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Ebbing e il male dell’America profonda

Tre cartelloni e molti più problemi: Mildred Hayes fra rivolta di genere e giustizialismo comunitario. La messa in scena delle contraddizioni funziona, a patto di tenerle come tali e non affrettarsi a concludere

Three Billboards Outside Ebbing, Missouri, dopo il clamoroso successo simbolico ai Golden Globe sono arrivati nelle sale italiane con il titolo lievemente impreciso di Tre manifesti a Ebbing, Missouri – in realtà si tratta dei cartelloni in una strada di accesso poco frequentata di Ebbing, billboards abbandonati e affittati a buon prezzo per affiggervi manifesti, poi incendiati, infine rimessi e, chissà alla fine defissi. Un film di grande qualità che ha fatto incetta di recensioni entusiaste e di premi, sia per la regia e sceneggiatura di Martin McDonagh che per gli interpreti: la sublime Frances McDormand in primo luogo (Mildred) e gli ottimi Woody Harrelson (lo sceriffo) e Sam Rockwell (l’agente Dixon). Nonché Peter Dinklage, ben noto come Tyrion agli appassionati di GoT.

Non di questo vogliamo parlare ma dei temi che pone e che ne hanno decretato il trionfo polemico ai Golden Globe, con annessi e connessi (la rappresentazione glam del #MeToo, la forte protesta contro il maschilismo ricattatorio, ecc.). Ci scusiamo per l’inevitabile spoiling, ma non è un film giallo.

Siamo nel razzista e discriminatorio Missouri, Mildred è una divorziata con due figli, Robbie e Angela. Quest’ultima, dopo una lite con la madre che le rifiuta la macchina per una festa, è aggredita lungo la strada, violentata e bruciata viva. Dopo un anno di inutili sollecitazioni alla polizia locale per scoprire il colpevole, Mildred decide di attirare l’attenzione affittando tre enormi cartelloni in un’area tagliata fuori dalla nuova autostrada e affiggendo tre maxi-manifesti con le frasi: “Stuprata mentre stava morendo”, “E ancora nessun arresto”, “Che fai, sceriffo Willoughby?”. La comunità, dove tutti si conoscono (come nell’idillica Suburbicon anni ‘50 di Clooney) ma che è già ”inquinata” dalla presenza di neri e mangiafagioli messicani maltrattatati dalla polizia e ora dalla presenza di un criminale, reagisce male, anche perché lo sceriffo chiamato rudemente in causa è in sostanza una brava persona, che per di più sta morendo di cancro. Falliti i tentativi di dissuasione pacifica e rilanciata la notizia per l’intervento della Tv, si scatena contro Mildred l’ostilità dei concittadini e in particolare del giovane poliziotto razzista Dixon, affezionato allo sceriffo come un padre. Nella “comunità” Mildred ottiene solidarietà soltanto da membri delle minoranze razziali ed emarginati, avversi come lei a una polizia pigra, proibizionista e razzista.

Tralasciamo il resto del plot, se non per segnalare il crescente rabbioso isolamento di Mildred e la metamorfosi di Dixon, che individua un violentatore assassino il cui Dna purtroppo non coincide con quello rinvenuto sul cadavere di Angela e che, al momento del fatto, si trovava in missione militare all’estero, in un luogo segreto ma “caldo e sabbioso”, insomma un macellaio di ragazze irakene o afghane. A questo punto Dixon vorrebbe egualmente fare giustizia e si associa a Mildred in una spedizione punitiva, con tanto di fucile nel bagagliaio della macchina. Partono alla ricerca del colpevole, di cui conoscono l’indirizzo, ma non è detto che durante il viaggio non cambino idea.

La lettura della trama è complicata, perché il film è molto “americano”, sebbene fatto da un anglo-irlandese, e cioè intreccia moduli culturali diversi e di non lineare interpretazione.

La più facile – quella che gli ha garantito il trionfo in clima anti-Weinstein ai Golden Globe – è la donna dura e spietata, che si batte con gli stessi metodi dei suoi avversari (maschi razzisti, poliziotti, preti) e, una volta che ha fatto esplodere il problema e ha perfino “convertito” il rozzo macho Dixon, si permette pure il lusso di rinunciare (forse) alla vendetta. Una rottura politicamente scorretta delle regole per ricostruire una vera comunità, un diverso livello di solidarietà fra i reietti.

Se ne può dare però anche un’altra, di lettura. Una vendetta personale, in stile giustiziera della notte, estesa con un sofisma di Mildred all’intero genere maschile: se per smantellare le bande losangeleñe (molti dei cui membri provenivano dallo scioglimento forzoso delle Black Panthers) si incriminarono tutti i singoli membri per i delitti commessi da un altro della gang – una misura giustamente bollata, per es. In Emendamento XIII, come una delle cause dell’incarceramento di massa di neri e latini, simile al nostro malfamato “concorso morale” usato e abusato contro il terrorismo negli anni ’70 e ’80), perché non applicare lo stesso metodo a tutti i sacerdoti cattolici per la pedofilia e a tutti gli stupratori indiziati? E se la legge balbetta per troppo garantismo, perché non farsi giustizia da soli, grazie al libero possesso delle armi? L’individuo libertario sostituisce un ordine civile malato e distratto, perfino con il plauso degli altri oppressi e indifesi.

Terza lettura: Mildred e Dixon rinunciano alla vendetta, non perché spinozianamente l’amore abbia avuto il sopravvento sull’odio, la passione gioiosa su quella triste, ma perché lo stupratore di vittima ignota ha in fin dei conti solo massacrato una ragazza mediorientale, una qualsiasi “vittima di guerra” come nel film di De Palma sul Vietnam. Su questo terreno, fatta la debita denuncia degli eccessi della guerra e magari anche di chi li ha coperti, i giustizieri si riconciliano con la comunità. Alla fine tutti sono diventati buoni e il male è relegato all’esterno – idea pericolosa!

Davvero non saprei scegliere. Ci sono tutte e tre le possibilità e neppure in alternativa fra loro. Dunque una profonda ambiguità che contribuisce alla tenuta del film e ci interroga nel profondo. Non è così semplice confrontarsi con la violenza, quando si tratta di violenza estrema, non di importunare o diritto di essere importunate come nel surreale dibattito da salotto sugli appelli alla Deneuve. Quali sono i limiti della risposta? Cosa vi entra in gioco? Di certo non è da scartare – questo film ce lo ricorda – il dubbio più pertinente di Margaret Atwood: che il movimento #MeToo sia anche il sintomo di un sistema legale che si è inceppato e il cui rilancio (cioè un diritto non discriminatorio per uomini e donne) dovrebbe guardarsi da un rischioso giustizialismo mediatico. Un tavolo dove le carte vincenti, alla fine, le dànno il patriarcato e il suprematismo bianco.