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Slavoj Žižek, Tredici volte Lenin

Nel 1953 Zhou Enlai, allora Primo Ministro cinese, era a Ginevra per i negoziati conclusivi della Guerra di Corea, quando durante una conferenza stampa un giornalista francese – pensando forse di coglierlo in fallo nel suo atteggiamento riguardo ai diritti civili borghesi – gli chiese: «Ma lei, che cosa ne pensa della Rivoluzione Francese?». A cui lui rispose: «non saprei, è un ancora un po’ presto per dirlo». È un aneddoto che Slavoj Žižek ama spesso raccontare e che mostra come quell’evento che chiamiamo Rivoluzione Francese (o se è per questo, qualunque altro evento storico) non sia ancora fino in fondo concluso – anche a distanza di più di due secoli – proprio perché il suo destino non ha la temporalità del passato più o meno remoto, ma del futuro anteriore. Quello che sarà stato dipenderà da quello che accadrà, qui e ora. Nella storia ci siamo dentro insomma, con entrambi i piedi, e ne siamo sempre in qualche modo artefici o responsabili. Mentre l’illusione alimentata in modo interessato da chi i rapporti di forza ha tutto l’interesse a lasciarli così come sono, è che il passato sia un’immagine statica da contemplare dall’esterno. Chiusa, ferma, e conclusa. Cos’è stata la Rivoluzione Francese: la premessa della barbarie o l’inizio di un percorso di emancipazione? Non ci è dato saperlo ora, è troppo presto. Dipenderà da noi.

Un po’ più di dieci anni dopo, nel 1964, la stessa cosa veniva detta un po’ diversamente anche da Jacques Lacan: il nostro sguardo non è fuori dall’immagine, ma gli è interno. Guardare non è mai contemplare, è un taglio soggettivo che divide l’immaginario. O come diceva uno che Lenin lo conosceva bene – Sergej Ėjzenštejn – il paradigma dello sguardo non è il voyeur che guarda dal buco della serratura, ma un pugno sferrato contro il mondo. Non esiste il god-eye shot, quello che al cinema ci fa vedere le cose dall’alto e che ci fa sembrare che tutto possa essere racchiuso dal punto di vista del sapere oggettivo, se non nell’ideologia: il soggetto è sempre topologicamente implicato nell’immagine che sta guardando. Non c’è sguardo che non sia uno sguardo guerreggiato, così come non c’è modo di tirarsi fuori dal mondo nel quale si è immersi.

È forse questa l’unica vera lezione che Žižek prende dalla psicoanalisi (ma è l’unica a cui vale la pena essere fedeli): “non esiste metalinguaggio”. Cioè non esiste una comprensione oggettiva e statica del mondo. Non esiste un sapere sull’uomo – come vorrebbe la psicologia – perché l’atto soggettivo, sempre singolare, è un buco che squarcia e distrugge l’individuo della norma e del benessere. E allo stesso modo non esiste un sapere contemplativo e scientifico sulla società – come vorrebbe la sociologia borghese – perché non c’è composizione armonica del sociale senza un antagonismo fondamentale. Ogni sapere è sempre “piegato” e “allucinato” da un’implicazione soggettiva, non perché il soggetto sia troppo poco lucido per comprendere la realtà oggettiva, ma perché questa stessa allucinazione è l’unica cosa che possiamo chiamare reale.

In Žižek dunque Lenin incontra Lacan, non perché l’emancipazione politica abbia bisogno dei consigli di un’antropologia dell’inconscio (che la psicoanalisi non è) o perché sia necessario trovare una mediazione al ribasso tra l’individuale e il sociale come pensavano i freudo-marxisti: ma perché l’uno è il rovescio dell’altro all’interno di una medesima struttura. Non c’è modo di comporre armonicamente gli antagonismi soggettivi nella cura, così come non c’è sapere che organizzi armonicamente i soggetti sociali senza esserne interno. L’unico modo di comprendere scientificamente e oggettivamente è quello parziale di organizzare l’azione dentro alle contraddizioni della fase, così come il soggetto in analisi non costruisce un sapere su di sé – come vorrebbe quell’idiozia che riduce la psicoanalisi a ruminazione borghese – ma compie, se ne è capace, un atto di taglio (il famigerato taglio lacaniano della seduta). Il sociale insomma non è mai un Tutto, e quell’ostacolo che ne impedisce la comprensione e che lo espone alla sua contingenza, è un punto evanescente che chiamiamo soggetto. Il problema, in Lacan così come in Lenin, non è presupporre la sua esistenza, ma organizzare la sua azione.