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Abdelmalek Sayad e il pensiero dello Stato

Di cosa parliamo quando parliamo di emigrazione?

Non sono in gioco ruspe, Cie e “flussi”, ma identità e vincoli di sovranità.

Militante dei movimenti anti-razzisti ed egregio studioso di Machiavelli e di Althusser, Fabio Raimondi si dedica in questo libro a esporre con sviluppi originali il pensiero di un grande sociologo franco-algerino (in senso culturale e linguistico, perché mai volle assumere la cittadinanza francese), allievo di P. Bourdieu, Abdelmalek Sayad (1933-1998), della cui fitta produzione sono noti in Italia soltanto La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato (2002; Raffaello Cortina, Milano 2002, curata da S. Palidda) e L’immigrazione o i paradossi dell’alterità. L’illusione del provvisorio (2006; Ombre Corte, Verona 2008). Peraltro non gli è mancata un’attenzione critica di nicchia, come il n. 341 di “aut aut”, gennaio-marzo 2009, e appunto questa monografia.

Considerando il fenomeno dell’emigrazione un qualcosa che investe simultaneamente il territorio di partenza e quello di arrivo, dunque è irriducibile a un calcolo quantitativo dei flussi che ne registri solo la dimensione demografica ed economica, A. Sayad sostiene che i migranti, attraversando i confini, definiscono la natura dello Stato e ne configurano la teoria, fanno emergere per autoriflessione il senso comune sociale, cioè il pensiero di Stato, secondo il doppio profilo dello Stato colonizzato e di quello colonizzatore.

Rileggendo così la stessa teoria, si può ricondurre la sovranità nazionale al diritto di espellere fuori dai confini gli indesiderati: dove c’è espulsione dello straniero, là c’è Stato, là vige in tutto il suo fulgore la categoria di “nazionale”. Lo Stato, identificandosi con la “natura-nazione” (tanto che il riconoscimento ufficiale dell’estraneo è chiamato “naturalizzazione”, come se prima non appartenesse alla comune natura), crea “nazionali” e “non-nazionali” quali immagini speculari false, così che le seconde, nel double bind tra necessità economica e inassimilabilità ontologica (presunta) generano spontaneamente l’effetto del “perturbante”, il minaccioso-familiare.

A innestare questo disorientamento è lo stupore perché i migranti stanno qui e non là dove dovrebbero stare, perfino quando l‘immigrazione dei colonizzati è programmata dallo Stato colonizzatore. Il migrante perverte l’immaginaria omogeneità dell’ordine statal-nazionale, costringendolo a interrogarsi sull’arbitrarietà dei propri limiti, ponendola in una luce storica e contingente. Non a caso, il massimo di spaesamento, al limite del pregiudizio e del pogrom, si registra con il nomadismo (vero o presunto) dei rom, gli incollocabili e sgomberabili per definizione. A questo punto, però, anche il familiare-nazionale vacilla e si fa perturbante, perché in realtà l’ordinamento giuridico moderno (è Kelsen a dirlo) non si fonda su identità sostanziali di comunità ma su prescrizioni convenzionali che debbono essere ottemperate da tutti i soggetti, senza differenza fra cittadini e non-cittadini, indigeni, allogeni o vaganti, comunque definiti.

Proiezione materiale dell’inassimilabilità perturbante è che il corpo del migrante è il corpo del reato, in altri termini il capro espiatorio per estraneità ontologica al corpo immaginario della nazione: i reati effettivi che può commettere sono la rivelazione di una latenza, come se a fianco di ogni trasgressione vi fosse un reato radicale, esistenziale, quello di essere un migrante. Lo stesso reato di “clandestinità” è una superfetazione del suo tipo d’autore, di impersonare quanto sfugge alla logica identitaria: il reato di esistere, di essere un déplacé che può “rassicurare” i buoni vicini soltanto mostrando sempre la propria sottomissione e disponibilità allo sfruttamento.

Non se ne esce, pertanto, con una retorica etnocentrica dell’accoglienza, che occulta la doppia conflittualità del migrante tanto rispetto alla società d’accoglienza, quanto (ma storicamente innanzitutto) rispetto alla società di origine – entrambe complici nel cercare di controllarlo, neutralizzarlo e sfruttarlo a misura della loro forza relativa, nonché di usarlo per ribadire, mediante i confini attraversabili in modo condizionato e reversibile, la propria giurisdizione.

Ha senso allora parlare, in queste condizioni, di “assimilazione”, fino al limite della compiuta “naturalizzazione”, intorno al feticcio della “cittadinanza”, condizione “naturale” al centro di uno Stato-nazione? Qui giustamente Raimondi conferisce grande peso a un tramite solo in apparenza secondario e le cui metamorfosi gettano luce sull’identità: parliamo della lingua. Il sabir, infatti, o lingua franca barbaresca è un termine terzo fra l’estraneità radicale e la naturalizzazione dell’indigeno, il parlare una lingua con la grammatica dell’altra, combinazione di langue e parole, un francese arabizzato e un arabo francesizzato che si incontrano sulle formule più vuote. Si incrociano così, per iniziativa bilaterale, due forme espressive in un processo di integrazione senza naturalizzazione che potrebbe far da modello anche all’insieme del modo di vita e di cittadinanza, anzi abolisce il concetto stesso di cittadinanza in nome della libertà di movimento, individuando il luogo-non-luogo di uno Stato-non-stato (come la benjaminiana lingua della traduzione). Dal pensiero di Stato (pensato fino in fondo e girato contro i colonizzatori da un teorico profondamente razionalista) possiamo liberarci soltanto sbarazzandoci dallo Stato, instaurando una repubblica fondata sulla libertà di movimento e sull’ibridazione sistematica del vivere nell’eguaglianza, senza appartenenza che non sia doppia appartenenza ai due mondi fra i quali il migrante si muove.

Ci muoviamo così in una dimensione che non solo oltrepassa di gran lunga il dibattito economicistico sui migranti, sui vantaggi derivanti per una popolazione in calo demografico in termini di Pil e contributi Inps, per non parlare delle tesi xenofobe e ruspanti del neo-sovranismo leghista, ma consente di rimettere in discussione proprio la natura della sovranità e dell’integrazione, che è tutt’altro che concetto “buonista” e conciliante. Dobbiamo infatti domandarci – senza rinunciare a un uso approssimativo corrente di tali termini in opposizione alla discriminazione – cosa significhi esattamente “integrazione” (di chi e a che cosa) e se la stessa cittadinanza non sia concetto quanto meno equivoco, nelle sue varie declinazioni (cittadinanza, reddito di cittadinanza, cittadini), se cioè includa escludendo, quindi in sostanza fissi un confine di cui almeno garantire la piena permeabilità. Ogni passeur di clandestini, come ogni buon traduttore, oltre a incassare un compenso, mira senza saperlo a superare l’estraneità delle lingue e degli uomini spostandoli in una sfera di superiore verità, in cui i tratti dell’origine continuino a essere visibili in chi è arrivato e arricchiscano coloro fra i quali è arrivato. Vi è un’eccedenza nel meticciato (come la traduzione virtuale fra le righe di un testo archetipo) che sfugge all’assimilazione liscia, omogenea, ed è il lievito di ogni cambiamento epocale.

F. Raimondi, Migranti e Stato. Saggio su Abdelmalek Sayad, ombre corte, Verona 2016, pp. 157, € 14