cult

CULT

Cervelli sconnessi

L’introduzione al libro “Il mondo di carne e quello digitale”.

Da pochi giorni è in libreria il nuovo libro di Giuliano Santoro “Cervelli sconnessi. La resistibile ascesa del netliberismo e il dilagare della stupidità digitale” (ed. CastelVecchi, di cui pubblichiamo l’introduzione. Ci auguriamo che le riflessione del libro di Giuliano, portate negli scorsi mesi anche su DINAMOpress possano essere l’occasione per un rinnovato dibattito sulla Rete, i conflitti, il potere.

IL MONDO DI CARNE E QUELLO DIGITALE

Per motivi puramente anagrafici non sono quello che si definisce un «nativo digitale». Quando ho imparato a scrivere l’ho fatto a penna sulla carta, compilando paginette di vocali e consonanti. Ho preso l’abitudine a leggere sfogliando le pagine dei fumetti di Geppo, il diavolo buono. Insomma, anche se intrattengo coi computer una relazione ormai quasi trentennale, sono soltanto un «migrante digitale».

Come molti della mia generazione mi sono fatto le ossa sulla tastiera di un Commodore Vic 20. Poi, nel giorno della prima comunione, ho compiuto il doveroso upgrade al Commodore 64. Ci passavamo i giochi su floppy disc e inserivamo le audiocassette snocciolando il rosario «Press play on tape. Loading. Ready. Run». Ho sperimentato per la prima volta la telematica nelle umide stanze del centro sociale occupato della città del Sud dalla quale provengo. All’epoca non esisteva ancora Internet. Utilizzavamo delle bacheche elettroniche, le Bbs, di un circuito pionieristico della controcultura digitale chiamato Ecn. Ho navigato per la prima volta nel mare magnum del Web a Parigi, dove ero di passaggio durante un viaggio InterRail in giro per l’Europa. Appoggiai il mio zaino lurido accanto a una postazione dell’allora avveniristico Centre Georges Pompidou, digitai l’indirizzo di un motore di ricerca e cercai informazioni sulla prima cosa che mi venne in mente. Credo si trattasse di un gruppo musicale. Se la memoria non mi inganna, dovevano essere gli Stiff Little Fingers, i Clash irlandesi.

Poi è venuto il turno della sinfonia da camera della Rete, quella musica sincopata composta dal modem analogico che faceva da colonna sonora ai secondi interminabili dell’attesa spasmodica della connessione: sequenza celestiale per le nostre orecchie di internauti entusiasti. Sono passato anche dalla costruzione di un sito di informazione indipendente con il quale arrivammo nel media center del Genova Social Forum per raccontare assieme ad altri – dal basso e in maniera orizzontale – quei giorni contro il G8. E sono arrivato alla professione giornalistica in un settimanale che oltre alle notizie di agenzia utilizzava sensori sul territorio e corrispondenti solidali in giro per il mondo e che senza la Rete non sarebbe mai potuto esistere. Fino ai blog, ai social network e alla dipendenza da aggiornamenti sullo smartphone.

Insomma, chiamatemi come volete tranne che «apocalittico»: sono cresciuto umanamente e professionalmente dentro la grande mutazione digitale. Questo sguardo da dentro mi consente di affermare quello che sto per dirvi. Ogni giorno più di 14 milioni di persone attivano la loro connessione via telefonino, computer o tablet. Circolano banalità, campagne umorali, allarmi isterici. Ogni volta che succede qualcosa di importante ci si rende conto di come la Rete, o quello che è diventata, reagisce, deviando l’attenzione dal cuore della questione, producendo un blob incoerente di scemenze, dettagli inutili, personalizzazioni insopportabili. Il livello dell’informazione media è sceso, trionfano narrazioni povere e rassicuranti, si cerca lo scandalo a buon mercato invece del ragionamento. È peggiorata, e di molto, anche la qualità della discussione politica. Molti degli strumenti partecipativi che ci parevano rivoluzionari sono serviti a rafforzare relazioni di potere invece che ad allentarle.

Il derby tra «apocalittici» tra chi demonizza e chi esalta le nuove tecnologie, non è appassionante. È poco produttivo anche l’atteggiamento relativista di quelli che dicono «Alla fine è solo uno strumento, puoi usarlo bene o male». Quello che si tende a sottovalutare è il mondo circostante, le sue contraddizioni e i suoi conflitti. Guardiamo al caso italiano: dopo anni di distruzione della memoria e della cultura, di sabotaggio della scuola e di saccheggio dell’università, come potevamo illuderci che la maggioranza dei nostri connazionali avrebbe saputo utilizzare la Rete e anzi l’avrebbe impiegata come meccanismo catartico attraverso cui traghettare il Paese verso la Nuova Era?

Bisogna proiettare luci e ombre della Rete dentro la situazione politica, economica e culturale che l’ha generata e nella quale è prosperata. Thomas Pynchon ha ambientato il romanzo Bleeding Edge nella New York dell’euforia digitale pre-11 settembre. L’autore che ha ironicamente trasformato in grande letteratura le sue paranoie chiama il mondo «reale», quello che si trova al di fuori del cyberspace dei romanzi cyberpunk, il meat space. L’evolversi delle reti telematiche è stato influenzato dalle vicende di questo mondo di carne. La «dittatura della maggioranza» che tanto temevano i teorici liberali del diciannovesimo secolo si è tradotta nell’appiattimento e nella banalizzazione del senso comune, nella ghettizzazione del dissenso e della complessità. La cosiddetta new economy ha solo accelerato processi che erano già cominciati prima del suo avvento, dai tempi di Thatcher e Reagan, con la controrivoluzione del mercato e della proprietà privata come bene supremo. Quello che chiamo, con qualche imprudenza, net-liberismo ha cercato ad ogni costo di ricavare profitti dalla circolazione di dati e informazioni scatenando un’asta al ribasso che genera monopoli, impoverisce i contenuti, semina miseria tra i lavoratori, ci trasforma in dati da spremere e oggetti da controllare.

Prima di cominciare, dobbiamo definire meglio la nozione di stupidità che trovate nella copertina di questo libro, sotto il titolo. La condizione che cercheremo di comprendere meglio – ed evitare – nelle pagine successive fa riferimento al saggio di un economista italiano e professore emerito all’Università di Berkeley, Carlo M. Cipolla, il quale nel breve e succulento testo intitolato Le leggi fondamentali della stupidità umana sostenne: che ognuno di noi sottovaluta sempre la quantità di stupidi in circolazione (prima legge), che la stupidità umana è indipendente dalle condizioni economiche, sociali e culturali dei soggetti (seconda legge) e soprattutto che «una persona stupida è chi causa un danno ad un’altra persona o gruppo di persone senza nel contempo realizzare alcun vantaggio per sé o addirittura subendo una perdita» (terza legge).

Quando sentiamo dire che Internet ci rende stupidi, per citare il titolo di un noto saggio e le posizioni catastrofiste in esso contenute, rischiamo di finire fuori strada. Nelle pagine che seguono inseguo le tendenze in atto per spiegare come la Rete non sia mossa da una forza autonoma miracolosa ma neanche operi necessariamente verso il peggio. Sono il neoliberismo e l’ideologia del profitto ad ogni costo ad aver reso stupida la Rete, impoverendola e depotenziandone il carattere realmente partecipativo e orizzontale. Il terzo postulato delle leggi sulla stupidità di Cipolla costituisce un vero e proprio salto di paradigma nella storia, pur non edificante, della concorrenza. Riassume una dinamica, che dilaga nella Rete, della competizione esasperata, dell’individualismo a tutti i costi e delle passioni tristi: siamo disposti a colpire il prossimo anche sapendo che da quell’azione non deriva necessariamente un beneficio, visto che è ampiamente dimostrato che solo dagli alti livelli di cooperazione sociale e condivisione nascono le innovazioni e le idee migliori. Non possiamo negarlo: in diverse forme e intensità, la stupidità del danno arrecato senza che da questo derivasse un reale profitto ha riguardato tutti noi. Ci siamo dentro, non possiamo chiamarci fuori individualmente.

Bisogna uscirne riconoscendo che ciò che ci accomuna è molto più importante di quel poco che potremmo possedere vivendo come se fossimo atomizzati: è una condizione materiale, non solo una scelta morale.