serata in cui ballammo con i New Order ai Murazzi. Non è giusta o sbagliata, ma è una reazione che si limita a rimpiangere un passato dai contorni incerti anche se ricordati come positivi. E’ un ricordo molto selettivo, perché non va oltre la sensazione soggettiva di perdita, e dimentica quanto fosse escludente, ad esempio, Piazza San Carlo con i suoi negozi per bene, oppure come ai Murazzi dei bei tempi andati si potesse morire annegati con la gente intorno ad osservare la scena. Il passato non è necessariamente tutto buono e bello, insomma, anche quando è stato il nostro di passato e ne siamo legati affettivamente.
Una seconda reazione è invece più politica e ha a che fare con la gestione di questo mutamento, mutamento che avviene in una fase di evidente declino della città e anche del suo centro storico. Qui si va dalle accuse contro pedonalizzazioni e nuove restrizioni alla circolazione delle auto, all’amara consapevolezza che aver tolto al centro una funzione anche produttiva, ad esempio nel settore della pubblica amministrazione o dei servizi finanziari, ha significato togliere fiato a quelle attività commerciali di servizio ai relativi lavoratori, attività che garantivano però anche una vita di quartiere diurna. Questo è il tipico discorso à la Jane Jacobs: il quartiere vive anche grazie agli ‘occhi sulla strada’, cioè a quel controllo sociale informale che una fitta rete commerciale garantisce. Morti i negozi, muore anche il controllo sociale e si diffonde l’insicurezza (percepita o reale che sia). Anche qui la reazione è selettiva, perché se è vero che si poteva evitare di costruire un inutile grattacielo per accentrare funzioni pubbliche, grattacielo che al momento ha prodotto una voragine di spesa pubblica difficilmente accettabile, è altrettanto vero che la chiusura di moltissime attività bancarie di sportello (e non solo) segue delle politiche pubblico-private di espansione di quel settore non esattamente lungimiranti, fatte nel passato ma i cui effetti si vedono ora. Un discorso simile potrebbe riguardare le cartolarizzazioni degli edifici pubblici del centro: che siano una sciagura, non abbiamo difficoltà a dirlo. Che le amministrazioni avessero molte altre scelte tra cui optare, è però difficile da sostenere, dato che sono schiacciate dal debito pubblico da un lato e dai vincoli di bilancio loro imposti dallo Stato dall’altro. Insomma, il centro storico subisce un’emorragia di lavoro e non si vede all’orizzonte un rovesciamento di questa tendenza.
Tornando però alle reazioni e ai dibattiti locali, quello che non si vede proprio, invece, è un dibattito sugli abitanti e sulla funzione che il centro storico dovrebbe avere. Vetrina per i turisti? Luogo di rappresentanza monumentale? Luogo di consumo? Di produzione? Per tutti? Per alcuni? E così via. Storicamente, nelle città italiane, tutti i centri storici hanno vissuto la medesima dinamica nel corso del Novecento. Hanno ospitato moltissimi abitanti nei due dopoguerra, spesso in condizioni abitative fatiscenti e degradate, per poi andare verso spirali di riqualificazione che, a seconda delle città e di quando sono avvenute, hanno più o meno alterato la composizione sociale dei residenti. Ovunque, per essere chiari, il peso delle classi popolari nel mix di abitanti è calato. Ovunque, è cresciuto quello delle classi medie e superiori. Questo fenomeno, nella letteratura scientifica, è noto anche come gentrification.
Per intenderci, e rimanere a Torino, nel 1951 abitavano in centro circa 110mila abitanti, che si sono stabilizzati attorno alle 40mila presenze dagli anni Novanta in poi. In altre città, Roma e Venezia tra tutte, è andata pure peggio.
Quando la gentrification italiana è comparsa sulla scena, tra gli anni Settanta e Novanta, ha significato per moltissimi abitanti anche un miglioramento delle condizioni abitative relative. Avendo infatti lasciato centri storici con ancora i segni della guerra e della ricostruzione, sono andati a vivere in aree e case relativamente migliori di quelle che lasciavano. Se ci fermiamo a questa considerazione, il processo può anche essere giudicato positivamente. La ruota però non si ferma con questa fuoriuscita delle classi popolari dai centri, perché proprio la loro scomparsa ha coinciso, guarda caso, con la rinascita di quei centri, che hanno perciò beneficiato grandemente delle politiche di riqualificazione, diventando più belli e più ricchi (e senza più il rischio di incontrare dei poveri). Se lo si giudica dal punto di vista di chi è rimasto nel centro, questo è stato certamente un successo: valori immobiliari in crescita in un contesto urbano riportato agli antichi splendori (o all’immaginario fantastico che spesso avvolge il passato: tanto nessuno di noi c’era e si può ricordare com’era veramente questo passato). Se però lo si guarda dalla prospettiva di chi ha lasciato il centro storico, beh, se in un primo tempo si è goduto del miglioramento relativo delle condizioni abitative, nel medio periodo si è capito l’inghippo: quartieri semi-centrali o periferici abitati da tutti quelli che non si possono permettere più il centro e le sue meraviglie, valori immobiliari dimezzati e contesto urbano in rapido deterioramento. Se aggiungete a questo quadro l’etnicizzazione selettiva di quegli stessi quartieri non-centrali, capite anche bene il perché della polarizzazione elettorale tra questi e il centro. Mentre i centri celebravano la loro rinascita, sui territori esterni si scaricavano tutte le vulnerabilità e le tensioni sociali. Un vero capolavoro di ingegneria politica e spaziale, insomma.
Ora, il mutamento commerciale che osserviamo adesso è fuori sincrono rispetto a quello residenziale che abbiamo appena descritto: avviene a 20-30 anni di distanza da quest’ultimo. E tendiamo dunque a non metterle in relazione le due dinamiche, a non pensare che il progressivo svuotamento dei centri storici italiani di centinaia di migliaia di abitanti (milioni, se sommiamo tra città italiane) abbia anche tolto linfa a quei centri. Per una generazione il sistema ha retto, ma ora è chiaro che i pochi abitanti che ancora rimangono nei centri storici non tengono più in piedi le attività commerciali. Sono infatti abitanti benestanti, ma relativamente più anziani, e sono soprattutto pochi.
Chi sostiene allora l’offerta commerciale attuale? Studenti, turisti, e giovani in generale, sono i nuovi utilizzatori del centro storico, attratti dall’offerta culturale, dai servizi commerciali e dalla bellezza dei luoghi. Se questo pubblico indirizza il tipo di attività commerciale, qualcuno però la produce dietro le quinte, ma chi? La proprietà fondiaria commerciale, nella sua alleanza con i proprietari immobiliari. Sono questi due attori che producono il nuovo centro storico: i primi alzando i fitti o tenendoli artificiosamente alti impediscono che altri attori commerciali tornino in centro, così facendo selezionano le grandi marche internazionali o gli attori nei settori più redditizi (cibo, sostanzialmente), mentre i secondi, affittando a breve termine con le piattaforme come Airbnb, o tenendo vuoti i propri alloggi, anziché affittarli a popolazioni residenti meno abbienti, selezionano gli abitanti. Si tratta dunque di una doppia selezione.
Se questo è lo scenario, possiamo chiedere molto alle nostre amministrazioni, così come ai nostri concittadini proprietari.
Possiamo chiedere che venga regolamentato il settore delle locazioni, sia delle case che dei negozi, ad esempio. Tenerli selettivamente vuoti è una scelta che uccide la vita urbana. Selezionare abitanti e commercianti è una manovra classista ben precisa, e sarebbe il caso che le amministrazioni dicessero che cosa pensano a riguardano, se la supportano o la contrastano. Si può beninteso fare come il sindaco di Firenze, Nardella, che ha improvvidamente dichiarato di non poter regolamentare il settore delle locazioni a breve termine perché è proprietà privata e dunque intoccabile, ma questa neutralità ha tutto il sapore di una scelta ben precisa.
Ma oltre a chiedere ai nostri amministratori di pensare al futuro e non allo stretto presente, dobbiamo ripensare le piccole contese di bottega, è proprio il caso di dirlo: commercianti e abitanti si devono sostenere a vicenda. In questo momento la città di Torino, come la maggior parte delle città italiane, è divisa in due: ha un centro dove si possono gustare piatti liguri, baschi e giapponesi, e a farlo sono principalmente abitanti che vengono da fuori; basta fare dieci minuti a piedi fuori dal centro e le bioveganerie a km0 crollano, sostituite da distese di kebab e ComproOro. Hic sunt leones e sarà difficile incontrare turisti o hipster, se non qualche volonteroso storyteller alla ricerca di emozioni forti.
Il centro però ha eretto una fortezza che sta crollando sotto i colpi della crisi e delle sue stesse fondamenta di carta, ci sono intere vie con serrande abbassate e silenzi assordanti. Non deve essere la nostalgia a caratterizzare il nostro sguardo, perché guarda al passato. Sarebbe invece il caso di adoperarsi in prospettiva futura, per ripopolare di vita diurna la città. Inutile dirlo, ma non saranno delle nuove Olimpiadi a farlo. Occorrono politiche consapevoli e in controtendenza. Occorrono nuove alleanze tra ceti che non si sono parlati sino a qui.