DIRITTI

Brutti, sporchi e cattivi. Note sui rom e sulla segregazione degli ultimi

I fatti di Battistini ci mettono di fronte ai nostri stereotipi sui rom: nomadi, ladri, accattoni. Ma la realtà ci parla della segregazione dei poveri e delle nuove forme di apartheid nelle nostre metropoli

Certo che due cose si potrebbero verificare prima di spararle a caso sui giornali e ai comizi. A partire dalla risoluzione del problema a passo di ruspe, che per il territorio romano rappresentano tutto fuorché una novità. Qui da noi gli sgomberi forzati venivano praticati già ai tempi in cui Salvini non era che un giovane e irrequieto segretario provinciale della Lega Nord, condannato, ironia della sorte, per lancio di uova nei confronti dell’ex premier Massimo D’Alema. Tra l’ottobre del 1999 a la primavera successiva l’allora sindaco Rutelli diede il via a centinaia di sgomberi generalizzati, e senza soluzioni alloggiative alternative. Viene ricordato dalle cronache come “il giubuleo nero degli zingari”.

Il suo successore, Walter Veltroni, volle fare di meglio. Il 30 ottobre 2007 un giovane rumeno, residente nella piccola baraccopoli di Tor di Quinto, aggredì e uccise Giovanna Reggiani. Due giorni dopo il Consiglio dei Ministri approvò un Decreto Legge contenente “disposizioni urgenti in materia di allontanamento dal territorio nazionale per esigenze di pubblica sicurezza”, una misura che impattava anche con la normativa europea sulla libertà di circolazione dei cittadini neocomunitari. Quel decreto, un anno e mezzo prima del Piano Nomadi, dava al Prefetto il potere di espellere direttamente un cittadino straniero per “motivi imperativi di pubblica sicurezza”. Il giorno successivo il campo abusivo di Tor di Quinto venne raso al suolo dalle ruspe del Comune di Roma, inaugurando una serie di provvedimenti simili, soprattutto sulle sponde del fiume Tevere. Le ragioni propagandistiche dell’ordine pubblico e della sicurezza portarono l’allora sindaco Veltroni a sottolineare pubblicamente come risultato positivo la cifra di circa 5000 Rom sgomberati o “trasferiti” durante il suo primo mandato. Andando oltre la parentesi Alemanno, la tradizione “sinistra” di Rutelli e Veltroni non poteva di certo arrestarsi con Marino: nel 2014 sono stati 34 gli sgomberi forzati, i quali hanno coinvolto oltre 1000 persone. E nel 2015 gli sgomberi di baraccopoli stanno procedendo con una media di due al mese, l’ultimo dei quali ha interessato l’insediamento di Ponte Mammolo, sulla Tiburtina, dove da 10 anni risiedevano eritrei, sudamericani, indiani, ucraini, la maggior parte dei quali ancora oggi senza una nuova sistemazione.

Ma a guardare le molteplici nazionalità di Ponte Mammolo si pone un primo dubbio. Eritrei? Sudamericani? Ma nelle baracche non ci sono solo gli zingari? No. Le baracche e “i campi” non sono una forma “culturale”, ma la forma abitativa della povertà più estrema. Che siano ormai considerate dal senso comune, mediatico e politico, come “campi nomadi” è frutto del pregiudizio e della propaganda. Paradossale e grottesco poi che oggi si scarichino sui rom tutte le problematiche di un modello che non hanno scelto, ma subito. Se in Italia i campi sono abitati soprattutto da rom è per via delle scelte politiche nefaste che, negli anni ’70 e ’80, tendevano a rinchiudere i primi immigrati dall’est nello stereotipo storico dello zingaro nomade, assegnando loro baracche e roulotte in spazi e terreni, sempre più grandi, che venivano “autorizzati” dalle autorità per garantire una presunta valenza culturale senza alcun riscontro nella realtà.

Lo si vede chiaramente nelle Leggi Regionali che furono emanate negli anni ’80 per garantire la “Tutela dell’etnia e la cultura dei nomadi” e che legiferarono sulla strutturazione, il finanziamento e la regolamentazione di quelli che allora venivano chiamati Campi Sosta. Con gli anni ’90 e l’immigrazione generalizzata dall’est Europa che si disgregava, i campi si ingrandirono e le autorità locali risposero, oltre che con gli sgomberi generalizzati dei nuovi insediamenti spontanei, con la costruzione di mega-campi, chiamati “villaggi attrezzati” (o con una tragica retorica “villaggi della solidarietà”) nelle periferie estreme delle città. Decine e decine di ettari recintati, sorvegliati, con fogne mal funzionanti e container prodotti per i cantieri edili ed invece assegnati come case a famiglie anche di 6 o 7 persone. Oggi si calcola che circa 40000 persone vivono tra i villaggi attrezzati e gli insediamenti abusivi. Generazioni, in molti campi siamo alla quarta, cresciute in una vera e propria condizione di apartheid.

Apartheid che ha prodotto due danni enormi a tutta la popolazione romanì italiana. Il primo, evidentemente, è il livello di emarginazione sociale senza uguali nel nostro paese di chi vive dentro i campi. Il secondo è l’affermazione nel senso comune, ma anche nell’informazione di massa e, come abbiamo visto, nella legislazione a diversi livelli, dell’assioma rom-nomadismo-campo applicata a tutta la popolazione romanì.

Questo assioma privo di fondamento va smontato. La decostruzione dello stereotipo è necessaria sui media, nelle amministrazioni pubbliche, ma anche nell’associazionismo “pro-rom” che spesso ricade nello stesso meccanismo e costruisce, accanto allo stereotipo del rom sporco e ladro, quello del rom “figlio del vento”, che ama la libertà e il viaggio. Non è così. Dei 12.000.000 di rom residenti in Europa, solo il 5% ha ancora uno stile di vita non stanziale. Quello che è invece percepito, e propagandato, come nomadismo è frutto dei movimenti stagionali (che è tutt’altra cosa) e delle politiche di sgomberi ed esclusione. Dicono le stime di studiosi e associazioni che in Italia vivono circa 150.000-180.000 rom e romnì. Un numero estremamente esiguo – soprattutto se paragonato ai 650-800.000 in Spagna o ai 280.000 in Francia – che rappresenta secondo le stime più generose lo 0.25% della popolazione residente in Italia. Più o meno quanti i tifosi del Genoa secondo i dati della Lega calcio, quanto i partecipanti ad un concerto degli U2 o del Papa Day a San Pietro. Eppure, ci dice l’Ispo , che la pubblica opinione italiana è convinta si tratti di milioni. Uno degli effetti della scellerata campagna su un’Emergenza che non esiste. Le stesse stime affermano anche che sono circa 40.000 a vivere in condizioni di disagio socio-abitativo, nei campi e nelle baraccopoli. Ed è nella comparazione tra questa minoranza dannata e il resto della comunità che si può facilmente smontare la retorica razzista.

Si perché mentre la grande maggioranza dei rom studia, lavora regolarmente e non presenta alcun legame con presunti aumenti di specificità criminali come ha avuto modo di affermare il Consiglio di Stato smentendo il Governo italiano , la minoranza relegata nei campi vive in condizioni inumane, in cui non sono garantiti i minimi diritti umani. I dati forniti da istituzioni e Ong sono impietosi: il 90% dei residenti nei campi vive al di sotto della soglia di povertà, il 20% vive senza alcuna copertura sanitaria, l’aspettativa di vita risulta essere 10 anni al di sotto della media nazionale (ai livelli di Nicaragua, Vietnam e Bielorussia). In termini di diritti sociali la situazione è anche peggiore. Riguardo la formazione l’accesso all’istruzione superiore riguarda appena l’1%, soglia che si abbassa allo zero per quanto riguarda l’università. Più o meno la stessa possibilità di uno studente italiano non rom di diventare astronauta. Nelle scuole non è inusuale trovare classi paria dove i bambini rom vengono relegati, spesso in risposta al razzismo delle famiglie degli altri alunni, senza garantire loro una regolare istruzione.

In merito all’emergenza abitativa è stata necessaria una sentenza del Tar del Lazio per fare in modo che la popolazione dei campi venisse considerata nelle liste d’assegnazione per l’edilizia popolare, dopo l’esclusione discriminatoria decisa dall’ex sindaco Alemanno. E’ evidente quindi come non sia nella cultura o nell’etnia la causa dell’emergenza, quanto nella povertà estrema, nell’esclusione sociale, nell’assedio mediatico che viene lanciato contro gli ultimi. Un modello non così insolito quello della guerra ai paria, che offre un modello di governance volto a spostare la detestabilità della povertà, di cui sarebbero responsabili la collettività e soprattutto le istituzioni, sul povero. Per questo si alimenta l’odio verso la comunità romanì: per scaricare le responsabilità sociali della città neoliberista e delle inumanità che produce sugli stessi soggetti che la subiscono. La New York di Giuliani, Rio de Janeiro, Città del Messico sono esempi solo geograficamente molto lontani. Ma anche muovendosi nel tempo piuttosto che nello spazio forti analogie possono essere trovate nelle baraccopoli di tante città italiane del secondo ‘900.

La soluzione non può quindi che essere ricercata in un altro modello di città. Una città solidale, accogliente, a disposizione di tutti i suoi abitanti e che ha priorità diverse da quelle del profitto e della rendita privata. Una città in cui le oltre 50mila case invendute non restano vuote dinanzi ad un’emergenza abitativa crescente e che non riguarda di certo solo la comunità rom o migrante. Una città che non si chiede se i rom abbiano anche loro diritto all’esigua edilizia pubblica, ma se per caso non vada messa a disposizione l’edilizia privata per tutti. Oggi la giunta Marino aggiunge una nuova grottesca proposta, da affiancare alla demolizione dei campi. Vogliono casa? Se la costruiscano da soli! Non ci può essere cartina al tornasole migliore di questa per comprendere l’atteggiamento delle istituzioni davanti alla povertà estrema rappresentata dal modello baraccopoli: abbandono, disinteresse, nessuna volontà di impiego di risorse se non quelle destinate a foraggiare il business dell’accoglienza ormai tristemente noto all’opinione pubblica attraverso l’inchiesta di Mafia Capitale.

Il modello della metropoli neoliberale non ha tempo, spazio e risorse per occuparsi degli ultimi. O riescono da soli a trovare una via di fuga o l’alternativa è la gogna pubblica, la persecuzione, l’espulsione. Perché le stirpi condannate alla solitudine ancora oggi non devono avere una seconda possibilità sulla terra.