ITALIA

Capitanata is bad

Anche l’estate appena trascorsa è stata una “Cattiva Stagione” per le migliaia di lavoratori stranieri che vivono tra baracche e casolari, impegnati nella raccolta del pomodoro nelle campagne della provincia di Foggia. L’allarme sulle condizioni sanitarie dei braccianti lanciato da Medici per i diritti umani (Medu) in un contesto politico-sociale permeato da clientelismo, mafie e malaffare

La seconda provincia più estesa d’Italia, 61 comuni e 9 borghi di campagna. Un fazzoletto di territorio che abbraccia mare, campagna e sub-appenini (quello dauno), le isole care a Lucio Dalla, le Tremiti, il Gargano e l’immensa pianura del Tavoliere delle Puglie. La Capitanata, che è anche l’area dove si coltiva esattamente la metà dei 55 milioni di quintali di pomodori raccolti ogni anno in Italia.

Un prodotto quasi interamente destinato alle aziende di trasformazione della Campania, le quali hanno la loro sede legale, la maggior parte, nei comuni di Angri e Scafati, in provincia di Salerno. Il pomodoro viaggia per tutta l’estate, raccolto in cassoni e disposto nelle decine di tir e autotreni che ogni giorno, nel periodo della “stagione”, affollano l’autostrada Napoli-Bari. Salgono pieni verso la Campania e scendono poi vuoti verso la provincia di Foggia. Per un giro di affari potenziale che sfiora i 200 milioni di euro l’anno, una torta che è nelle mani quasi interamente delle aziende di trasformazione, di pelati e di passate, che ritroviamo poi disposti sugli scaffali della grande distribuzione alimentare.

 

Cattiva stagione. «Anche quest’anno l’estate in Puglia è stata una cattiva stagione per i diritti di chi lavora nei campi. Certamente brutale per le migliaia di braccianti che si sono riversati nelle campagne della Capitanata per lavorare alla raccolta del pomodoro».

 

Così hanno raccontato da Medici per i diritti umani nel corso della conferenza stampa che si è tenuta oggi a Foggia e durante la quale è stato presentato “La Cattiva Stagione”. Il rapporto è l’esito delle attività di sostegno medico e assistenza socio-legale che l’organizzazione umanitaria ha messo in “campo” dallo scorso febbraio a settembre, il termine della raccolta del pomodoro, nel territorio della Capitanata. L’immensa area è divenuta tristemente famosa a partire dalla metà degli anni’90 per la massiccia presenza di insediamenti informali abitati da migranti e rifugiati sfruttati all’interno della filiera agricola pugliese, del pomodoro, soprattutto. Casolari abbandonati, baracche, ghetti, vecchie masserie in cui arrivano a vivere, complessivamente, durante la stagione del raccolto, circa 7/8000 persone.

A ridosso dei comuni di Poggio Imperiale, Ortanova, Rignano Garganico, Cerignola, solo per citare alcuni dei luoghi di questa geografia della vergogna, che sale alla ribalta mediatica, di tanto in tanto, solo per gli incidenti, gli incendi, le operazioni di sgombero delle baracche, un po’ meno per le situazioni di grave, ordinario sfruttamento a cui vengono sottoposti braccianti dalle diverse nazionalità. Il team medico-legale di Medici per i diritti umani, in questo senso, ha fornito nei mesi scorsi assistenza a uomini, in media trentenni, che provenivano principalmente da: Ghana, Gambia, Nigeria, Mali, Senegal, Togo, ma anche dal Marocco, dalla Turchia, e da alcuni Paesi del sud-est asiatico.

Ma gli operatori di Medu hanno anche garantito «assistenza sanitaria e legale in un contesto protetto a 16 donne, tutte vittime di tratta a scopo di prostituzione». Tra di loro c’era F.J, giovane donna di 22 anni, che ha raccontato: «Ero stanca, ho chiesto di smettere, allora mi hanno detto che potevo scegliere o la prostituzione o lo spaccio, ho scelto lo spaccio e mi hanno arrestata».

 

Quella appena passata è stata una “stagione cattiva”, hanno spiegato ancora dal team di Medu: «perché lo sfruttamento di ieri è rimasto immutato nella sostanza, assumendo in alcuni casi i tratti mitigati del lavoro grigio, che dietro le parvenze di una regolarità contrattuale cela le stesse violazioni: irregolarità salariali, contributive, orari e modalità di lavoro sfiancanti».

 

Non soltanto. Si legge nel rapporto presentato oggi a Foggia: «Cattiva perché il caporalato, lungi dall’essere scoraggiato dalle recenti normative e misure di contrasto, sembra più strutturato, riguardando tutti gli aspetti dell’organizzazione del lavoro, dal reclutamento all’abitazione, dal trasporto al pagamento delle giornate». Cattiva, dunque, «perché ancora una volta la politica e le istituzioni locali non hanno avuto il coraggio e la capacità di affrontare le cause profonde, manifeste e sempre più radicate dei ghetti e dello sfruttamento». È stata una stagione feroce, perché sono cresciuti in Capitanata gli episodi di stampo xenofobo a danno dei braccianti, un clima che è stato senza dubbio favorito dalle politiche di razzismo istituzionale perpetuate dai decreti sicurezza.

D’altronde, da queste parti più che altrove il contesto politico-sociale è difficile; è quello in cui prosperano ad esempio clientele come quelle scoperte qualche giorno fa dalla procura di Foggia. Il sistema dei Cera, dal nome di Angelo e Napoleone Cera, rispettivamente padre e figlio, ex deputato Ucd l’uno, attuale consigliere regionale dei Popolari che sostiene alla Regione Puglia la maggioranza di Michele Emiliano, l’altro. Protagonisti di: «una attività clientelare spaventosa», l’ha definita quella dei Cera il procuratore aggiunto di Foggia Antonio Laronga nella conferenza stampa in cui sono stati motivati gli arresti.

«Basti pensare che nel loro ufficio, a San Marco in Lamis, si prende un biglietto numerato per entrare, come in macelleria, lasciando intendere la fila di richieste e il potere gestito dai due uomini», ha aggiunto il procuratore. E, nel comune di San Marco in Lamis, in un contesto “difficile” per circa un mese, Medu ha operato anche presso i casolari occupati di Contrada Cicerone, in località San Marco in Lamis, appunto, dove vivono alla mercè dei caporali diversi braccianti stranieri.

A poca distanza da quei casolari diroccati l’estate di due anni fa due contadini italiani furono brutalmente trucidati perché testimoni dell’omicidio di due uomini del clan Romito, avvenuto in quelle stesse campagne. Un episodio che catapultò gli occhi e le orecchie della politica nazionale – come avviene sovente ad orologeria di fronte a casi di estrema violenza come questo – sulla zona della Capitanata. Un luogo in cui negli ultimi 3 anni si contano più di 30 omicidi per mafia, spesso senza prove, un posto in cui l’allora ministro dell’Interno Marco Minniti aveva inviato uomini e reparti speciali. «Perché la risposta dello stato sarà durissima», aveva tuonato l’ex ministro. Capitanata is bad. Nei caporali di impresa e della politica che governano il territorio e la popolazione dauna da circa un secolo.

 

La Capitanata è però anche oggi come allora, come rispetto a settanta e ottant’anni fa, al tempo di Giuseppe Di Vittorio, terra di resistenze. Di braccianti stranieri.

 

Come quelli che in migliaia ha incontrato il team di Medici per i Diritti Umani (Medu) che ha avviato per il sesto anno consecutivo il progetto Terragiusta, con l’obiettivo, appunto, di contrastare lo sfruttamento in agricoltura e promuovere lo sviluppo dei territori.

Una squadra che con l’ausilio di una clinica mobile, il team di Terragiusta – formato da una coordinatrice, un medico, due mediatori linguistico-culturali, un’operatrice legale e diversi volontari – ha fornito assistenza sanitaria, orientamento ai servizi socio-sanitari, informazioni sui diritti dei lavoratori agricoli e supporto legale. A braccianti come M.B. gambiano di 27 anni, il quale così racconta la sua storia di emarginazione: «Vivo qui da più di un anno, il mio permesso di soggiorno è in regola, non è scaduto e lavoro. Ho provato a cercare una casa a Lesina e anche a Foggia dicendogli che avevo un contratto di lavoro e che potevo pagare. Mi hanno detto no, no, no. Noi a voi non affittiamo, poi succede un casino. Io sto cercando casa, voglio riunire la mia famiglia».