POTERI

Vinti e vincitori

“Ancora una volta, come accade ormai da anni, la crisi della rappresentanza non apre immediatamente spazi di libertà o partecipazione[…] : al contrario produce anomalie, fenomeni insoliti, contraccolpi. Produce condizioni che imporrebbero ragionamenti e pratiche al di fuori di schemi consolidati”.

Primo dato oggettivo all’indomani delle elezioni in sette regioni: Matteo Renzi da oggi è più debole. Quel “quasi 41 per cento“ delle europee, numero magico da sventolare in faccia ai “gufi”, si sgonfia sotto i colpi dell’astensione, è sgretolato dall’affermazione di liste locali e clientele territoriali, incrinato dalla fine della luna di miele tra il premier e il paese. Il candidati del Pd che vincono sono quelli, poco renziani, del Sud. Il Pd vince ma non stravince negli storici insediamenti di Umbria, Marche e Toscana. I veri esperimenti del Partito della Nazione, Raffaella Paita in Liguria e Alessandra Moretti in Veneto, falliscono clamorosamente. Renzi vince, non i suoi candidati. In Campania vince l’istrionico De Luca con il suo carrozzone. La dirigenza nazionale del Pd è costretta ad applaudire, ma come è noto avrebbe preferito un altro candidato e un altro presidente.

La formazione fascioleghista di Matteo Salvini è ormai il primo partito della destra, con l’eccezione della vittoria del mezzobusto Toti che consegna qualche barlume di visibilità al berlusconismo, garantendo il tramonto sulle coste occidentali al miliardario di Arcore. Si afferma al centro con un risultato clamoroso in Toscana e Umbria, ma non ce la fa al Sud dove evidentemente non basta il nome di Salvini sul simbolo per acchiappare voti (almeno per ora). È una destra frantumata e divisa, quella che è riuscita ad arginare lo strapotere più virtuale che reale di Renzi. È una destra che a Renzi piace perché probabilmente non andrà al governo nel breve-medio periodo: l’opposizione perfetta di Sua Maestà.

Il Movimento 5 Stelle è davvero l’anomalia difficile da continuare ad ignorare, talvolta con sufficienza altre con imbarazzo, nello scenario politico. Per la prima volta raccoglie vasti consensi, al netto dell’astensione, su elezioni locali in larga scala. È una vittoria, quella dei pentastellati, che arriva dopo la prima campagna elettorale non egemonizzata dai comizi-spettacolo di Beppe Grillo, passo indietro ambivalente perché esclude del tutto gli eventi collettivi (seppure verticali) dal raggio di azione del grillismo. È una vittoria che non serve a impedire che il Pd governi, ma che consente di occupare spazi mediatici. Una vittoria, ancora, che giunge nonostante candidati alla presidenza tutt’altro che autorevoli: un’ex elettrice berlusconiana in Puglia (dove il M5S è primo partito), una funzionaria di Equitalia in Campania, un comunicatore già pannelliano nelle Marche. L’elettorato premia i 5 Stelle perché riconosce loro la narrazione semplice della coerenza, l’alterità assoluta alla Casta. La tattica centrifuga di Podemos, che sulla scala locale vince alleandosi con movimenti e mettendo da parte il brand, viene sostituita da quella centripeta del Movimento 5 Stelle. È la vittoria di Di Maio e Di Battista, uomini-immagine delle due facce sapientemente dosate del partito franchising grillino. Uno leccato ed ambizioso, l’altro agitato e barricadero. È la vittoria di un partito che da mesi batte sul tema del reddito di cittadinanza e che non è stato intaccata dagli abbozzi di coalizione alla sinistra del Partito democratico. Con l’eccezione della Liguria, dove il Pd è stato tanto arrogante da spingere persino Cofferati e Civati alla rottura, la sinistra parlamentare è ininfluente: non c’è spazio per una sinistra balbettante, a maggior ragione in assenza di conflitti e movimenti potenti.

Renzi esce malconcio dalle urne. Forse recepirà il segnale di stanca che arriva dal blocco sociale tradizionale del centrosinistra. I voti di lavoratori, insegnanti e pensionati allontanati da riforme e tagli non sono stati rimpiazzati dai voti in libera uscita dal berlusconismo e dal grillismo. Il presidente del consiglio ha ancora dalla sua qualche anno di governo e condizioni di vantaggio non indifferente. Le opposizioni, nelle loro differenze e con le loro articolazioni locali, paiono cucite su misura per i bisogni del Premier: assorbono rancori, frustrazioni e fobie generate dalla crisi e dall’aumento delle diseguaglianze per renderli innocui. Spostano la rabbia sul terreno reazionario e xenofobo oppure puramente rappresentativo e a volte autistico che abbiamo definito in tempi non sospetti “guerra civile simulata”, nei suoi aspetti potenzialmente innovativi incapace (quando non esplicitamente indisponibile e dunque parte della fatwa che i palazzi hanno lanciato contro le lotte sociali) a farsi contagiare da sommovimenti sociali e istanze partecipative.

Ancora una volta, come accade ormai da anni, la crisi della rappresentanza non apre immediatamente spazi di libertà o partecipazione: al contrario produce anomalie, fenomeni insoliti, contraccolpi. Scava voragini che vengono occupate dai più disinvolti. Produce condizioni che imporrebbero ragionamenti e pratiche al di fuori di schemi consolidati.