MONDO

Acà no se rinde nadie!

Yo soy Chavez e il processo bolivariano in Venezuela.

Pubblicato originariamente su publico.es e rebelion.org, è stato scritto il 6 marzo 2013 a Caracas da Íñigo Errejón attivista dei movimenti spagnoli e dottorando di ricerca della facoltà di Scienze Politiche della Complutense di Madrid, che ha seguito per diversi mesi da vicino il processo bolivariano in Venezuela. La traduzione è a cura di DinamoPress.

Il 5 marzo alle 16.25 è venuto a mancare dopo una lunga malattia il presidente venezuelano Hugo Chavez, democraticamente eletto per quattordici anni alla guida del Venezuela e del processo di Rivoluzione Bolivariana. Una figura sicuramente molto importante del nuovo corso latinoamericano, salutata dal dolore e dall’emozione di milioni di persone in tutto il mondo e in particolar modo in America Latina. Tanto demonizzato dai politici e dai media occidentali quanto sostenuto ed appoggiato da governi e movimenti latinoamericani, simbolo di quella sperimentazione politica che lui stesso ha definito “socialismo del ventunesimo secolo”, Chavez ha guidato un processo complesso, certamente contraddittorio ma estremamente interessante, di radicale trasformazione sociale, politica ed economica che ha portato ad un innegabile miglioramento delle condizioni di vita, mettendo in campo politiche contrarie ai diktat del FMI e dell’austerità. Ha ripreso il mito bolivariano di un’America Latina libera e indipendente, quella stessa America (da Cuba all’Argentina, dalla Bolivia all’Ecuador, dal Brasile al Cile) dove alla notizia della sua morte milioni di persone sono scese in piazza, sotto le ambasciate e nelle piazze Bolivar di tutto il Venezuela, per salutare il “Comandante Chavez”, ribadendo che i processi sociali e politici di liberazione di questi anni non si fermano con la sua dolorosa morte. Entro trenta giorni vi saranno nuove elezioni in Venezuela, mentre il governo ad interim sarà assunto dal vicepresidente Nicolas Maduro. Davanti alla nuova fase e alla nuova sfida venezuelana riteniamo utile ricominciare ad indagare questa esperienza, iniziando da questo articolo che abbiamo tradotto in italiano e vi proponiamo qui.

Caracas è una città vivace, ma ieri, martedì 5 marzo, era impregnata di un silenzio duro e contagioso. Non solamente nei quartieri popolari ma anche, per differenti ragioni, nei quartieri più agiati della città, dove in queste settimane si celebravano le cattive notizie sulla salute del Presidente. L’annuncio del vicepresidente Nicolás Maduro fatto in mattinata ha anticipato un dolore che sarebbe stato confermato nell’apparizione del pomeriggio. Da quel momento, il Venezuela ha cominciato ad unirsi in un pianto sommesso, i lavoratori che ancora non lo avevano già fatto si fermavano, i venditori ambulanti smettevano di lavorare, le auto, nel traffico, non suonavano i clacson, la gente cominciava a concentrarsi nella piazza Bolivar di ogni municipio. L’animo dolente ma sereno dei concentramenti popolari contrasta con il vociare degli esperti, tutti d’accordo tra di loro, che dall’oligopolio mediatico spagnolo – il complesso dei mezzi di comunicazione concentrato in poche imprese che il liberismo chiama libertà di espressione – potevano appena contenere la propria eccitazione immaginando transizioni e tabula rasa per il Venezuela.

La vecchia pretesa coloniale di dare lezioni di democrazia, senza dubbio, è di volta in volta più inverosimile. In questo momento la popolazione spagnola sta affrontando un vero dramma sociale, e la frattura tra le elite politica ed economica, e andando oltre l’invivibilità – sociale, economica, territoriale – che è il progetto storico del paese della misera oligarchia di casa nostra, comincia ad aprire una breccia importante nel regime nato dalla Costituzione del 1978. Un governo molto screditato, eletto con meno della metà del consenso popolare rispetto a quello venezolano, porta avanti un programma di tagli che colpisce i settori popolari e la classe media, non contenuto nel suo programma elettorale, che esegue il diktat di poteri economici stranieri mai eletti dai cittadini, evitando inoltre il dibattito pubblico.

Le proteste della maggioranza sociale impoverita hanno portato a centinaia di feriti e di arrestati da parte della polizia e i media sono di fatto impenetrabili per il paese reale, mentre rappresentano un megafono permanente per i valori, il linguaggio e le interpretazioni delle elite dominanti. Non sembra proprio un curriculum in grado di impartire troppe lezioni di democrazia.

E senza dubbio, sorprende il sentimento di superiorità che permette ad una elite particolarmente mediocre di dequalificare il processo politico venezuelano. Esaminiamo alcuni dei suoi argomenti. Non potendo impugnare seriamente la legittimità democratica del suo sistema politico, si prende in mano uno strumento che, ed è significativo, i potenti utilizzano sempre più frequentemente in Europa: Chavez è un leader populista. Non importa che chiunque lo utilizzi non sia poi capace di darne una seria definizione, il potere di questo termine sta proprio nella sua scivolosità.

Il problema è che il suo abuso può cominciare a mostrare le smagliature della sottesa concezione politica: una convinzione propriamente liberale e non democratica secondo cui la democrazia può essere violata quando entrano in gioco quelle “passioni” che per natura sono proprie sempre delle masse e mai delle minoranze privilegiate. Questo argomento, secondo il quale l’irruzione della plebe nella politica minaccia la democrazia, è interno ad un ragionamento che può portare fino ad un suffragio selettivo per censo (per evitare la “demagogia” che eccita i poveri) o anche alle democrazie occidentali a bassa intensità in cui le principali decisioni e istituzioni della vita sociale (l’economia, i media, il potere giudiziario, le forze armate etc.) sono ben lontani dalla sovranità popolare e rappresentano di fatto spazi riservati alle minoranze privilegiate.

Le argomentazioni contro Chavez proseguono con altri due argomenti, in diretta relazione con il precedente. Da una parte si critica la dimensione leaderistica, descrivendo come “pagliaccio” un presidente che ha commesso l’audacia di essere simile a coloro che lo hanno eletto. Per questo in Spagna governa un notaio mentre in Venezuela il probabile prossimo presidente, se i venezuelani gli daranno fiducia, sarà un ex conducente di autobus urbani. Anche le società europee sembra si stiano stancando di vecchi signori incravattati e seri che governano al diktat dei più ricchi, mentre l’America Latina si riempie di presidenti senza cravatta, lavoratori, ex guerriglieri, contadini, indigeni e meticci. C’è chi va avanti senza capire che questo processo non è solamente un’alternanza quanto invece il segno del cambio di un’epoca.

Questa critica del leaderismo, condivisa da alcuni settori della sinistra, si dimentica che tutte le relazione leaderistiche sono relazioni di rappresentazione, perciò contengono in sé un che di negoziazione e di tensione: nei contesti democratici, qualcuno è leader nel senso che incarna e soddisfa il desiderio di un insieme sociale, e smette di farlo quando questo gli toglie l’appoggio. Nel caso di Chavez, questo appoggio proveniva dai settori più poveri e razzializzati in quanto inferiori – negri, meticci – che, in virtù di un nuovo contratto sociale, hanno ottenuto una espansione senza precedenti dei diritti sociali, della loro sovranità, dell’inclusione.

Dalle conquiste materiali a quelle simboliche, non meno importanti. “Da bambina a scuola mi vergognavo del mio naso, per essere negra, fin quando non è arrivato Chavez” raccontava l’altro giorno un’amica. Questi sono i settori che oggi formano l’identità maggioritaria ed egemonica in Venezuela: il chavismo, che ha saputo spostare l’ago della bilancia nel paese verso sinistra e a favore della centralità dei settori popolari. Chi non capisce questo dimentica, volontariamente o per ignoranza, che le identità politiche si forgiano in base a molteplici punti di riferimento diversi tra loro. In Venezuela, attraverso una dislocazione radicale del senso di appartenenza tradizionale, si è prodotto un riallineamento popolare di massa che si è andato cristallizzando attorno alla figura di Chavez.

Dall’altra parte, il discorso liberale imperante è solito dire che in Venezuela esiste una “polarizzazione”. Curiosamente, non si leggevano critiche di questo tipo quando in Venezuela la povertà era del 49,7 % nel 1999 (oggi è del 27,8 %, il terzo paese con meno povertà del continente) e la miseria estrema del 25 % e oggi è del 7 % della popolazione, secondo i dati del CEPAL. Il paese del 1999 era meno polarizzato di quello odierno? Così la polarizzazione non si dà quando una minoranza vive nel lusso mentre la maggioranza patisce la fame, ma quando due o più opzioni politiche mettono a confronto diversi modelli di paese.

Questa sarebbe un’assurdità democratica se non aggiungessimo l’ingrediente chiave: vi è polarizzazione ogni volta che in questo confronto vengono sconfitte le opzioni politiche affini all’oligarchia economica, con una nuova distribuzione della ricchezza e il recupero della sovranità nazionale e popolare rispetto alla ricchezza e alle risorse naturali. Immaginatevi se a questo aggiungiamo che il petrolio smette di ingrassare conti bancari negli Stati Uniti o a Panama e comincia a finanziare medicine, pensioni, università o case per tutti. Polarizzazione assoluta. E demagogia. L’esempio venezuelano è un insulto per le elite: chi viene dal basso può costruire una identità maggioritaria, diventare un popolo e identificare gli interessi del paese con i propri, per governarsi. E resistere ad un blocco padronale, alle vessazioni delle politiche imperiali e ad un colpo di stato. Importante segnalare che questo sarebbe stato impossibile senza l’appoggio delle masse popolari, senza un entusiasmo politico strabordante, ma anche, e disgraziatamente non mancano esperienze pregresse, della maggior parte delle forze armate, segnate da una composizione popolare e progressista. Senza queste Chavez sarebbe stato un altro Salvador Allende, più “estetico” per una certa sinistra, meno utile per il suo popolo.

E ora che cosa accadrà in Venezuela? Disgraziatamente per gli apologeti del caos, il cammino è segnato dalla Costituzione e dalla volontà popolare. E’ importante ricordarlo: non ci sono transizioni nei sistemi democratici. Ci saranno elezioni a breve e il potere politico risponderà delle preferenze democraticamente espresse. Come è accaduto in 14 anni con 17 elezioni e la pratica della democrazia diretta nelle istituzioni locali e in quelle del lavoro. Il problema è semmai che il suo verdetto magari non piace ai privilegiati. Vi sono ovviamente molte questioni da risolvere ed errori da correggere in Venezuela. Solamente i processi politici immaginari sono esenti da problemi, limiti, errori. In cambio, ovviamente, esistono solamente in quanto desideri. Però, come dice il presidente uruguagio José Mujica, quelli che aspirano a cambiare le cose devono essere capaci di migliorare la vita della gente semplice mentre cercano di cambiare tutto. Gli altri sono rivoluzionari da bar.

Il processo politico venezuelano, che molti venezuelani chiamano rivoluzione, ha dovuto affrontare molte questioni in una sola volta: conquistare sovranità nazionale, trasformare lo stato oligarchico ereditato e costruire una macchina di inclusione e produzione di un nuovo ordine, nuove politiche pubbliche per la maggioranza della società, redistribuire immediatamente la ricchezza e sconfiggere la miseria, rompere con la dipendenza del settore delle esportazioni e rinforzare la base della propria economia, trasformare la cultura popolare consumista e individualista e costruire un immaginario nuovo per accompagnare le trasformazioni sociali etc. Tutto questo in un contesto di responsabilità democratica molto più intensa e profonda di qualunque paese europeo, con dispute non sempre pacifiche all’interno del potere politico e pesanti resistenze delle oligarchie in fase di ritirata. Per questo sono processi , incompleti, insufficienti. Ma al tempo stesso vivi, nelle mani del suo popolo. Espandendo la giustizia sociale, de-mercantilizzando le necessità primarie, producendo un paese nuovo, fatto di persone più uguali e per questo più libere. Per questo si sbagliano quelli che ripongono fiducia nella morte per la speranza di conquistare quello che non hanno potuto mai avere conquistando la maggioranza. Addolora molto la sua perdita, ancora di più dopo averlo ascoltato, ammirato, scritto e toccato. Però muore dopo aver seminato tanto: Chavez ha cambiato già il Venezuela e l’America Latina, a partire dall’immaginario che ha creato. Quando nelle strade di Caracas in centinaia di migliaia gridano “Io sono Chavez” o “Chavez è un intero popolo” non stanno facendo semplice retorica, ma stanno celebrando il fatto che questo nome proprio è già nome comune, che designa un blocco popolare che oggi guida lo stato e apre un tempo nuovo più giusto e democratico.