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CULT

Chronosis. Tempo e Worldmaking

Graphic novel firmata da K. Tilford, R. Negarestani e R. Mackay, “Chronosis” si presenta come un’operazione a metà strada tra il worldmaking tipico del medium e la speculazione filosofica. A unire le due forme di pensiero sta il problema del tempo, e la figurazione di multiversi in cui il tempo si insinua, rinnovandosi in modi sempre diversi

Nel suo ormai classico Ways of Worldmaking, il filosofo americano Nelson Goodman afferma che non esiste mondo che non sia costruito. Lungi dal ridursi a una datità stabile e autoconsistente, quel che chiamiamo “mondo” sarebbe in realtà il risultato di processi di periodicità e prossimità, ripetizioni e identificazioni in cui il tutto viene continuamente diviso in parti e le parti sono coordinate tra loro a formare innumerevoli complessi e connessioni. Il senso che traiamo dalla permanenza nel nostro mondo e che informa il nostro modo di agire e di pensare in esso è il prodotto di versioni modificabili e pertanto revisionabili, al riparo dalla morsa costrittiva dell’assoluto. Se, da un lato, una simile condizione ci libera dalle catene di una trascendenza angusta e oppressiva, dall’altro essa ci pone davanti a un’abissale presa di responsabilità, un orizzonte etico vertiginosamente aperto all’ostinata rielaborazione di tutti quei vincoli che ci si impongono come apparentemente necessari. Per Goodman, l’adozione del concetto di mondo come costruito, della sostanza che si dissolve nel dinamismo della funzione, è un passo fondamentale per andare oltre l’ormai stantia diatriba tra monismo (“esiste un solo mondo”) e pluralismo (“esistono numerosi e diversi mondi”). L’universo, inteso come la sommatoria in divenire dei suoi mondi, sussiste sotto forma di descrizioni e dimensioni dalla disparità irriducibile, ciascuna relativizzata intensivamente (rispetto alle storicità delle sue versioni) ed estensivamente (rispetto alla coesistenza con altri mondi e con le loro versioni): ogni descrizione è valida soltanto all’interno di un sistema dato e ogni qualvolta tentiamo di conciliare o anche soltanto avvicinare descrizioni diverse tra loro, l’intero sistema deve essere ricostruito. L’incommensurabilità preliminare che sussiste tra le diverse descrizioni indica che non è possibile testare le nostre versioni del mondo confrontandole con una specie di mondo di grado zero, perché tutto ciò che sappiamo del mondo a cui ci riferiamo è contenuto nelle sue versioni e non al di fuori di esse. In questo senso, quello di Goodman si propone come un pluralismo, ma di tipo tutt’altro che triviale. In esso, la relatività delle versioni non scade nel relativismo: il rilassamento epistemico trainato dalla formula “a ciascuno il suo mondo” è rimpiazzato dal riconoscimento di come ciascuna singola versione sia sempre parziale e dunque di per sé insufficiente. È un pluralismo che tende all’Uno, alla realizzazione di un unico e omogeneo mondo che aderisca alle soglie dell’universo intero, ma che non raggiunge mai il proprio compimento. Ogni esito è riaperto dalla necessità di una nuova costruzione, ogni unità «non deve essere intesa come qualcosa di ambivalente o neutrale […] ma come l’abbraccio di un’organizzazione complessiva» e mai definitiva (N. Goodman, Ways of Worldmaking, Indianapolis CA, Hackett, 1978, p. 5).

A causa della sussistenza di molteplici e parziali mondi (versioni), qualsiasi costruzione non può non partire da qualcosa che c’è già, «ogni fare è un rifare» (ivi, p. 6), mentre la ricerca di un’origine, di un universale pregresso, viene dimessa alla stregua di un argomento volgarmente teologico. In questo scenario di incessanti ricostruzioni, anche il registro della verità accusa un significativo decentramento dal suo senso convenzionale: non solo vi sono differenti verità che fanno capo a mondi altrettanto differenti ma, se non pensata come un’ennesima ricostruzione, la natura dell’accordo tra ognuna di esse e il mondo che germina al di fuori di essa degenera in un’opaca nebulosa. Per dirla con Lacan, nella costruzione dei mondi, la verità retrocede sempre a varità (varité), un «umile servo» che cambia pelle a seconda delle norme impostele dal pensiero (ivi, p. 18). Estendendo questa scala di riferimento, il fisico russo Andrej Linde ha coniato il termine multiverso per indicare l’ipotetico insieme di universi coesistenti, di cui il nostro sarebbe solo una piccola e desolata parte, mentre con la teoria delle stringhe si è potuto postulare che l’aggregazione di quest’ultime (corde vibranti che compongono la materia in uno spazio superiore a tre dimensioni) lascerebbe scaturire una proliferazione di universi distinti e persino interagenti.

È interessante notare come nel XXI secolo l’idea della costruibilità dei mondi e quella del multiverso abbiano trovato una straordinaria convergenza nel medium del cosiddetto “fumetto”. È sufficiente pensare, non a caso, al multiverso Marvel, un ultra-mondo in costante espansione prodotto dall’incasellamento di sempre nuove norme spazio-temporali, etiche e filosofiche. Il successo della Marvel Comics nel corso degli anni sarebbe allora da imputare non alla semplice capacità di ampliare la propria offerta narrativa (introducendo e approfondendo nuovi personaggi o spazi d’azione, e ricamandovi attorno storie inedite), ma in quella di creare una coesistenza complessa, multistratificata e dedita al continuo assestamento di ciascuno dei suoi singoli tasselli in un ‘tutto’ in perpetuo divenire. Multiverso e worldmaking convergono in una prassi ingegneristica che deve simultaneamente codificare le norme interne a ogni singola costruzione e validare la loro appartenenza a quelle di altri e più lontani mondi, senza con ciò ricadere nella tentazione dell’omogeneità. Detto in altri termini: l’universo è una speculazione estrema che si dispiega tra il raffinamento dell’attuale e l’estensione del possibile, tra ciò che c’è e ciò che potrebbe esserci.

L’infusione tra il mezzo della scrittura e quello della raffigurazione tipico del “fumetto” consente di allargare la portata di ciascuna costruzione, svincolandosi sia dall’immobilità del ritrattismo sia dall’ambiguità testuale della scrittura, fornendo così al comic writer la ricetta di base per una (ri)costruzione pressoché interminabile. Chronosis, la graphic novel firmata da Keith Tilford, Reza Negarestani e Robin Mackay (Falmouth, Urbanomic, 2021), ci presenta una storia assemblata proprio attraverso il meccanismo ad alveare del worldmaking. Come nota lo stesso Tilford, il concetto di «costruzione di mondi» è sempre implicitamente appartenuto ai comic writers. Prima che canale espressivo, la «forma-fumetto» è un «motore di simulazione» che favorisce in modo concomitante la collisione e la sintesi di elementi eterogenei, assumendo ciò che c’è già (ad esempio un frame inserito in una sequenza) come uno strumento di proliferazione narrativa infinitamente revisionabile. Tuttavia, sarebbe riduttivo dire che l’artista si limiti ad appropriarsi del suo medium come di un qualunque altro strumento, direzionando la sintesi espressiva tra immagini e testo in modo del tutto intenzionale. Ogni volta che le sequenze del fumetto si estendono allargando il ventaglio della trama, è con le rispettive ambiguità del testo e dell’immagine che bisogna fare i conti. Detto altrimenti, il comic writer deve divenire complice delle opportunità offerte dal suo medium senza per questo illudersi di potersene appropriare definitivamente: se Lacan ci ha redarguito sulla nostra insufficienza nel padroneggiare il linguaggio, lo stesso si può dire della nostra efficacia nel manipolare e far parlare le immagini.

Un esempio parossistico di questo gioco di decostruzioni e sintesi basate sulla ricorrente ambiguità del fumetto ci viene fornito da Fraction, il perverso manga di Shintaro Kago (cfr. S. Kago, Fraction, Torino, Hikari, 2015). Perla del genere “ero-guro” (ibrido di erotismo, orrore e violenza), Fraction racconta di un serial killer che si aggira per la città di Tokyo segando il corpo delle proprie vittime in due. La storia è intramezzata da sezioni in cui troviamo lo stesso Kago in veste di protagonista, che segue e commenta gli sviluppi del caso conversando con una reporter. In un primo momento, il manga sembra riproporre il noto escamotage dell’autore che penetra nella propria opera, creando una sovrapposizione tra lo stile e il contenuto, lo scrittore e lo scritto – e dunque l’enunciato e l’enunciazione. Tuttavia, l’operazione proposta da Kago è ben più lungimirante di questo inflazionato maquillage postmoderno: a un certo punto del racconto, la trama sembra arrivare a un punto morto; l’idea che ci eravamo fatti di chi fosse l’assassino si arena in una serie di contraddizioni e falsi binari; i conti non tornano più, le potenziali soluzioni del giallo sono esaurite, Fraction si avviluppa in un (non)mondo paradossale e contraddittorio. La sequenza torna su Kago, che smette di commentare gli omicidi per intraprendere una lunga divagazione sul cosiddetto “trucco narrativo”, escamotage utilizzato dai mangaka che sfrutta la plurivocità dei testi e dei disegni per sortire inganni e illusioni nel lettore: il riquadro di una giovane donna immersa nei propri pensieri viene allargato, rivelando che la persona era un cadavere tagliato in due; una serie di frame con primi piani di volti femminili che litigano viene ricomposto, mostrando una figura chimerica formata da tante teste di donna parlanti. Allargando il riquadro in cui Kago espone i suoi trucchi, il meccanismo si riversa bruscamente nella trama stessa del manga: persino la giornalista, fino a quel momento raffigurata soltanto fino al busto, si scopre un trucco narrativo in carne e ossa, un corpo privo di gambe ricavato per altro dal cadavere di una delle vittime. Ogni trucco implica la ricostruzione ex post del sistema della trama del racconto, che deve di volta in volta adattarsi alle variazioni introdotte internamente al sistema stesso e a quelle leganti i vari sistemi tra loro; tutte le ricostruzioni martoriano spietatamente il nostro bisogno di verità, introducono vertiginosi cambi di prospettiva che rendono quest’ultima nient’altro che un ostacolo alla continuazione delle costruzioni successive.

Che si tratti dei grotteschi racconti di Kago o della sintesi tra mondi diversi, l’algoritmo del worldmaking offerto dal medium del fumetto rimane lo stesso: trovare una risoluzione coabitativa tra linee e tratti non immediatamente commensurabili; concepire una prassi che estenda gli orizzonti della narrazione allargando al contempo anche quelli del pensiero. La composizione di una tavola non è una pratica di riempimento di vuoti, quanto piuttosto una risoluzione progressiva di enigmi e trabocchetti logici, un protocollo che subordina la produzione all’aggiornamento, la creazione alla riorganizzazione.

Chronosis applica questa legge al massimo grado, sviluppandola attraverso una spirale che intercetta spazi e tempi sideralmente diversi, personaggi, specie e contesti dispersi in un labirinto di portata intergalattica. La storia ci mette a disposizione quattro scenari o versioni apparentemente slegate. Nel primo, assistiamo alla presentazione del Tempo, una misteriosa entità che infesta l’universo presentandovisi sotto guise e forme diverse («sono abituato a non avere un volto, soltanto una panoplia di maschere»). Nel secondo scenario, veniamo introdotti alla civiltà simil-rettiliana dei Lacari, una razza interplanetaria a elevatissimo sviluppo tecnologico che mira a estendere il proprio dominio a tutte le galassie. Il terzo scenario ci presenta l’ordine ascetico dei Monazzin, degli anacoreti che vivono in nessun tempo e luogo e che, dotati della facoltà di padroneggiare il tempo, cercano di costruire ponti e nessi tra le numerose versioni dei mondi possibili. Infine, Chronosis ci riporta sul pianeta Terra, ai giorni nostri, per farci fare la conoscenza del tormentato Jeremy Charles, autore best-seller di Keratin Trauma, libro che descrive come l’evoluzione umana sarebbe in realtà manovrata da un parassita extraterrestre molecolare.

Il titolo può essere inteso alla lettera: Chronosis ci offre una serie di sequenze sull’irritazione protratta che il tempo induce nelle nostre coscienze. Ogni essere che vive nel tempo, disperso nella sua “foresta di mondi”, è consumato dal trauma che lo stabilirsi della temporalità esercita su di esso. Come chiosa l’esergo schellinghiano dell’opera, nulla viene a essere dentro il tempo (come se esso fosse un contenitore o il substrato dell’essere). Piuttosto, in ogni cosa che esiste il tempo si rinnova, staccandosi dal silenzio crudele dell’eternità e insinuandosi nella pasta stessa di cui sono fatti gli esseri. Ma il prezzo di un simile distacco è oltremodo elevato. Non solo infatti il nostro rapporto con il tempo è caratterizzato dall’angoscia della finitudine e dall’incombere della morte, ma ogni nostra rigida adesione alla temporalità ci consuma lentamente. Ecco perché il monito etico di Chronosis potrebbe essere sintetizzato pressappoco così: chi rimane invischiato nelle maschere locali del tempo, rinunciando così alla riprogettazione della propria condizione di essente, finisce per morirne. Illudersi che il nostro tempo, la maschera di estensione e durata che distingue la nostra specie da quella di altri organismi, sia il tempo in quanto tale è un delirio suicida che non rispetta né noi stessi né le altre forme di vita.

Non si potrebbe forse applicare lo stesso discorso anche al worldmaking tout court? Non è forse che, ogni volta che abbiamo scambiato una qualche costruzione del mondo per la sola e unica possibile, abbiamo finito per incorrere in disastri e terribili sofferenze? In Chronosis è esattamente questo fraintendimento ad abbattersi sul destino dei Lacari. Dotati dei migliori apparecchi concepibili (come una cintura panottica che registra tutto ciò che accade nell’universo o un marchingegno per l’estrazione dell’energia neutronica stellare) e di intelligenze incredibilmente complesse, i Lacari credono di poter estendere il loro dominio a qualsiasi regione o anfratto dello spazio. Il loro mondo è completo, omogeneizzato e semplificato dall’intervento di mirabolanti artefatti, tutto quel che resta da fare è unificare ciascuna delle sue parti: conquistare il dominio incondizionato della totalità. Tuttavia, una misteriosa entità dotata di un’accelerazione sovrannaturale penetra nella loro orbita e inizia a divorare i corpi celesti contaminandoli con uno strano virus fossile. I Lacari credono che si tratti di un cortocircuito del tempo, un’infezione dell’architettura spaziotemporale, quando invece è il tempo stesso, ma che si comporta in un modo del tutto diverso da come essi l’avevano concepito. In un’epoca e in una località differente, Jeremy si sveglia in una camera d’albergo in preda ad un violento hangover. Indossa il suo abito da conferenza, si incolla il parrucchino sulla testa calva e si reca claudicante all’ennesimo simposio, in una sala gremita di fanatici e oppositori delle sue teorie. Qui, racconta agli astanti di come la specie umana non sia stata creata dal nulla, ma sintetizzata dal volere di un’entità aliena, e di come un’amnesia di specie ci tenga nascosta questa scioccante verità: «comprendere che non siamo soli», blatera un ormai esausto Jeremy, significa «comprendere ciò che siamo», e questa comprensione ci aiuterà a ridefinire «il nostro rapporto con il mondo e con il tempo». Terminata la conferenza, Jeremy va a pranzo con la propria manager in un decadente Cafè di Soho, i due parlano della Sindrome di Fahr, la malattia ereditaria che ha stroncato la madre di Jeremy e che presto ucciderà anche lui: la calcificazione del suo cervello lo sta lentamente divorando dall’interno, quel che gli è rimasto da vivere è poco, e preannuncia un peggioramento dei sintomi caratterizzato da crisi epilettiche, allucinazioni, confabulazioni. Ironia del destino, sembrerebbe che la sindrome peggiori man mano che Jeremy si mostra sempre più scettico verso le proprie teorie: più l’orizzonte delle nostre alternative si chiude, più il mondo si addensa nel suo sembiante di unità, prima veniamo divorati dai fantasmi della nostra finitudine.  

Al contrario degli altri, i Monazzin hanno scoperto un modo per slegarsi dall’inerzia del tempo. Hanno scoperto che la condizione per sopravvivere alla cronosi consiste nel vivere il tempo come un nodo di ripiegamenti, viadotti e regioni che sussistono a velocità e ritmi incostanti.  Dall’alto del loro tempio, le esistenze e le durate di tutti i mondi appaiono un «dedalo» aperto su una «tavola da obitorio». Per i Monazzin, la condizione per evitare l’estinzione starebbe nella capacità di vedere tutte le maschere del tempo e navigare indefinitamente in esse: il qui ed ora, il passato, il futuro come tante incommensurabili località a cui rimanere gelidamente indifferenti. Ma persino la loro ascetica soluzione è precaria. Il concetto di sopravvivenza da loro professato è drasticamente diverso dal suo significato convenzionale: sopravvivere significa non conoscere volontà, voce, memoria; lasciarsi trascinare da forze frammentarie e in eterna competizione. I Monazzin non si appellano alla vita né alla morte, rimuovono il timore della finitudine sostituendolo con un inquietante mausoleo di fossili senza nome. Essere eterni, per loro, vuol dire non anticipare più la propria dipartita con timore, assistere alla cancellazione dei mondi altrui come alla liberazione delle possibilità che l’esistenza di quel mondo precludeva. Scegliendo la ripetizione al posto della revisione, anche i Monazzin finiscono per essere ammoniti dal Tempo: ciò che ci sforziamo di fuggire non è l’inevitabile, ma quel che ci dà l’illusione dell’inevitabilità. Gli idoli che adoriamo religiosamente e a cui rimettiamo il fatalismo delle nostre esistenze finiscono per tramutarsi in divinità cannibali; la futilità non appartiene al silenzio degli spazi infiniti, ma alla miope località delle nostre illusioni, alla nostra incapacità di partecipare all’estensione germinativa di un universo in costante espansione, perennemente decentrato dalla stabilità conservativa dell’Uno.

Al contrario, immaginare possibilità per costruire nuovi mondi significa comprendere che la realtà che abitiamo non è né “inevitabile” (rassegnazione all’incondizionato) né una “totalità completa” (cospirazione paranoide), ma un laboratorio etico-politico in cui l’illusione debilitante del there is no alternative è esposta a una progressiva smentita. La condizione perché un simile lavoro possa avere luogo, il prezzo da pagare per non patire masochisticamente le ganasce del tempo, passa unicamente per la dissoluzione di quelle certezze e di quei valori che ci arpionano alla nostra desolante finitudine, proteggendola dal rischio di sconcertanti profanazioni: «beati coloro che non vivono nel tempo, ma vivono come se fossero il tempo».