approfondimenti

MOVIMENTO

Sulle violenze di genere negli ambienti militanti

Nota delle traduttrici

Il seguente testo è un estratto dell’articolo pubblicato in lingua francese sul sito di Anker-mag, luogo fisico e virtuale di dibattito e analisi delle lotte sociali nel territorio di Bruxelles. Abbiamo scelto di pubblicare una traduzione “sintetica” dell’articolo. Scelta dettata, oltre che dall’estrema lunghezza del pezzo originale, dalla volontà di condividere una riflessione che, se a tratti può risultare scivolosa o controversa, ha il merito di aprire un dibattito su alcuni aspetti delle pratiche militanti e/o femministe. In particolare, il capitolo “La concezione di spazio safe e la postura della vittima” ci interroga sia su una dimensione, ovvero  quella fisica di corpi, identità e desideri che si mescolano nello spazio, sia su un concetto, quello espresso dal termine “safe”, i cui tentativi di declinazione e messa in pratica si moltiplicano. Dati questi presupposti auspichiamo una lettura del testo che non si concentri necessariamente sul singolo termine, ma che si sforzi di cogliere gli elementi di rottura rispetto alle posizioni dominanti all’interno degli spazi sociali e alle procedure assunte di fronte a episodi di violenza di genere. Di fronte alla necessità di trovare le risposte ai numerosi interrogativi posti nelle righe che seguono, non possiamo che auspicare lo sviluppo di un dibattito che oltrepassi le frontiere. 

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Approccio alle violenze di genere negli ambienti militanti: perché abbiamo diritto al dibattito

Militanti femministe dei luoghi autogestiti,  noi siamo spettatrici e attrici delle risposte date dai nostri gruppi ai casi di violenza di genere. Di fronte alla crescente depoliticizzazione di questi temi, che rende tali questioni difficili da affrontare persino in discussioni non miste, noi difendiamo qui la possibilità di discutere collettivamente dei nostri meccanismi di difesa.

In primo luogo esporremo gli effetti perversi del dogmatismo e delle politiche dell’identità sulle nostre lotte per poi individuare i limiti del concetto di spazio safe. Mostreremo, in seguito, in cosa queste questioni hanno delle implicazioni filosofiche che oltrepassano i confini di questo articolo, per approdare finalmente a delle possibili soluzioni.

Come il dogmatismo e le politiche d’identità depoliticizzano le nostre lotte

Oggi più che mai è tempo di denunciare le violenze di genere e di farlo in ogni contesto. Contrariamente ad altri ambienti, negli spazi autogestiti abbiamo la possibilità di decidere direttamente le conseguenze e le implicazioni di queste denunce sul nostro modo di organizzarci. Le risposte date dai collettivi in prevenzione o in seguito alle denunce sono tanto diverse quanto lo possono essere le denunce stesse, se non di più visto che non tutte le assemblee fanno la scelta di applicare delle procedure standardizzate, ma piuttosto scelgono di reagire caso per caso. Infatti, nonostante alcune interpretazioni e applicazioni di un fantomatico “vademecum femminista”, non esiste una reazione giusta e universale davanti a queste violenze.

Esisterebbe così una linea accettabile di femminismo: trans-inclusivo, pro-sexwork, intersezionale. Non rimettiamo qui in discussione questi posizionamenti, ma la loro edificazione in dogmi. Questa ha in effetti la conseguenza di eliminare facilmente qualsiasi tentativo di discussione politica a proposito di problematiche di genere.

Negli ambienti militanti la griglia di lettura intersezionale, utile per smascherare i meccanismi di dominazione, può avere degli effetti perversi dal momento in cui rimane agganciata al neoliberalismo circostante. In questo senso conduce a un’individualizzazione dell’esperienza così che  ciascuna si ritrovi vittima di un’articolazione unica di oppressioni. Questa particolare situazione di oppressione finisce per diventare l’identità stessa della persona, che lei presenterà a se stessa e agli altri come l’alpha e l’omega del suo posizionamento politico. Noi crediamo che queste politiche dell’identità siano riduttive e finiscano per ostacolare la discussione, senza che nessuna possa condividere lo schema di comprensione della sua compagna. In un articolo per la rivista Historical Materialism, Chi-Chi Shi, politologa e sociologa, si chiede se “la sofferenza individuale (e collettiva) è un criterio politico”. La sociologa ritiene che l’interiorizzazione del neoliberalismo si declini in una sempre maggiore individualizzazione dei soggetti e che questo avvenga a spese di dinamiche collettive; parallelamente nelle “politiche contemporanee dell’identità si dà una depoliticizzazione  della lotta, che definisce l’oppressione come soggettiva e individuale”. Senza cancellare le differenze e i rapporti di potere alla base di un gruppo, concentriamoci piuttosto su ciò che ci accomuna in quanto femministe.

Le nostre oppressioni sono sistemiche e dobbiamo dunque collettivamente pensarle e lottare contro esse. Questo implica creare degli spazi predisposti al dibattito, in cui non è più il vissuto individuale o collettivo di una sofferenza a essere criterio di legittimità nella discussione, ma la volontà di darsi degli strumenti di lotta comuni contro le nostre oppressioni comuni. Siamo tutte legittime nella discussione perché siamo tutte potenziali vittime di violenze o abbiamo già subito la violenta manifestazione del sistema che insieme denunciamo.

Lo spazio safe e la postura della vittima:  un abbandono alla vulnerabilità?

Il dogmatismo e le politiche dell’identità non sono i soli ostacoli al dibattito femminista. La nozione di spazio safe e la postura della vittima sono altri due ostacoli alla riflessione collettiva che come risultato ci assegnano alla vulnerabilità.

Gli spazi safe, che hanno da prima fatto la loro apparizione on line, hanno come obiettivo principale “l’eliminazione della violenza nelle interazioni tra i membri; in particolare quelli appartenenti a gruppi sociali marginalizzati dalla società”. Questa eliminazione è tutta relativa visti i ripetuti casi in cui membri si accaniscono contro altri membri le cui dichiarazioni interno sono ritenute “problematiche” rispetto al regolamento interno. Più sottilmente, come sottolinea Fania Noël,  la dominazione di classe è particolarmente acuta in quegli spazi la cui accessibilità è vincolata  all’acquisizione di codici e vocabolario. “Essere al sicuro è un concetto estremamente personale” ricorda, proprio come il carattere “scioccante” delle parole o degli atteggiamenti dai quali lo spazio safe cerca di proteggerci. Ci piacerebbe ridefinire lo spazio safe come un luogo in cui la nostra cura e la nostra capacità di ascoltarci e di difenderci le une con le altre si possano affermare, e non come uno spazio totalmente spogliato dai rapporti di potere e di violenza. Juliette Rousseau riferisce dell’utilizzo da parte di diversi gruppi del termine “safer space”, spazio più sicuro, “che ha il merito di  ricordare la dimensione dinamica (e non acquisita) necessaria alla creazione di spazi meno oppressivi” .

Al di là dell’incapacità di questo dispositivo di eliminare la violenza e i rapporti di dominio e malgrado le intenzioni iniziali secondo noi lodevoli, questa ricerca di sicurezza ha delle conseguenze sulle nostre forze di resistenza individuale e collettiva. Volendo isolarci dalla violenza, questo concetto di safe applicato a tutti i nostri spazi politici non ci serve davanti a un mondo che ci è ostile. Le esperienze e i vissuti delle nostre compagne sono violente e dobbiamo avere la possibilità di conoscerle. Le assemblee miste di generi e di etnie esistono così che il nostro sentire, le nostre storie e le nostre discussioni politiche non ruotino attorno a parole dominanti e trovino uno spazio d’espressione e di contaminazione. Non priviamoci di questo spazio, è vitale.

Non si tratta qui di accusare le vittime di aggressioni di una mancanza di reazione difensiva, ma di affermare la necessità di prepararsi collettivamente a questa violenza, di farci forza tra noi per poter emergere meglio armate dai nostri spazi. Dobbiamo poter parlare delle violenze se vogliamo proteggerci da queste e combatterle. E per citare Bell Hooks: “un combattimento è raramente sicuro e piacevole”.

La cristallizzazione della sofferenza in quanto identità ci mantiene nella postura di vittime. Adottando questa postura di fronte a un mondo che denigra la debolezza siamo portate a valorizzare la nostra vulnerabilità, ma anche ad abbandonarci ad essa.

Adottare la postura di vittima senza mettere in discussione la posta in gioco significa rischiare di non autorizzarci altro che dei comportamenti corrispondenti agli stereotipi di genere.

Criticare l’abbandono alla vulnerabilità non equivale a incolpare il carattere vulnerabile di una persona né a rifiutare  le qualità umane associate dal sistema patriarcale alla debolezza. Queste qualità promosse dagli spazi safe come la sensibilità, la cura o l’ascolto, alle quale le donne sono socializzate, sono da valorizzare. Derise o denigrate, esse sono fondamentali per la coesione della nostra collettività e devono urgentemente essere redistribuite tra i  generi. Questa necessaria rivalorizzazione deve però guardarsi dal limitarci a priori a questo tipo di comportamenti. Una vittima di violenza non si sente sistematicamente vittima per quello che le è stato inflitto. Qualsiasi sia la maniera in cui la persona vive la violenza, il gruppo deve porsi l’obiettivo di darle forza e darsi forza collettivamente.

Il modo in cui noi decidiamo di rispondere alle violenze di genere che si verificano nei nostri gruppi è estremamente politico. Si tratta di spazi dove ci offriamo la libertà di autogestire le nostre relazioni interpersonali e i rapporti di potere che implicano. Questa libertà collettiva si accompagna a una responsabilità, cioè quella di pensare le relazioni che noi vogliamo intrattenere in questi gruppi. Per riflettere insieme su questi temi, dobbiamo avere l’opportunità di discuterne politicamente senza che questo dibattito sia messo a tacere proprio in quanto “problematico”.

Implicazioni filosofiche: della giustizia e della radicalità

Le risposte che diamo alle violenze hanno una forte responsabilità politica, in particolare quella di riprodurre o meno la giustizia borghese. In quanto militanti, dovremmo prendere posizione sul tipo di giustizia che vorremmo vedere nella società che cerchiamo di costruire. Questo al fine di potervi articolare le nostre pratiche, vale a dire di applicare quei principi che riflettono la nostra società ideale nei nostri spazi di vita o militanza. Vogliamo una giustizia punitiva per dissuadere e vendicarsi? Una giustizia riabilitativa per “guarire”?  Un giustizia riparatrice per tentare di arginare il danno? La necessità di posizionarsi collettivamente può sembrare un’idea remota, ma come mostra il dibattito suscitato nei gruppi anarchici dall’esecuzione di uno spacciatore nel quartiere di Exarchia, a Atene, è più che necessaria.

Inoltre, possiamo chiederci se si debba distinguere gli aggressori “interni” dagli aggressori “esterni”. Nel primo caso, la loro partecipazione a un collettivo implica l’accettazione di regole di giustizia decise collettivamente, posto che quest’ultime esistano. Nel caso in cui gli aggressori siano esterni, e in assenza di reattività della giustizia istituzionale (sappiamo che la maggior parte dei violentatori resta impunita), potremmo considerare l’auto-giustizia una risposta appropriata. Ma vogliamo instaurare delle dinamiche vendicative che non implichino l’accusato nel processo di giustizia, all’interno dei nostri stessi gruppi?

Riguardo le implicazioni più  ampie dell’educazione riparatrice, noi condividiamo l’analisi di Juliette Rousseau, che nel suo libro “Lottare insieme” presenta  la necessità di un lavoro collettivo a lungo termine se vogliamo  riuscire a trasformare le nostre condizioni:

Se delle dinamiche oppressive continuano a manifestarsi negli spazi autogestiti, questo significa soprattutto che sono profondamente radicate tanto nella dimensione individuale quanto in quella collettiva e che fare comunità a partire da esse e nella volontà di superarle non può essere altro che un processo lungo. Soprattutto è un processo collettivo. La logica d’individualizzazione che agisce in numerosi spazi di lotta, che consiste a indicare una persona come oppressiva non nell’obiettivo di portarla a cambiare, ma più spesso nell’intento di escluderla (cosa che può essere comprensibile), crea più difficilmente un sentimento d’appartenenza collettiva e ancora meno la possibilità di una trasformazione. Perché è proprio di questo di cui si parla alla fine: creare una potenza trasformatrice che abbia la capacità di smuovere le nostre soggettività oppresssive/oppresse.”

L’opposizione tra esclusione e educazione ci porta a un’altra questione, che è quella del carattere più o meno radicale di queste posizioni sulla scala del femminismo militante. Non crediamo che escludere sistematicamente qualsiasi aggressore dall’integrità dei nostri ambienti sia una scelta più radicale rispetto a quella di considerare singolarmente ogni situazione particolare, rimanendo in ascolto verso i bisogni della vittima ma essendo anche disposte a mettere in campo degli strumenti che permettano all’aggressore di confrontarsi con quanto ha fatto. Se essere radicali significa trattare un problema alla radice, allora non è allontanandosene ma piuttosto applicando dei procedimenti meno standardizzati che si è più radicali.

Un’altra dimensione da discutere è quella della distinzione da fare (o no) tra la o le persone che accusano e la o le persone che emettono un giudizio. Fino a dove possiamo permettere alla sola vittima di decidere quali sono le misure, valide anche collettivamente, da prendere e a partire da quando la decisione diventa di competenza del collettivo? Cosa implica che la vittima sia al tempo stesso giudice e parte in causa?

Non pretendiamo di avere la risposta a tutte queste questioni, ma vorremmo ricordare la necessità – e l’urgenza – di porle.

Conclusioni

Abbiamo dimostrato che i riflessi dogmatici, che seducono sempre di più, tendono a impedire il dibattito nei nostri ambienti e, ancora più grave, all’interno degli spazi non-misti. Questa tendenza è rafforzata dalla volontà di creare spazi sempre più sicuri, cosa che ci porta a mettere da parte il dibattito sui problemi politici cruciali. Al di là della depoliticizzazione delle nostre sofferenze e delle nostre lotte, corriamo anche il rischio di consegnarci alla vulnerabilità, nei termini espressi in precedenza, e di non essere sufficientemente organizzate di fronte alla violenza patriarcale. In questo contesto invitiamo a ridare vita al dibattito.

Questo testo vuole essere un appello alla riflessione. Siamo consapevoli che le problematiche affrontate possono costituire dei punti di rottura nel movimento femminista ma auspichiamo, piuttosto, la costruzione di ponti.

Bruxelles, luglio 2019

Articolo originale pubblicato sul sito belga anker-mag

Traduzione a cura di due attiviste torinesi