POTERI

Terremoto di sistema

Si dice che segni premonitori dell’arrivo di un terremoto siano l’insolita attività o il nervosismo di animali, in grado di percepire meglio di noi le “microscosse” che precedono un grande terremoto o le variazioni del campo magnetico. Cavalli o vitelli che non rientrano nelle stalle, vermi e serpenti che fuoriescono dalle tane fuori stagione.

In effetti, i primi commenti ai dati clamorosi sull’astensionismo nelle due elezioni regionali dell’Emilia-Romagna e della Calabria hanno rivelato tali comportamenti zoologici: Gasparri (!) che parla di primarie del centro-destra, Renzi che twitta e fa battute con volto funereo, tutte le vajasse ladylike che girano sbandate insieme al cyberbranco (copyright Giuliano Santoro) del renzismo e antirenzismo d’accatto, finti oppositori che rivendicano le scosse per loro successi, Fitto che tresca con D’Alema, Cicchitto che flirta con Fitto, Capezzone che si atteggia a Casaleggio forzitaliota, Grillo che si proclama quasi-vincitore nella diaspora M5s…

Eppure le ragioni per prevedere un terremoto sistemico sono più serie. Intendiamoci: in una democrazia schumpeteriana, intesa quale gradimento di mercato sull’offerta politica e ancor più in una “democrazia del pubblico” con forti connotati comunicativi e di personalizzazione mediatica l’astensionismo è un effetto collaterale scontato –però entro certi limiti e in date circostanze. Che in una situazione di valori dominanti condivisi e di stabilità economica voti il 50% della popolazione, come in Usa, è considerato normale –sebbene in momenti di svolta tale percentuale salga e comunque le elezioni presidenziali siano qualitativamente e quantitativamente più partecipate di quelle di mid-term o locali. Già lo è meno in presenza di tradizioni partecipative e identitarie di tipo europeo e soprattutto in una fase di perdurante crisi economica e marasma sociale dissipativo. In tal caso l’astensionismo e l’apatia politica non sono segni di acquiescenza e torpida condivisione, ma protesta antipolitica e messaggi di sfiducia verso gli individui carismatici che dovrebbero impersonare la deriva populista della competizione sul mercato del potere.

Insomma, in un regime di partiti personali e di contenuti fasulli, a schermo di un sostanziale approccio neo-liberale, nel populismo di Berlusconi o di Renzi, uno score partecipativo fra il 50 e il 60% è tollerabile e perfino auspicabile, se compensato con opportuni marchingegni maggioritari. Scendere al di sotto –di molto e per di più bruscamente– è invece insidioso. Per esempio, suscita tali dubbi su meccanismi premiali tipo Porcellum o Italicum dal frenarne il mantenimento o l’adozione. Quando crolla di colpo la partecipazione sotto il 50%, la fluttuazione delle intenzioni di voto si innalza e i risultati diventano incerti. Siccome i partiti col cazzo che vogliono la governabilità, ma vogliono governare loro e pretendono delle previsioni attendibili, il premio di maggioranza non invoglia più nessuno. Quando poi –su questa base comportamentale razionale– esiste una maggioranza parlamentare in cui risulta determinante una componente, FI (ma pure Ncd), che sul piano elettorale è in rovinosa caduta percentuale sulla declinante soglia di elettori, è improbabile che si vari una legge che assicuri al vincitore una solida base autosufficiente. Non c’è Nazareno che tenga e sulla grande riforma del Senato e del titolo V si accettano scommesse. Il blocco del mirabolante progetto riformatore renziano ridotto, fra squaglio del gelato cronoprogrammatico e diffidente pressing europeo, a tran-tran amministrativo di implementazione degli ordini Bce e Fmi è soltanto la prima scossa di terremoto, la più lieve, quella che fa scappare all’aperto, le altre e più rovinose investiranno la composizione politica stessa della maciullata società italiana. Va in pezzi tutto lo scenario di fondo delle vicende di questi anni –la cosiddetta e mai nata seconda Repubblica–: il “popolo della sinistra”, le “regioni rosse”, l’area “moderata”, la maggioranza “silenziosa”. L’Italia si fa “europea” in modo anomalo: la destra si omologa al lepenismo nella solita forma stracciona (Alberto di Giussano al posto di Giovanna d’Arco), mentre il PdR(enzi) si sgancia dal filone socialdemocratico e laburista inseguendo Cameron.

Questa parziale polarizzazione, probabilmente non governata dal maggioritario ma dal Consultarellum proporzionale e con l’incognita di un nuovo Presidente della Repubblica, farà crescere il populismo infame e cazzuto dei fascio-leghisti più del fragile neo-liberalismo o blairismo leopoldino. I primi segnali nelle periferie metropolitane e nella conquista dell’Emilia (ricordatevi l’ascesa del fascismo padano e Palazzo d’Accursio!) sono raccapriccianti e l’idea di Renzi che Salvini sia l’avversario ideale per costringere i moderati al “voto utile” assomiglia molto all’astuto disegno di D’Alema di coltivarsi per antagonista Berlusconi, che poi ci siamo tenuti per un bel pezzo. E Salvini, meno corruttivo ma più deciso, non è così innocuo per il regime politico, vista oltretutto la dissoluzione della base del Pd che, al momento, non dà luogo a formazioni consistenti alla propria sinistra (de Sel nihil nisi bene, ma solo perché è defunta). Ci manca solo che Renzi “semplifichi” il bicameralismo senza contrappesi istituzionali e spinga l’acceleratore sul presidenzialismo (come stava facendo) e il clima weimariano si farà ancor più pesante. Ci pensate che bel regalo sul piatto per l’altro Matteo, quello con la felpa pseudo-proletaria al posto della camicia bianca fighetta?

Davvero lo sciopero sociale del 14N e le iniziative che precorrono e si affiancano al tardivo e amputato sciopero generale del 12 dicembre sono gli unici elementi di alternativa nel marasma psicologico e istituzionale che sta dilagando. Quanto deboli e sconnessi lo sappiamo, magari li vediamo anche crescere bene, malgrado qualche scontata sbavatura. Houston, abbiano un problema, anzi due.

Il primo, la mancanza di un coagulo organizzativo di riferimento se non di espressione: una Syriza o un Podemos, che non hanno sempre sintonia con i movimenti ma sono di una scala diversa rispetto alla nostra malconcia Lista Tsipras (la lapide su Sel l’abbiamo già messa). Su questo e sulla forma organizzativa si può dissentire, beninteso. Il secondo è la tempistica: si riuscirà, con o senza una quasi-rappresentanza politica, a far prima che la situazione precipiti in un caos ingovernabile dal Partito di Renzi (e questo è un bene), ma gestibile dalla destra populista arrembante (e questo è pericoloso)? Questa è la scommessa, che il terremoto di fine novembre sta anticipando rispetto alla previsioni.