DIRITTI

The place to be

Il Femminismo è una questione di Classe . Verso la manifestazione del 26 e i tavoli tematici del 27 novembre

Partiamo da noi e da quella pratica mutuata dai Femminismi che attiene al “sapersi collocare”, al prendere posizione. La capacità, dunque, di leggere il contesto sociale e politico in cui siamo inserite, praticando quel quotidiano situarsi che si fa immediatamente azione.

In questi giorni, fatti di costante impegno e travolgente entusiasmo rivolti alla costruzione della manifestazione del 26N NonUnaDiMeno e della giornata di confronto assembleare del 27N, proviamo a restituire il nostro posizionamento e a fare un po’ di chiarezza in questo spazio-tempo confuso e confondente che ci è toccato in sorte.

Noi sappiamo dove collocarci e siamo esattamente dove vogliamo essere

Gli ultimi mesi ci consegnano infatti una nuova espressione di potenza, incarnata dal protagonismo radicale delle donne contro la violenza di genere. A fronte dell’efferatezza e della brutalità agite simultaneamente e da più parti contro le donne e le loro molteplici esistenze, si sta determinando una risposta forte e collettiva. Le piazze argentine, polacche, islandesi sono state letteralmente invase da migliaia di corpi e di vite che assieme si sono fatte marea. Una marea che con determinazione e coraggio sta provando ad imporre un nuovo ordine del discorso attraverso l’azione diretta e conflittuale; una marea capace di scompaginare le pressioni populiste, la torsione antidemocratica e neoliberista che vediamo avanzare su scala globale; una marea che si pone immediatamente il problema del cambiamento e della trasformazione; una marea che anche noi, a partire da sabato 26, vogliamo provare a alimentare.

L’abbiamo detto mille volte e pensiamo sia utile tenerlo sempre a mente: la violenza sulle donne è una questione strutturale di cui il femminicidio rappresenta la precipitazione estrema e drammatica. Sotto la punta di quest’iceberg oggi la violenza si articola in ogni ambito della vita e della società e si rinnova come dispositivo di ri-gerarchizzazione dei rapporti sociali e di controllo biopolitico dei corpi.

Un attacco molteplice, quello che ci viene rivolto, dispiegato simultaneamente sui tanti e diversi campi dell’esistenza: nelle famiglie e nei posti di lavoro; nelle scuole e nelle università; nei presidi socio-sanitari pubblici e sui media mainstream.

Un attacco rivolto a delle soggettività altrettanto molteplici. Invochiamo dunque nuovamente la pratica femminista del “sapersi collocare” e ri-partiamo da noi, da ciò che incarniamo con le nostre vite, da quella complessità che quotidianamente esprimiamo.

Nel suo testo “La donna a una dimensione” Nina Power afferma come non sia possibile comprendere il femminismo contemporaneo senza soffermarsi sui cambiamenti specifici che hanno attraversato il mondo del lavoro. Vorremmo porre brevemente l’attenzione su questo, cercando di connettere la nostra riflessione al portato conflittuale che vediamo esercitato dalle donne polacche, argentine e islandesi che, non a caso, stanno risignificando tramite l’azione diretta la pratica dello sciopero.

Ripartiamo quindi dalla profonda mutazione delle forme del lavoro che ha investito la fine del XX secolo ed i cui effetti hanno interessato in primo luogo le donne, in termini storici-politici-sociali e come vera e propria soggettività su cui sono state sperimentare specifiche forme di sfruttamento. Possiamo infatti affermare che il lavoro femminile rappresenti oggi la norma stessa del lavoro.

Ma cosa intendiamo per femminilizzazione del lavoro? In un contributo di Judit Revel datato 2003 (Posse – Divenire-donna della politica), viene sottolineato con forte ironia che “Femminilizzazione del lavoro non significa mera introduzione di pseudo-qualità femminili tanto inconsistenti quanto infondate (la dolcezza, la creatività, la freschezza, la spontaneità) in un mondo di bruti, di bulloni, di turbine. Il divenire-donna del lavoro non ha ornato le tute da lavoro di pizzi e merletti, ha semplicemente riformulato i meccanismi di sfruttamento della forza-lavoro e i connotati di quest’ultima […]

La femminilizzazione del lavoro significa l’applicazione a tutti gli individui di dispositivi di assoggettamento che sono stati applicati storicamente innanzitutto alle donne” (Posse – Divenire-donna della politica).

La paradigmaticità del lavoro femminile si concretizza nelle pratiche di lotta, nella reinvenzione e risignificazione dello sciopero come principale terreno di sperimentazione delle donne per riaprire un piano di lotte femminista in grado di contaminare e innovare le forme e i contenuti delle lotte a venire. Può essere questo, dunque, un nuovo laboratorio politico per produrre, a partire dalla ripresa femminista, un avanzamento complessivo nelle pratiche e nei temi, nella produzione di nuova soggettività, nella costruzione di piani rivendicativi non stagni ma che parlino delle nostre vite nella loro complessità.

Siamo donne, infine, e questo non basta più a definirci interamente. Siamo precarie, emigrate, migranti, studentesse, soggettività metropolitane i cui stili di vita sono permanentemente catturati e messi a profitto, viviamo nell’austerity, oggetti della guerra “santa”. E se sfumano i confini del genere oltre quelli del sesso biologico, se la femminilizzazione del lavoro rende generale quella particolare disciplina del lavoro – suppletivo, intermittente, relazionale, gratuito – caratteristica storicamente del lavoro femminile, non va disperso però un punto di vista situato e incarnato da cui è possibile comporre e ricomporre gli sguardi e le soggettività contro la violenza, contro lo sfruttamento, contro le linee di segmentazione/discriminazione sociale che passano oggi più che mai per il genere, la razza e la classe.

Questo richiamo, che si fa concretezza nella quotidianità delle mobilitazioni su scala globale, ci offre un altro spunto di riflessione che vorremmo consegnare al dibattito e che parla sempre del nostro situarci nello scenario complessivo attuale: la necessità di costruire intersezione e intreccio è oggi la posta in gioco di un agire autenticamente femminista. Affermiamo ciò a partire da un’esperienza politica da cui abbiamo imparato tantissimo e alla quale non smettiamo mai di rivolgere lo sguardo, quella del Black Feminism, nata negli Stati Uniti tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. Le prime manifestazioni delle Black Feminists hanno avuto da subito la capacità di mettere in discussione una lettura che tendeva a individuare nella donna-bianca-eterosessuale-middleclass l’unico soggetto in grado di esprimere istanze realmente femministe. La critica mossa a questa lettura essenzialista della donna ha determinato un decentramento da quell’articolazione basata esclusivamente sulla differenza di sesso/genere, affermando un ordine del discorso nuovo, in grado di cogliere la molteplicità degli elementi di differenziazione come dispositivi di controllo e dominio prodotti dal capitalismo contemporaneo e di rovesciarne il segno attraverso processi di soggettivazione politica e l’intersezione di lotte e piani di conflitto tra soggetti subalterni.

L’intersezionalità diviene dunque subito postura, prassi politica, azione contro ogni tentazione di fare delle differenze una platea di lobby e gruppi di interesse.

Per tutte queste ragioni gridiamo a chi ci maltratta, opprime, sfrutta, discrimina, svaluta, utilizza GUAI A CHI CI TOCCA. Siamo le donne argentine e polacche, siamo Black Lives Matter, siamo Stonewall, siamo cyborg oltre il maschile e il femminile, siamo le donne curde che resistono per la libertà, siamo spinta desiderante, forza radicale e trasformatrice.

E lo metteremo in pratica il 26N quando invaderemo le strade di Roma, ma anche il 27N, all’interno dei tavoli tematici di discussione e attraverso la stesura di un piano femminista e dal basso contro la violenza sulle donne.

#NonUnaDiMeno is the place to be

A letter to white Southern women from Anne Braden (1972)

I believe that no white woman reared in the south—or perhaps anywhere in this racist country—can find freedom as a woman until she deals in her own consciousness with the question of race. We grow up little girls . . . . absorbing the stereotypes of race, the picture of ourselves as somehow privileged because of the color of our skin. The two mythologies become intertwined, and there is no way to free ourselves from one without dealing with the other.

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