cult

CULT

Titina Maselli e la pittura di realtà

L’anonimato urbano di Roma come forma di modernità critica

Titina Maselli (1924-2005) è stata una delle più grandi pittrici e scenografe italiane del Novecento.

Cresciuta in un ambiente stimolante a livello intellettuale, figlia del critico d’arte e militante Enrico Maselli, cugina dei Pirandello, sorella del regista neorealista Citto Maselli, inizia a dipingere giovanissima, a undici anni. La sua prima opera si data al 1942; già nel 1948, all’età di ventiquattro anni, espone a Roma per una personale alla Galleria l’Obelisco, suscitando immediatamente l’interesse della critica e non solo. A partire dalla seconda metà degli anni ’70 si dedica, congiuntamente alla pittura, al lavoro per il teatro, realizzando scene e costumi per allestimenti teatrali di opere di Schiller, Pirandello, Müller, Bernard, Pinter, Shakespeare.

Visse per anni in molte città, da New York a Parigi all’Austria, tra Vienna e la Carinzia, tornando però sempre a Roma, con cui sentiva un legame di tipo quasi “territoriale” più che affettivo. Tornava per non “snaturarsi”, affermava; era «una viaggiatrice col vizio del ritorno» (Elisabetta Rasy).

Non interessata alla Roma eterna, quella degli archi, del fiume e dei monumenti barocchi, ne ricercava l’aspetto moderno, quel velo ruvido e malinconico che si pone sullo spazio postbellico, coglieva e faceva emergere l’anonimato urbano. Preferendo gli scorci notturni, era profondamente attratta dalle luci, dalle rotaie del tram, dai fili elettrici del filobus, dalle macchine, anticipando quella che sarebbe stata la sua produzione pittorica più sentita, nella New York mendelsohniana.

Inizia la sua attività creativa alla fine degli anni ’40, immersa nel clima dell’espressionismo romano, mentre già si dedica allo studio, originalissimo, di oggetti comuni, i soggetti pittorici che svilupperà nel corso di tutta la sua produzione successiva.

In una lettera di presentazione al catalogo della mostra di Titina alla Tartaruga nel 1955, Renzo Vespignani scriveva: «Quando da ragazzi, nel dopoguerra, cominciammo a dipingere, inconsapevolmente e nella diversità dei temperamenti, Muccini e Buratti, io e te, ci sforzavamo di non fare della pittura , ma di “usare” la pittura per comunicare un nostro profondo disagio, le passioni della nostra generazione ancora acerba, ma già provatissima dalla paura e dalla disperazione. Era in noi un non so quale disprezzo per il “buon quadro”, per il colore troppo organizzato e pulito, una gran volontà di capire la fantasia e i sentimenti, di rappresentare comunque gli oggetti e i personaggi della vita moderna».

Sostenitrice e membro della Scuola romana di Piazza del Popolo, insieme a Tano Festa, Mario Schifano, Franco Angeli e Giosetta Fioroni, dove assume le prime esperienze figurative, sviluppa un linguaggio sempre più soggettivo.

Nel suo percorso artistico attraversa i solchi di molte correnti pittoriche, senza mai aderire ad una in particolare, dal futurismo alla pop art, dall’informale al nuovo realismo, ma sempre traendo spunti formali alla ricerca di una rappresentazione icastica.

La critica, con il suo vizio catalogatore, ha tentato di collocarla in un movimento, talvolta considerandola anticipatrice di una corrente, ma Titina ha sempre rifiutato questa formula identitaria.

In quegli anni, in particolare negli anni ’60, era difficile non cogliere l’importanza e il fondamento, quasi inevitabile, del lavoro collettivo, dove l’autoreferenzialità e la celebrazione del singolo, lasciavano spazio alla creazione di un codice linguistico comune, comunicativo, di denuncia: in questo clima artistico si introduceva un «proseguimento sociologico della fase essenziale della comunicazione» (Pierre Restany).

Titina dipingeva oggetti d’uso quotidiano, detriti urbani (ineluttabilità oggettiva della materia), telefoni, macchine da scrivere, palazzi, strade, automobili, luci, figure e luoghi dell’immaginario collettivo, “tutte le cose note ma non guardate abbastanza”, tralasciando, anzi, evitando sentimentalismi, narrazioni, drammi e memorie, lasciando spazio unicamente al sentimento di un margine comune di comportamento collettivo. La sua non è una cronaca descrittiva, ma la sintesi delle energie vitali contrapposte che attraversano la città: la misura del reale metropolitano.

Si dedicherà, in un secondo momento, allo studio di figure umane colte in movimento, ma fissate sulla tela come sagome ritagliate sulla superficie, prediligendo immagini sportive, in particolare pugili e calciatori. La figura umana viene sovrapposta al contesto metropolitano, talvolta compenetrandovisi, a rappresentare il conflitto di energie contrapposte che determinano la realtà urbana «in una sola cosa, in un solo momento».

«La presenza dell’uomo, anche nei quadri dove non è visibile, si sente perché la modernità vuol dire storia, dunque l’uomo. Mi sembra che la figura sia attraversata dallo spazio, la trascini e l’offenda. La compenetrazione è costante. Credo perciò di essere molto lontana dal vuoto e dall’assenza»

In un’intervista di Lea Vergine per il Manifesto Titina afferma che «la sua modernità è stata fare tabula rasa di ogni sentimentalismo, di tutto il già noto sulle cose”. Voleva «dipingere proprio l’essenza della vernice urbana, municipale».

Più che di realismo sociale dovremmo parlare di realismo critico, strizzando l’occhio a Ben Shahn.

Per dirla con Rainer Maria Rilke (Lettera monacense sull’arte), “l’indifferenza delle cose, la loro quantità, porta a distogliere l’attenzione da esse”. Da qui il desiderio della composizione di nuovi linguaggi e soluzioni: il rinnovo dell’attenzione verso l’oggetto qualsiasi, valorizza l’esistenza moderna, semplicemente perché esiste e compone l’immaginario del reale quotidiano.

È durante la sua permanenza a New York, dal 1952 al 1955, che Titina maturerà consapevolmente la sua poetica, quella della metropoli come luogo emotivo per eccellenza. Insisterà con cadenza quasi ossessiva sui soggetti-archetipi della modernità, dove l’ossessività della ripetizione rappresenta l’ossessività del reale. Le immagini non rappresentano, ma veicolano la percezione dell’energia metropolitana.

«La pittura è pensiero, non voluttà».