EUROPA

Brexit, now what?

Dopo la storica sconfitta subita nel voto sull’accordo siglato con l’Unione Europea, ma con la rinnovata fiducia ottenuta dalla Camera, la premier Theresa May si accinge a portare in Parlamento il suo Plan B. Riuscirà a ottenere i voti necessari? Quali alternative? Quali sono le strade praticabili per il Labour di Jeremy Corbyn? Proviamo a dare qualche chiave di lettura e qualche risposta

Nelle puntate precedenti

Il 24 giugno di ormai tre anni fa, il Regno Unito si sveglia basito, scioccato: con il 51,9% dei voti, il Leave ha prevalso sul Remain, contro ogni pronostico e sondaggio dei mesi precedenti, avviando il paese verso l’uscita dall’Unione Europea. Un voto che ha rivelato l’esistenza di profonde fratture all’interno del Regno Unito, in particolare in Inghilterra e in Galles, in base al reddito, al grado di istruzione e al carattere rurale/urbano delle circoscrizioni (indicatori che in Inghilterra sono altamente correlati fra di loro): le parti più impoverite del paese, che più hanno sofferto le misure di austerity imposte dai governi Tory dal 2010 in avanti, hanno votato in massa per l’uscita dall’Europa. Tuttavia, il risultato del referendum è stato anche ampiamente dettato da un razzismo e una islamofobia crescente che hanno potuto esprimersi senza votare un partito apertamente razzista (come ad esempio l’UKIP). Nel paese del politically correct, non è cosa da poco. Questa intolleranza, al tempo latente, si è sprigionata immediatamente nel periodo post referendum, con il quintuplicarsi delle aggressioni a sfondo razziale, religioso o nei confronti della comunità LGBTQIA. Con i dovuti distinguo, è possibile affermare che lo stesso discorso intollerante verso i migranti e sovranista che in Italia ha portato al governo giallo-verde e all’ascesa della Lega di Salvini, nel Regno Unito ha prodotto la Brexit, tanto più che lo slogan cardine della campagna Leave è stato “Let’s take back [the control of] our borders”.

Il risultato del referendum produce un terremoto nel partito conservatore al governo. Le dimissioni a stretto giro del primo ministro Cameron (un vero sprovveduto nell’indire il referendum sulla permanenza nella UE per assorbire i voti dell’UKIP, dando per scontata la vittoria del Remain…) avviano infatti una guerra interna senza esclusioni di colpi, sin dall’indizione del congresso dei Tories per la scelta del nuovo primo ministro. Una serie di candidature fratricide nel campo del Leave conservatore (Michael Gove contro Boris Johnson) consegnano infine la premiership nelle mani di May, che da votante Remain si trova a dover gestire il fardello della Brexit con un partito profondamente diviso proprio sul divorzio dalla UE.

Per svincolarsi da questa guerra interna in cui quotidianamente ministri e parlamentari Tories si contraddicono e si accusano a vicenda di non rispettare il mandato popolare sulla Brexit, May tira fuori il suo coniglio dal cilindro: elezioni anticipate! Forte dei sondaggi che danno infatti il partito Conservatore avanti di oltre 20 punti rispetto al Labour di Corbyn, May spera così di ampliare la sua maggioranza per poter far a meno dei voti di Johnson e nostalgici dell’Impero nell’affaire Brexit. Tuttava, dopo il suidicio politico di Cameron, la capacità di lettura del paese continua a non essere di casa nel partito conservatore, che addirittura perde la maggioranza assoluta alla House of Commons. Complice anche una campagna deludente e inadeguata della premier, il Labour trainato da Jeremy Corbyn colma quasi interamente il distacco iniziale, attestandosi soltanto due punti dietro ai conservatori: per formare il governo, May sigla un patto con il DUP, di fatto gli ex-paramilitari lealisti dell’Irlanda del Nord. Un patto con il diavolo, visto che uno dei punti che ha portato alla bocciatura senza appello dell’accordo la scorsa settimana è proprio l’intricata quanto delicata questione dell’Ulster (è notizia di ieri sera l’esplosione di un’autobomba a Derry…). È l’inizio del processo che porterà all’attuale stallo sulla questione Brexit.

Theresa May prima di negoziare con la Commissione Europea, si vede infatti costretta a trattare con l’ala della cosiddetta Hard Brexit, che vuole recidere qualunque legame con l’Europa dei ventotto meno uno. Una missione che si rivela impossibile. Ben ventotto figure chiave all’interno del governo si dimettono dai rispettivi ruoli nel corso dell’attuale legislatura, la quasi totalità dopo due dei passaggi più significativi per il Governo May: la stesura del Chequers Plan (proposta del governo britannico per le relazioni future con l’UE) e la sigla del Withdrawal Agreement (accordo per l’uscita dall’UE, bocciato drammaticamente la scorsa settimana). Decisamente non un granché per un Governo il cui obiettivo primario è il conseguimento della Brexit.

Si giunge infine all’ultima scena, quasi surreale: mercoledì scorso, il Parlamento, dopo aver soltanto la sera prima respinto nettamente l’accordo (unico frutto del lavoro di May da due anni e mezzo a questa parte) conferma la fiducia alla premier…

 

L’empasse attuale

Sgomberiamo subito il campo da un equivoco colossale: l’accordo che May deve cercare di far approvare dalla House of Commons e successivamente dall’Unione Europea, non è l’accordo per le relazioni future: è l’accordo che sancisce i termini dell’uscita del Regno Unito (definizione del periodo transitorio, pagamenti da onorare, giurisdizione della Corte Europea di Giustizia, diritti dei cittadini UE nel Regno Unito e viceversa, e infine, la soluzione di riserva per l’Irlanda del Nord). Difficilmente sarà possibile definire un accordo sostanzialmente diverso. Si potrà limare di qualche miliardo di sterline l’assegno del divorzio (attualmente pari a 39 miliardi di sterline), ma poco altro. La questione tanto delicata quanto centrale è ovviamente quella riguardante l’Irlanda del Nord. Attualmente, la soluzione di riserva (il cosiddetto backstop) entra in vigore qualora le relazioni future su commercio e immigrazione non consentano il rispetto degli accordi del Venerdì Santo che impongono l’assenza di una frontiera fra le sei contee del Nord e la Repubblica d’Irlanda. Il backstop prevede in tal caso che l’intero Regno Unito continui a far parte dell’Unione Doganale Europea e che l’Irlanda del Nord permanga addirittura nel Mercato Unico, garantendo la libertà di movimento ai cittadini europei. L’uscita dalla soluzione di riserva deve essere concordata fra le parti. L’alternativa a questa opzione irricevibile da quasi la totalità del Parlamento (soprattutto dalla destra più irriducibile) è’ un’annessione di fatto dell’Ulster all’Eire: esattamente come l’attuale backstop, ma con Scozia, Inghilterra e Galles fuori anche dall’Unione Doganale. Uno status speciale ad ampio spettro per l’Irlanda del Nord con annessi dazi doganali e frontiere vere e proprie fra quest’ultima e la Gran Bretagna. È evidente che questa alternativa sarebbe ulteriormente indigesta, non solo al DUP ma a tutti i parlamentari britannici. Nessun altro deal è quindi possibile. Tuttavia, il punto centrale è in realtà un altro: concretamente nessun accordo rischia di avere una maggioranza alla House of Commons. Per due fattori principali: parte dei conservatori vuole un’uscita brusca senza accordo (la famosa No deal Brexit), mentre una consistente fetta dei parlamentari laburisti non vuole proprio uscire dall’Unione Europea. Qualunque tentativo, compreso quello odierno di May, appare quindi destinato a fallire in partenza. Quali sono le altre possibilità? Al giorno d’oggi, per chi scrive non ve ne sono di realmente praticabili, rendendo la situazione attuale un vero e proprio cul de sac. Il No deal non ha nessuna speranza di farcela (per fortuna poiché farebbe piombare l’economia britannica in una spaventosa recessione, con il PIL in caduta libera, -9% secondo la Banca d’Inghilterra). D’altra parte, le elezioni anticipate, fortemente volute da Corbyn, non sembrano essere all’orizzonte data la conferma della fiducia al Governo della scorsa settimana.

L’unica opzione che potrebbe cambiare le carte in tavola (ribaltandola, in realtà) è il People’s Vote, un secondo referendum in cui la scelta dovrebbe essere (il condizionale qui è d’obbligo) fra il No deal e il Remain. Questa strada è, tuttavia, puramente ipotetica per ora, in quanto al momento non c’è una maggioranza in grado di sostenerla in Parlamento.

 

Il Labour

L’opzione di un secondo referendum sta dividendo il Labour. La base (il 72%) spinge affinché il partito abbracci la campagna per ottenere una seconda consultazione popolare, così come gran parte dei deputati vicini a Blair. Corbyn continua invece a sostenere pubblicamente la necessità di elezioni anticipate per consentire al Labour di poter finalmente negoziare con l’Unione Europea dei termini del divorzio che rispettino il voto del referendum e possano far ripartire l’economia.  La contrarietà del leader del Labour riguardo a un secondo referendum non scaturisce unicamente dal suo noto “euroscetticismo anticapitalista” e dall’impossibilità di applicare il suo programma economico (nazionalizzazione dei servizi pubblici, aiuti di stato, partecipazione per legge dei lavoratori agli utili delle imprese e via dicendo) stanti i lacci del mercato unico europeo. La principale preoccupazione del leader del Labour nell’appoggiare un secondo referendum consiste nella perdita (presumibile) del sostegno della popolazione più povera, la cosiddetta working class, terribilmente impoverita da dieci anni di austerity, che nel 2016 ha votato in massa Leave. Questa verosimile emorragia di voti dal blocco sociale storico del partito laburista, oltre a cambiarne significativamente il corpo elettorale (il Labour resta, forse, il solo partito social democratico europeo votato dagli strati meno abbienti della società), rischia concretamente di fare un regalo enorme all’estrema destra, che potrebbe ergersi a baluardo del rispetto della volontà popolare, per giunta contro l’invasione dello straniero. Inoltre, dal punto di vista prettamente elettorale, è bene ricordare che oltre i due terzi dei parlamentari laburisti sono stati eletti in circoscrizioni Leave (nel Regno Unito il sistema elettorale è basato su collegi uninominali a maggioritario secco, first-past-the-post, chi prende più voti vince il seggio) e i seggi in bilico la cui conquista garantirebbe la vittoria elettorale al Labour sono anch’essi tutte circoscrizioni Leave. In altre parole, l’appoggio del Labour a un secondo referendum potrebbe pregiudicare la corsa alla presa di Westminster.

D’altra parte, continuare a intravedere in un nuovo accordo per l’uscita dall’UE lo sblocco della situazione attuale produrrebbe effetti speculari, con una considerevole fuoriuscita di iscritti ed elettori fortemente europeisti (oltre 700.000 persone, non solo laburisti, hanno manifestato a Londra lo scorso ottobre), che hanno reso possibile la straordinaria rimonta elettorale nel corso delle ultime legislative. In sintesi ultima, per Corbyn e il Labour la Brexit è un campo minato: qualunque mossa rischia di vanificare lo straordinario lavoro politico di Corbyn e di Momentum (la corrente che fa capo all’attuale segretario), condannando un Labour più forte e innovativo che mai all’opposizione per chissà quanto tempo.

È opinione di chi scrive che, data la situazione, il Labour dovrebbe prendere una decisione coraggiosa e appoggiare l’indizione di un secondo referendum, nonostante le criticità sopra esposte e nonostante sia in parte fondato il dubbio riguardante la legittimità di un secondo referendum sulla stessa tematica a distanza di soli tre anni. Tuttavia, questa è l’unica strada che potrebbe permettere al Labour di migliorare le condizioni materiali del numero sempre crescente di cittadini che vivono in assoluta povertà, vincere le prossime elezioni e riuscire a implementare il proprio programma di riforme radicali dell’economia britannica. A due condizioni. La prima consiste nell’organizzazione di una campagna per il Remain in cui le proposte di riforma dell’Unione Europea (soprattutto sul piano sociale e sul ruolo dello Stato nell’economia) occupino un posto di rilievo. La seconda è che questa campagna sia fortemente incentrata sulla rivendicazione della libertà di movimento, in linea con l’internazionalismo che ha sempre contraddistinto Corbyn in tutta la sua storia politica. Questa posizione sull’immigrazione, oltre a costituire, finalmente, una boccata d’aria a livello continentale (e mondiale) da contrapporre alla propaganda sovranista xenofoba, potrebbe essere la chiave per fermare la potenziale emorragia di voti laburisti della working class verso formazioni di estrema destra e portare Corbyn, un socialista, alla guida del paese di Sua Maestà.