cult

CULT

Cannes #3. Un cinema del confine: “R.M.N” di Cristian Mungiu

Con un film magistrale, Cristian Mungiu presenta al Festival del cinema di Cannes “R.M.N.”, un film sulla società romena, fatta di provenienze stratificate e attraversata dalle migrazioni del Medio Oriente e del Sud Est Asiatico, prendendo parola sui confini prodotti dalle politiche identitarie dell’Est Europa, sui conflitti che emergono tra europeismo e nazionalismo e sul rapporto tra cultura e natura

Nelle cartografie il confine segna il limite tra l’esterno e l’interno, chi è dentro e chi è fuori dallo stato-nazione. L’esternità che si definisce, tuttavia, non preesiste l’atto del tracciare il limite sulla mappa disegnata, verticalmente, per una decisione che proviene dall’alto, come effetto di una guerra o di una mediazione internazionale che non esaurisce la complessità di quello che accade socialmente, formato da coesistenze complesse e molte volte impossibili. Sul problema della coesistenza e del disegno di confini si interroga nel suo ultimo film Cristian Mungiu, in concorso al Festival del cinema di Cannes, esponente di spicco della New Wave romena, già vincitore della Palma d’Oro nel 2007 con 4 mesi, 3 settimane e 2 giorni, ambientato nel 1987 e dedicato alla questione della ricerca di un disperato aborto illegale. 

È un cinema interamente sociale quello di Mungiu che si propone già nel titolo di offrire uno scan, una radiografia della Romania contemporanea – R.M.N. indica sia la risonanza magnetica di uno dei protagonisti che l’abbreviazione del nome del paese –, concentrandosi su un territorio complicato come quello della Transilvania, terra storicamente contesa tra ungheresi, romeni e tedeschi – e tra le altrettante religioni protestante, cattolica e ortodossa – e ora luogo di attraversamento delle migrazioni di massa dal Medio Oriente e del Sud Est asiatico. La città in cui Mungiu ha collocato il suo film non esiste e si costituisce come allegoria dell’imposizione di confini all’interno di uno spazio geografico che è già esso stesso un confine, un territorio di mezzo – certo a maggioranza bianca – che diventa cerniera tra l’Unione Europea e tutto ciò che si trova nel vicino ed estremo Est. E qui, in un film dai tratti classicissimi e rigorosi, si dipanano le diverse storie che puntano, come ha scritto Lorenzo Rossi su Cineforum, a «costruire tanti piccoli microcosmi (o microstorie) dentro il medesimo racconto» e in cui la storia del protagonista, Matthias – un lavoratore emigrato in Germania che fugge dalla macelleria in cui lavora dopo aver aggredito il suo capo che lo accusa di essere un “pigro zingaro” – si disperde in un mosaico familiare e relazionale intricato tra il padre pastore malato di tumore, il figlio Rudi che ha incontrato qualcosa di terrificante nel bosco e perde inspiegabilmente la parola, la sua amante, Csilla, una donna colta e cosmopolita che suona il violoncello in una casa restaurata durante il tempo libero dal suo lavoro da manager all’interno di una impresa locale che produce pane. È proprio quando Csilla, dopo aver bandito per settimane tre posti di lavoro pagati col salario minimo che nessuno dei cittadini del luogo vuole più svolgere, decide di assumere migranti stranieri regolarizzati dello Sri Lanka, che il conflitto, non solo con Matthias, ma l’intera città si farà ingestibile e violento. 

Mungiu riprende, senza risolverla, la contraddizione tra la coesistenza di nazionalità diverse – in cui storicamente i paria sono sempre stati i rom, come viene sottolineato a più riprese nel film –, fatte di abitanti che molto spesso migrano per svolgere lavori manuali in Europa occidentale (subendo spesso il razzismo nel paese d’arrivo) e l’identitarismo feroce e reazionario che attraversa i processi di rinazionalizzazione in paesi come la Romania e che diventano sempre più frequentemente territori di espulsione o di detenzione di migranti provenienti dal sud-est del mondo. Sarà un’assemblea cittadina – ripresa in 17 minuti di piano sequenza a camera fissa con un gioco sottile di fuochi a cogliere le propensioni inconciliabili dei partecipanti – a svelare la trama complessa che segna le linee di divisione tra l’Europa occidentale e liberale, incarnata da Csilla e la capa dell’azienda (che accolgono stranieri ma pagano poco) e l’identitarismo intollerante dei cittadini (che in ripetuti exploit razzisti dichiarano di non sopportare che il pane venga impastato da persone di colore). In quell’assemblea in cui si parlano molte lingue in contemporanea – dall’ungherese al tedesco, dal romeno all’inglese fino al francese – la traduzione politica (tra co-appartenenza di classe e superamento delle divisioni di razza, per esempio) sembra impossibile, come se non si potesse uscire dal risentimento che si trasforma in odio per lo straniero, come se in un territorio originariamente al confine, non si potesse che ricrearne uno nuovo, riaffermando la genetica e l’igiene del suolo e del sangue. Anche la foresta, che non svolge solo una funzione di sfondo e che costituirebbe, in un’idealità simmetrica, lo spazio s-confinato, diventa parte integrante del conflitto della città. Quel territorio che per l’Occidente è zona di “rewilding” – in cui concedersi un turismo sostenibile, empaticamente integrato con la natura – diventa nel film non solo oggetto di contesa tra l’osservatore dell’assemblea ultra-europeizzato, che lavora per un ONG per calcolare gli effetti della ripopolazione degli orsi nelle foreste della Transilvania e i cittadini del luogo che si rifiutano di “diventare lo zoo d’Europa”, ma assume i tratti di uno spazio lugubre e angosciante che risucchia continuamente la Romania nel conflitto tra natura e cultura.