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“Big Little Lies”, il #Metoo e la serialità televisiva

Torna il 9 giugno negli Usa la mini-serie fenomeno HBO, “Big Little Lies” e su Sky in esclusiva per l’Italia dal 18 giugno. Tra bullismo, sex-work, machismo e crisi del maschile, la serie racconta la forza della solidarietà tra donne contro gli abusi e le molestie

Big Little Lies è una serie HBO che forse è passata un po’ in sordina qui in Italia. Basata sul romanzo Piccole grandi bugie di Liane Moriarty, è stata pensata inizialmente come miniserie di 7 puntate, ma visto il successo di pubblico e critica è stata creata una nuova stagione a cui si è aggiunta la grande Meryl Streep. Un format sempre più in voga, questo della breve serialità, nell’epoca dell’offerta compulsiva e bulimica delle centinaia e centinaia di serie tv in circolazione, dai canali via cavo alle piattaforme on demand e non solo. Dove il consumo diventa compulsivo, il cosiddetto binge watching.

Questa serie, creata da David E. Kelley  – Ally McBeal– e che ha visto nella prima stagione la regia di Jean Marc Vallée, – Dallas Buyers Club– è diventata un piccolo fenomeno. L’anno scorso ha fatto incetta di premi: Emmy, Screen Actors Guild Award e ai Golden Globe ha vinto i premi più importanti. Una serie che ha anticipato sul mezzo televisivo il tema delle molestie sessuali e del ricatto asimmetrico di potere, addirittura prima dell’ondata #MeToo che ha travolto il mondo dell’entertainment l’anno scorso e che è stata, insieme al movimento Time’s Up, al centro anche della 75ma edizione dei Golden Globes.

 

 

Serie che leggono e anticipano la realtà. Ne hanno fatta di strada, queste serie tv, dagli anni ’60 in poi, da tappa buchi concepite per intervallare gli spot in televisione, con puntate senza archi narrativi, con il classico schema in tre atti (problema-sviluppo-soluzione) che si risolveva in ogni puntata – pensiamo al Tenente Colombo, Starsky & Hutch– agli anni ’80 in cui si capisce il potenziale commerciale delle serie che servono a fidelizzare(sempre per buttarci in mezzo la pubblicità, of course)– Hill Street Blues– e si ibridano con il modello delle soap opera  – Dallas, Dynasty– dove accanto a una linea verticale narrativa, si sviluppa quella orizzontale tra personaggi e contesto. Poi arrivano gli anni ’90, il cinema autoriale entra nello schermo televisivo – David Lynch porta il suo mondo trascendente in Twin Peaks– il linguaggio si adegua alla realtà –– E.R. – e la struttura narrativa si piega al tema della serie, che, guardando agli archetipi del dramma shakespeariano (quante serie ci ricordano nell’inconscio Amleto, Macbeth?), ne prende in prestito la struttura. Per poi arrivare alla fine degli anni ’90 con una serie ancora attuale ed efficace, perché mette al centro assoluto protagoniste femminili, legate da una solida amicizia – Sex and the city– e che, non fatevi ingannare da tacchi, location, lustrini, sesso in tutte le sue varianti – ha al centro un tema e una rivendicazione femminista senza tempo: per essere felice, una donna ha davvero bisogno di un uomo accanto? La serie ci offre tre punti di vista – le mitiche Samantha, Miranda e Charlotte – tre risposte diverse a questa domanda, più la Carrie che è in noi. E noi entriamo nelle loro vite, mentre questi personaggi entrano nelle nostre.

Anche Big Little Lies ha al suo centro protagoniste femminili, che parlano e si muovono come noi, senza nessun filtro – la strada su questo l’ha spalancata nel bene e nel male Shonda Rhimes – e che sviluppano, pur molto diverse tra loro, una solidarietà che le salverà, ciascuna a modo suo. Eppure qui il tema non è la ricerca della felicità della donna indipendente degli anni ’90, ma la sua messa in crisi da un sistema patriarcale consolidato dai secoli e non intaccato nemmeno nello scenario più idilliaco che si può immaginare.

Dall’episodio di bullismo alla violenza domestica, il tema della sopraffazione maschile sulle donne, viene portato avanti come un sottile filo rosso che collega tutti i sette episodi, tra le immagini patinate di bei vestiti, tacchi, bicchieri di vino sorseggiati guardando l’Oceano.

Il teaser iniziale della prima serie, inizia con una persona morta che sapremo solo nell’ultima puntata chi sarà. Il “crimine” avvenuto durante un party benefit californiano in maschera con a tema due sole icone pop: Audrey Hepburn e Elvis Presley. Ma il crime non è la linea narrativa più importante e, anzi, è proprio quella che funziona meno. Ci interessa relativamente poco lo stratagemma del giallo deduttivo (whodunit), tanto più che si arriva a una formula incrociata da reality-show con genitori e impiegati della scuola che rivelano il finale frammentandone i pezzi, come fossero post sui social.

 

 

Apprendiamo tramite flashforward gli avanzamenti dell’indagine da parte di una detective zelante che cercherà di ripercorrere, a partire dalle testimonianze delle classiche “figure di contorno”, cosa si cela dietro una piccola comunità privilegiata. Non il Dale Cooper di Twin Peaks che cerca di entrarvi al suo interno, né la giornalista-investigatrice di Sharp Objects che ne era già parte – altra miniserie HBO 2018, sempre diretta da Jean-Marc Vallée. Un personaggio quasi muto, la detective di Big Little Lies, con un accendino alla mano in ogni scena, che strofina e fa tintinnare senza quasi mai farlo accendere. La location della serie – diversa da quella del romanzo ambientato a Sydney – è Monterey, cittadina stile coloniale sull’Oceano Pacifico, famosa per l’ambientazione di molti romanzi di John Steinbeck e per uno dei primi festival pop (1967).

Tra mega ville high-tech sull’Oceano, gentrification che ha trasformato localetti di pescatori in ristori food alla moda per hipster, qui in questo mini paradiso semi-artificiale, ci vive una fetta dei lavoratori nelle corporation tecnologiche, manager di fondi speculativi, avvocati famosi, enfant prodige dell’arte in fuga dalla metropoli, web designer di livello, ecc. Tutt* fanno yoga e mangiano veggie, i bambini vanno dal terapeuta, i ricchi portano i figli nella scuola pubblica che è talmente altolocata, da essere più in di quelle costosissime private. Sì, perché qui non siamo in una cittadina del Midwest americano o del Profondo Sud. Qui sono tutti progressisti e ogni tipo di diversity razziale, sessuale e relazionale che si discosta dal modello familiare etero-patriarcale è già sussunta e inglobata nella ricca comunità, tranne “ovviamente”, la povertà.

E infatti a scombinare il tutto, l’arrivo di Jane, una giovane precaria della working-class con figlio a carico che va alla stessa scuola pubblica dei figli dei super ricchi. E lì la diversità di classe inizia a mandare in crisi la parvenza democratica della cittadina, soprattutto dopo un episodio di bullismo a scuola di cui viene accusato proprio suo figlio, l’alieno di nome e “di fatto”, Ziggy. I bambini che vivono nella cittadina sono dei piccoli adulti, davvero precoci che riproducono nel loro microcosmo i comportamenti dei genitori, anche quelli più terribili. La serie, allora, affronta molti argomenti attuali: il bullismo, il sex work, il machismo e la fragilità del maschile. Big Little Lies è come una matrioska: ogni sequenza permette di svelare una situazione più piccola rinchiusa in quella più grande, grattando la superficie degli eventi con un registro quasi ipnotico.

Parliamo dello straordinario cast. Mentre in passato le star apparivano come special guest star in tv, oggi sono sempre più protagoniste del piccolo schermo – e addirittura, come in questo caso, anche produttrici – cosa che, talvolta, permette loro interpretazioni migliori di quelle per il cinema e la grande distribuzione, dominata dai blockbuster. Queste attrici protagoniste sono davvero incredibili e raramente le interpretazioni in tv sono riuscite ad emozionare così. Reese Witherspoon è una Madeleine cinica, ma sempre pronta a intraprendere mille battaglie sociali contro l’injustice e le ipocrisie dell’american way of life. Riesce nell’impresa incredibile di farti empatizzare con l’evoluzione del suo personaggio antipatico di queen bee della comunità, tra Legally Blonde, Electione Vanity Fair.

 

 

Con la Celeste di Nicole Kidman una delle interpretazioni migliori della sua carriera, da molto tempo a oggi – entriamo nella casa perfetta e all’interno di “una coppia perfetta”, avvolta in una filter bubble dorata e inaccessibile. Assistiamo impotenti all’escalation della violenza domestica che colpisce psicologicamente anche noi. Una violenza che appare lentamente con gesti, sguardi e parole della quotidianità. Il suo dolore di donna – ex-avvocata di successo che ha lasciato il lavoro per la famiglia – che rifiuta l’evidente violenza su di sé, per non doverne considerare l’aspetto della vittimità e che cerca di proteggere i suoi figli è cosi palpabile che sopportarlo è difficile.Le scene sono così intense che anche noi siamo in apnea con lei e difficilmente riusciamo a risalire.

Siamo con lei anche nella seduta inizialmente di coppia e poi da sola, sedut* davanti alla terapeuta. Il suo è il volto di una verità universale e trasversale, il volto delle donne intrappolate dal ricatto della violenza economica e dai rapporti di potere che le rinchiudono in una gabbia domestica lacerante nel corpo e nello spirito. Ma la “dolce” Celeste non sarà debole epersino complice, come la si vorrebbe, anche perché non sarà sola.

Laura Dern è la manager senza scrupoli di una multinazionale, che ricorda un po’ nelle movenze la madre di lei, Diane Ladd, nel lynchiano Wild at heart e che si aggira per la comunità, come se dovesse conquistare il Trono di Spade, ma non riesce a capire la sua timida bambina tormentata a scuola. La Shailene Woodley di Divergentè davvero intensa nel mostrare la vita dopo uno stupro mai raccontato a nessun*, con quei flashback che tolgono il fiato. È bloccata Jane, anche se corre, corre continuamente per tutte le puntate, bloccata nel ricordo asfissiante di una notte terribile, che la porta alla casa da dove è fuggita dopo la violenza.

La bellissima Zoe Kravitz interpreta la sensuale Bonnie, nuova moglie più giovane dell’ex-marito di Madeleine, impegnata in cause umanitarie e che tanto affascina la figlia adolescente di quest’ultima. Un personaggio un po’ freak, che rappresenta una figura armonica e zen quasi eccessiva, ma rompe un po’ il classico stereotipo molto lontano dalla realtà, che spesso si vede nella fiction e nella vulgata narrativa mainstream, per cui sensibilità e dolcezza sono sinonimi di debolezza.

La solidarietà e l’alleanza intersezionale che si instaura tra queste donne così diverse, sarà la loro forza e l’elemento letteralmente dirompente, come le onde dell’Oceano – qui protagonista di molte scene – che continuano a infrangersi da millenni e a scavare la roccia. Big Little Lies racconta una storia di donne vittime di quegli abusi, molestie e violenze che arrivano anche negli (apparenti) paradisi progressisti e che esorta ad alzarsi in piedi e a reagire unite. In fondo è stato questo il claim del #MeToo, diventato #WeToogheter nelle mobilitazioni femministe in tutto il mondo.