editoriale

Disertiamo le guerre sante

Da dove ripartire quindi? Dalla costruzione di pratiche partigiane di libertà, che diano un significato materiale a questa parola e ricaccino indietro ogni fascismo: che esso sia statalista e mascherato con ideali repubblicani, o che sia islamico ed inneggi a califfati e jihad.

«Liberté, égalité, fraternité» e il loro doppio di M. Bascetta
Guerre Sante: non sulla nostra pelle di redazione

All’indomani della strage al Charlie Hebdo, in Francia si provano a riordinare i pezzi di un mosaico saltato. La tensione è palpabile per le strade, nelle scuole messe sotto controllo dalla polizia, negli sguardi impauriti delle persone quando la metro si ferma senza una ragione evidente tra due stazioni. Prendere parola e discernere è difficile: l’appiattimento del dibattito è totale ed il rischio, quando si apre bocca, è di stare su un terreno banalizzante e totalmente trasversale (anche a quelle forze che più di tutte odiamo), oppure di relegarsi nel minoritarismo. Proviamo a tirarci fuori da queste derive partendo immediatamente da un assunto per niente scontato nel dibattito odierno: ad essere in gioco NON è la libertà d’espressione. L’obbiettivo degli attentatori non era colpire i nostri “diritti umani fondamentali”. Questo perché non sono le libertà formali ad essere un problema per i musulmani ed i discriminati tutti in Francia ed in Europa. La “libertà di satira”, che da ieri è tornata valore centrale della repubblica, si è semplicemente ridotta alla capacità di enunciare dei contenuti senza che più nessuno si curi della capacità di cambiare il corso degli eventi. Milioni di persone sperimentano quotidianamente l’inconsistenza di questa libertà di carta: nella tratta di schiavi sul mar Mediterraneo, nelle “guerre umanitarie” dell’occidente, nelle testarde e violente politiche di austerità, nella rimozione europea, francese in particolare, dei crimini coloniali. La libertà di parola ha abdicato ad ogni speranza di cambiamento (ed in questa abdicazione, la linea editoriale del Charlie è tragicamente invischiata).

Quindi, perché questo “11 settembre francese”? Cos’era quindi in gioco nell’assalto al Charlie? La messa in atto dello stato di guerra. La creazione, simbolica e quindi materialissima, di quella spaccatura della società francese che è una spaccatura di tutta l’Europa. E dobbiamo ammettere che il tentativo è andato a buon fine, perché si inserisce su un terreno preparato ad accoglierlo.

I proletari di fede islamica oggi ancora di più devono scegliere dove stare, tra uno stato che li considera meno cittadini degli altri, e la criminalizzazione automatica che sta già cominciando, con il Front National di Marine Le Pen ovviamente in prima linea nell’attacco. Ma anche i non musulmani devono piegarsi a questa imposta dicotomia. Le fucilate su Boulevard Richard Lenoir non accettano una risposta politica, chiudono il dibattito attorno ad una scelta univoca tra due fronti: o con la la “Francia Repubblicana” o con chi la insanguina in nome di Allah. Ha poca importanza che la “Francia Repubblicana” voti socialista o sia già dichiaratamente frontista, questo non interessa agli assassini ma nemmeno è un punto determinante nel discorso pubblico post-attentato. Si è scatenata nelle ultime ore una polemica sull’invito formale del FN alla “marcia repubblicana” di domenica, ma la sensazione è che il peso dell’estrema destra sia determinante al di là dei politicismi. Certo, da una parte, quella socialista, sentirete un maggiore richiamo alle “libertà fondamentali” ai “valori della repubblica” ai “punti di convergenza minimi per l’integrazione”, il centro-destra si accoda parlando di “unità nazionale”, e Sarkozy cerca di rendersi presentabile con gli occhi già alla campagna elettorale del 2017. Marine Le Pen, invece, si affretta a parlare di lotta all’islam e di identità nazionale da salvaguardare, nonché di reintrodurre la pena di morte. Ma il principale prodotto dell’attentato è una contrapposizione duale che risucchia tutto, verso gli estremi. Una volta che la dicotomia identitaria si afferma come egemone, dalla retorica sui “punti di convergenza minimi” si passa rapidamente alla guerra di civiltà. Perché quei punti minimi di convergenza sono esattamente ciò che nella Francia di oggi ha prodotto la spaccatura: città gentrificate in cui i confini etnici sono confini di classe, scuole in cui l’imposizione di non portare l’hijab è solo la misura più appariscente del divieto a vivere pubblicamente la propria religione. In generale una struttura di relazioni rigidissima, in cui la crisi è scaricata sui più deboli, la mobilità sociale è sempre minore e le “richieste minime”, continuamente ed estensivamente riprodotte, divengono imposizione costante.

Questi temi però non si trovano nel dibattito politico, non c’è traccia di una riflessione sul ruolo delle strutture pubbliche della “République” e dell’Unione Europea (da quelle che garantiscono i sussidi fino alle scuole), vissute come nemici da una parte della popolazione. Da nessuna parte ci si concentra sulla geografia delle nostre città, dove fette di territori periferici sono state in molti casi abbandonate dal resto della società. Proprio quei territori, in particolar modo francesi, dove negli ultimi anni l’islam è divenuto motore di un nuovo tessuto relazionale completamente sganciato e contrapposto allo stato. Nell’affanno di richiamare la sacralità della repubblica, ci si scorda che la polizia di quella repubblica è vista, a ragione, come un esercito di occupazione di quei territori.

Da dove ripartire quindi? Dalla costruzione di pratiche partigiane di libertà, che diano un significato materiale a questa parola e ricaccino indietro ogni fascismo: che esso sia statalista e mascherato con ideali repubblicani, o che sia islamico ed inneggi a califfati e jihad. Dentro una crisi che impoverisce tutti c’è bisogno di puntare l’attenzione sulle vere dicotomie, sulla contrapposizione tra chi crea la ricchezza ed il grande capitale che prova ad impoverirci. Ripartiamo da quei fischi che in Place de la République, durante un presidio partecipatissimo, si sono levati contro chi sollevava il tricolore: non c’è nessuna “comunità nazionale” da proteggere (né francese, né europea), ma un mondo da strappare alla paura. Ripartiamo da lotte comuni, contro l’immiserimento di molti in nome della ricchezza di pochi, contro il razzismo manifesto delle Le Pen, dei Salvini, dei Farage e contro quello più sottile imposto con la povertà e l’austerity.

P.s. C’è da aggiungere qualcosa sulla satira del Charlie e sul suo bacino d’acquisto. La linea che il settimanale ha scelto negli ultimi anni, parla soprattutto ad un pubblico storicamente “di sinistra”, di ceto medio-alto e ben formato, un pubblico che nella francia di oggi sembra mosso da sentimenti tanto dogmatici e non disposti al dialogo quanto quelli che vorrebbe criticare. Anche per questo l’attacco è stato uno shock: i lettori del Charlie si ritenevano tra i più vicini alle comunità islamiche senza farne parte, probabilmente erano tra i più lontani. Non è un esercizio vuoto sottolineare questo aspetto, perché la decostruzione della “guerra di civiltà” è un tema difficile, che dovrà necessariamente passare anche da sinistra.

*Parigi, 8.01.2015