ROMA

Bella storia #2. L’Eritrea e quel che resta dell’Impero italiano

La seconda lezione del festival “Bella Storia” si è svolta in un locale eritreo “La taverna del Mossob”, situato su via Prenestina, dove l’antropologo Osvaldo Costantini ha proposto un tema di discussione, quello della storia dell’Eritrea che, seppur a molti sconosciuta, è legata a doppio filo al passato e al presente dell’Italia: a partire dalle vicende coloniali o ai presenti interessi sul Corno d’Africa, fino al tema sempre attuale dei processi migratori.

Giovedì 14 marzo si è tenuta la seconda lezione di “Bella Storia” in un ristorante eritreo a pochi metri dall’ingresso della Tangenziale Est e il Pigneto. Il luogo prescelto, “La Taverna del Mossob”, venne aperto nel 1999 da Gino Manganelli, un eritreo con cittadinanza italiana, figlio di un italiano traferitosi ad Asmara nel ’36 per essere impiegato nelle compagnie coloniali presenti sul territorio eritreo. Gino arrivò a Roma nel 72, sospeso tra due identità: un giovane migrante eritreo in cerca di lavoro in Italia ma di sangue italiano, ereditato da un padre testimone diretto degli anni del colonialismo.

Il relatore della lezione, l’antropologo Osvaldo Costantini, ha scelto questo luogo per proporre una ricostruzione storica dei momenti cruciali delle vicende del Corno d’Africa, a partire dal 1869, anno in cui, dopo l’apertura del canale di Suez, la presenza italiana irruppe nell’area con varie forme di dominazione.

Il tema della nascita e dello sviluppo del colonialismo nell’area, come anche lo stesso immaginario simbolico dell’Eritrea e dell’Etiopia, rappresenta per diversi fattori un argomento d’interesse internazionale, che chiama in causa un’analisi necessaria sulla natura dei regimi sorti dal processo di decolonizzazione. La lezione si è sviluppata, infatti, su diversi livelli, che toccano tanto il piano simbolico-culturale, quanto nazionale e geopolitico. Per tale vastità discorsiva, essa non può esimersi dall’implicare le responsabilità della cultura politica europea, in particolare italiana, legata a doppio filo all’Eritrea per due temi ben chiari: da una parte la definizione e la diffusione dei pregiudizi e delle politiche razziali; dall’altra un approccio culturale infantilizzante e talvolta paternalistico nei confronti delle popolazioni extraeuropee. In qualche modo la lezione in questione è stata un invito a riflettere sul nostro passato coloniale e sulle sue molteplici rappresentazioni passate e presenti.

La vicenda dell’Eritrea è, inoltre, legata allo scenario migratorio degli ultimi anni. Uno dei casi, tra i più noti, è quello della nave Diciotti, bloccata nello scorso agosto al porto di Catania per volontà del Ministro dell’Interno Matteo Salvini, nave sulla quale la quasi totalità delle donne e degli uomini salvati erano d’origine eritrea.

Solo un anno prima, la città di Roma è stata teatro di uno degli sgomberi più brutali degli ultimi anni: quello di palazzo Curtatone, lo stabile su piazza Indipendenza in cui centinaia di etiopi ed eritrei avevano trovato casa, molti con il permesso di soggiorno e con i figli che frequentavano le scuole vicine, e in seguito abbandonati in strada in assenza di una soluzione alloggiativa realmente risolutiva. Senza affrontare il discorso specifico delle logiche burocratiche italiane ed europee che dispongono la legittimità dell’accoglienza attraverso distinzioni categoriali tra richiedenti asilo, migranti economici o irregolari, si pone la necessità di comprendere le forze centrifughe delle migrazioni. L’obiettivo della lezione del festival era infatti ripercorrere le tappe specifiche di un piccolo Stato le cui vicende non rimangono a noi legate solo da un passato definito “storico”, ma ancora delineano il nostro modo di condividere il territorio e di rievocare quel passato con azioni individuali e collettive.

Sulla scia anche di una nuova pace siglata tra Eritrea ed Etiopia, Costantini riporta con molta precisione una situazione da anni sospesa in uno stato intermedio tra pace e guerra. Uno Stato nazionale, quello eritreo, creato artificialmente dal colonialismo italiano nel 1890 e annesso allo Stato Federale Etiopico nel 1950, fino alla creazione del Fronte Popolare di Liberazione che ha condotto all’indipendenza del 1991, dopo trent’anni di lotta, trasformandosi poi in partito di governo nel 1994. Successivamente, la guerra contro l’Etiopia nel 1998-2000, iniziata per una questione territoriale e finita con lo schieramento delle truppe ONU al confine, ha determinato la sconfitta non solo della possibilità di una stabilità nell’area ma anche del sogno rivoluzionario che aveva entusiasmato non solo l’immaginario eritreo ma anche quello della sinistra internazionale. Negli anni di lotta di liberazione, le azioni dei combattenti eritrei, soprattutto del Fronte Popolare di Liberazione, si accompagnavano a speranze e aspirazioni rivoluzionarie che si inserivano nella cornice ideologica resistenziale, in una prospettiva anti-imperialista e anti-colonialista che, radicata nelle masse, avrebbe condotto ad una dimensione esemplare di radicalismo ed emancipazione.

 

 

È proprio durante la guerra d’indipendenza che gli eritrei cominciarono a migrare verso l’Italia come lavoratori e studenti, in prevalenza donne che venivano impiegate nei servizi domestici. Questa prima ondata di migranti ha costruito una comunità diasporica che sosteneva fortemente i guerriglieri che lottavano per liberare il paese. La seconda ondata di rifugiati si sviluppa a partire dalla metà degli anni 2000 e giunge in Italia attraversando il Mediterraneo: sono “i richiedenti asilo”, una nuova generazione che è andata a mescolarsi con gli altri protagonisti della cosiddetta “crisi migratoria”.

A sua volta per l’Etiopia la questione con l’Eritrea, spiega Costantini, è ben più di un fattore territoriale: l’Eritrea rappresenta l’unico possibile accesso al mare e alle sue risorse. A ciò si lega un aspetto simbolico che è alla base delle ideologie nazionaliste dei due Paesi e che ha profondamente a che fare con il lascito coloniale italiano: l’Eritrea è storicamente parte dell’Etiopia per i nazionalisti etiopici, mentre, a sua volta, l’Eritrea è storicamente indipendente per i nazionalisti eritrei. Nonostante i vari posizionamenti ideologici, viene spiegato dal relatore come entrambe le affermazioni, da un punto di vista storico e geografico, siano vere e false allo stesso tempo: l’Eritrea, per come si mostra attualmente, non esisteva prima del colonialismo italiano, che fu artefice dell’incorporazione delle diverse province e delle varie popolazioni sotto un unico potere centrale. Nel periodo coloniale, soprattutto nel Novecento, si creò un’ideologia eritrea unitaria basata su una produzione identitaria di differenziazione con gli etiopici incoraggiata anche dal reclutamento bellico dell’esercito italiano nell’invasione dell’Etiopia. Tutt’oggi l’idea dell’indipendenza e della differenza tra le due popolazione domina il discorso nazionalistico eritreo.

Ad oggi, conclude Costantini, il partito al potere in Eritrea è il Fronte Popolare, che, nel 1994 cambiò nome in PFDJ (People’s Front for Democracy and Justice). Il partito conserva quell’identità guerrigliera della lotta di liberazione, che è ancora l’unica sua fonte di legittimazione. Nella disposizione delle politiche nazionali, l’Eritrea vede il dispiegarsi di una rigida repressione di ogni forma di dissenso, la leva militare di fatto illimitata, i lavori forzati, gli arresti arbitrari hanno creato un’aura di terrore intorno alla vita quotidiana degli uomini e delle donne d’Eritrea.

Nel frattempo il carattere coloniale della politica estera italiana non è solo una dimensione evocativa ma è di fatto persistente e tutt’altro che confinato nel passato, quando le armi chimiche mietevano vittime tra gli etiopi o ragazze minorenni abissine venivano rese schiave sessuali da uomini italiani, vedi il caso Indro Montanelli. Allo stesso tempo le pulsioni coloniali non si fermano al Corno d’Africa: le multinazionali italiane sono attualmente in possesso di oltre 800mila ettari di terre africane e  l’accaparramento di terre, o land grabbing, rappresenta la pratica forse più affine a quelle del colonialismo classico, che, tramite vari supporti legali e finanziari, permette l’acquisizione dei terreni portando all’espulsione di piccoli produttori e comunità indigene cui non vengono riconosciuti i diritti consuetudinari di accesso alla terra. Contemporaneamente, mentre il dettame governativo è “chiudere i porti” ai migranti, molto spesso si ignora la fetta di responsabilità italiana sui flussi migratori dall’Eritrea, che non sono ancorati al passato coloniale ma si sviluppano sotto forma di rapporti diplomatici ed economici e patti bilaterali. Vengono citati alcuni casi, tra cui quello di Piergianni Prosperini, ex esponente di Lega e di Alleanza Nazionale, assessore regionale lombardo nella giunta Formigoni, che nell’aprile 2015 è stato condannato a 4 anni per traffico illegale di armi verso l’Eritrea; l’inchiesta di Fabrizio Gatti e Claudio Pappaiano (“Espresso” del 2009), dove si raccontano i rapporti dell’imprenditoria italiana, sotto il governo Berlusconi, con il Presidente Issaias Afewerki, il quale si mostrava soddisfatto dei respingimenti dei rifugiati eritrei verso la Libia, luogo nel quale poteva controllarli. Le nuove generazioni eritree sono, quindi, incastrate tra i bisogni di esistenza pacifica, i desideri di accesso a un mondo occidentale di successo e consumi e un presente politico congelato nell’ideologia rivoluzionaria che ha condotto alla liberazione dall’Etiopia nel 1991.

Sotto molti aspetti, fare luce sui secoli di colonialismo ci permette di prendere una misura dell’evoluzione geografica e politica del continente africano, ma soprattutto svela la porzione di responsabilità italiana, che non si dispiega soltanto nei residui coloniali materiali e non si mostra solo nei rapporti diplomatici ed economici tra governo Italiano e il regime di Issaias Afewerki. A fronte di un persistente “eurocentrismo” del mercato mondiale, la fase attuale ci impone di riconoscere gli atti di colonialità (per dirla con Quijano e Dussel) e la loro continuità storica, soprattutto avvedendosi di come essi non si fermino esclusivamente all’estrazione di risorse. Il processo di decolonizzazione non ha dissolto ciò che resta della colonia a livello percettivo, immaginifico e relazionale, riproducendo una dimensione cognitiva che riedita la dominazione e la subalternità: i residui coloniali sono tanto presenti nello sfruttamento delle materie prime, quanto nella militarizzazione dei confini esterni, nella segregazione razziale delle nostre città, nel razzismo culturale e nelle discriminazioni sessuali e di genere. Ancor più pericolosa è invece quella colonizzazione dell’immaginario, maturata da un preciso criterio geografico (l’Europa) e fenotipico (l’uomo bianco) che definisce un’implicita politica di dominazione attraverso gli occhi coloniali con cui guardiamo lo straniero: ora vittima, ora esotico, ora terrorista.

 

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