approfondimenti

MONDO

Alla Corte di Trump

È morta venerdì sera all’età di 87 anni Ruth Bader Ginsburg, giudice dell’ala “liberal” della Corte Suprema e negli ultimi anni divenuta icona del femminismo americano delle nuove generazioni. A poche settimane dalle elezioni presidenziali Trump ha l’opportunità di mettere un’ipoteca conservatrice sulla Corte Suprema che potrebbe durare per decenni. E nello stesso tempo di ravvivare la sua campagna elettorale

E alle fine è successo quello che molti temevano potesse succedere. A poco più di un mese dalle prossime elezioni presidenziali, la giudice Ruth Bader Ginsburg, esponente di spicco dell’ala liberal e di sinistra della Corte Suprema è morta per una complicazione a un cancro al pancreas che si portava dietro da molto tempo. Aveva 87 anni e negli ultimi anni era diventata uno degli esponenti più popolarli e conosciuti nella politica americana. Quando nel 1993 venne nominata da Bill Clinton avrebbe dovuto rappresentare una figura centrista e infatti venne votata in modo unito da Democratici e Repubblicani (in un Senato per altro a grande maggioranza democratica dopo il trionfo clintoniano del 1992).

 

Ma negli anni il suo ruolo nella Corte divenne sempre più significativo e polarizzante soprattutto per tutte quelle sentenze che riguardavano diritti civili, riproduttivi, istanze LGBTQ, e politiche di gender discrimination.

 

È stato questo che in un modo un po’ inaspettato l’ha fatta diventare un’icona pop per una generazione di giovanissime che si sono avvicinate alle tematiche femministe negli ultimi anni: lo dice già il soprannome che gli avevano dato – e che con gli anni è diventato quasi un brand – di “Notorious RBG” (le iniziale di Ruth Bader Ginsburg) e che fa il verso al rapper Notorius B.I.G., esponente della prima generazione di gangsta rap degli anni Novanta e che come lei veniva da Brooklyn.

La biografia di RBG – figlia di immigrati ebrei russi e austriaci, cresciuta in un quartiere popolare, tra le primissime donne a frequentare un’università d’élite e seconda donna nella storia a essere eletta giudice della Corte Suprema – sembra essere perfetta per il classico racconto simil-cinematografico di emancipazione individuale che piace tanto a quell’autoindulgente narrazione di dinamismo sociale che definiamo con l’espressione di “sogno americano” (e che è una costruzione puramente discorsiva, cioè ideologica). E in effetti non è un caso che la sua figura sia diventata un riferimento anche per quella sinistra liberal e clintoniana, che è stata progressista nei diritti civili ma neoliberista in economia e che ha contraddistinto nel bene e nel male quasi tre decenni di politica democratica.

Tuttavia sarebbe un errore ridurla al sintomo di un processo di “culturalizzazione” della politica americana (quella analizzata da Thomas Frank in What’s the Matter with Kansas?) come qualcuno a sinistra sta facendo, perché il ruolo di RBG nell’avanzamento del dibattito pubblico americano su molti temi cruciali durante i suoi 30 anni di lavoro nella Corte Suprema è indubbio. Inoltre la Corte Suprema non fa giurisprudenza soltanto sui più chiacchierati casi di controversie sui diritti civili o riproduttivi, ma anche su moltissimi altri temi a partire dalla legislazione del lavoro.

 

È infatti una sentenza della Corte Suprema di due anni fa (la cosiddetta sentenza Janus, a cui Ginsburg si era opposta) che ha esteso a tutto il settore pubblico nazionale le anti-sindacali e reazionarie leggi “right-to-work” che sono già in voga in tutti gli stati del Sud.

 

Si è trattato di uno dei colpi più duri inferti alla legislazione del lavoro americana da 40 anni a questa parte e le cui conseguenze per le lotte sul lavoro e per la forza politica dei sindacati si faranno sentire per decenni. La Corte Suprema negli Stati Uniti ha un potere enorme non solo giuridico ma anche politico e il rischio è che con la scomparsa di RBG questa istituzione possa pendere ancora più a destra di quanto già non sia ora.

Sono nove infatti i giudici che compongono la Corte Suprema e hanno nomina a vita: questo vuol dire che l’elezione di un giudice della Corte da parte di un Presidente (che ha il compito di nominarli, anche se è un’elezione del Senato a maggioranza che deve ratificarli) può avere un’influenza sulla politica americana per moltissimo tempo. La cattiva notizia è che Trump è stato uno dei Presidenti che è riuscito in appena un mandato a nominare già due giudici della Corte – l’ultra-reazionario Brett Kavanaugh e il conservatore Neil Gorsuch – e rischia di poterlo fare per la terza volta prima ancora delle elezioni di novembre. L’ago della bilancia ovviamente è il Senato, in cui i Repubblicani in questo momento hanno una relativamente solida maggioranza di 53 a 47 (che vuol dire che possono contare su un margine di 3 defezioni, dato che in caso di parità a 50-50 spetta al vicepresidente Mike Pence il voto decisivo).

 

Venerdì sera Mitch McConnell, il leader della maggioranza al Senato, a poche ora dalla morte di Ruth Bader Ginsburg, si è affrettato a dire che il Senato ha il dovere di fare una votazione prima delle elezioni di novembre.

 

E poco importa che fu lo stesso Mitch McConnell quattro anni fa, quando a febbraio 2016 morì il giudice della Corte Suprema Antonin Scalia, a dire che Obama non avrebbe dovuto nominare un nuovo giudice a così pochi mesi dalle elezioni: allora ne mancavano 9 di mesi, mentre oggi si tratta di poco più di 5 settimane. Senza contare che il voto per posta è già iniziato in diversi stati. Ma la coerenza non conta (né Mitch McConnell sembra avere alcun imbarazzo a sconfessare il sé stesso di 4 anni fa), perché i Repubblicani hanno un’occasione unica per lasciare un’impronta duratura nella politica americana per gli anni a venire.

Tuttavia per i Democratici, la strategia di aspettare le elezioni, sperando in un risultato positivo di Joe Biden per poter essere loro a nominare il nuovo giudice potrebbe non essere sufficiente. A novembre verranno messi in palio 35 dei 100 seggi che compongono il senato statunitense (che hanno un mandato di 6 anni e che vengono eletti scaglionati anche durante le elezioni di midterm), di cui 21 sono attualmente occupati da senatori repubblicani. I Repubblicani hanno una maggioranza di 53 senatori ma che l’attuale senatore democratico dell’Alabama Doug Jones – che è stato eletto un po’ per caso in un’elezione suppletiva di due anni fa dove il suo avversario era stato investito da uno scandalo sessuale – perderà quasi sicuramente il suo seggio.

 

Vuol dire che i Democratici dovranno “rubare” almeno 5 senatori ai propri avversari per pensare di poter avere una maggioranza anche in un’eventuale futura Presidenza Biden.

 

Se escludiamo alcuni stati dove non ci sarà partita come Delaware, Illinois e Massachusetts dove i Democratici in corsa difenderanno il seggio che già occupano, o Arkansas, Idaho, Kentucky o Louisiana dove la stessa cosa avverrà per i Repubblicani (si tratta di stati dove la storia dei movimenti elettorali non permette di avere grandi incertezze), e pur confidando nella sconfitta di due seggi occupati attualmente dai repubblicani Cory Gardner e Martha McSally in due stati come Colorado e Arizona dove è prevista una vittoria democratica, gli altri tre dovranno essere vinti in seggi attualmente occupati da Repubblicani il cui esito è tutt’altro che scontato. Si tratta di competizioni come quella dell’Iowa dove Joni Ernst, repubblicano al suo secondo mandato, verrà sfidato dalla democratica Theresa Greenfield in un dibattito quasi unicamente dominato dai sussidi all’agricoltura dello stato e dalle misure protezionistiche del governo; o del Maine, dove Susan Collins, repubblicana, viene rieletta al Senato da 24 anni in uno stato che è viceversa a stragrande maggioranza Democratica; o del Montana dove il repubblicano Steve Daines (al suo secondo mandato) verrà sfidato dal governatore democratico in carica Steve Bullocks, che dovrà contare sul voto disgiunto in uno stato dove Trump viceversa dovrebbe vincere agilmente.

 

Da queste tre competizioni, che riguardano stati rurali, culturalmente marginalizzati e per lo più poco abitati, nella quali verranno decisi gli equilibri del prossimo senato, e forse anche della prossima Corte Suprema, si misura il paradosso di un sistema elettorale iniquo e anti-democratico come è quello del Senato americano, dove stati di poco più di un milione di abitanti – come appunto Maine o Montana – eleggono a Washington due senatori quanto California e Texas che hanno invece una popolazione di 40 e 29 milioni di abitanti.

 

Come ha ricordato Luca Celada, se dovessimo contare la rappresentatività della popolazione, i senatori repubblicani rappresenterebbero 15 milioni di Americani in meno dei senatori democratici e nelle ultime elezioni di midterm del 2018 al Senato, dove pure i Repubblicani hanno consolidato la loro maggioranza, i Democratici hanno preso quasi 18 milioni di voti in più.

Inoltre il seggio vacante di RBG rischia di presentare per l’ala più conservatrice del Partito Repubblicano una grande opportunità politica per rilanciare all’interno della campagna elettorale di Trump i temi “culturali” che da sempre caratterizzano la destra degli stati rurali degli Stati Uniti: il porto d’armi, la stretta sui diritti riproduttivi, l’attacco ai diritti LGBTQ. Se l’operazione di Mitch McConnell non andasse in porto, e le prossime elezioni saranno anche le elezioni dove si deciderà l’esito della prossima Corte Suprema, le conseguenze per la campagna elettorale presidenziale potrebbero essere imprevedibili.

 

Foto di copertina da commons.wikimedia