Si annunciava un successo per Grillo. Invece è stato un trionfo.

Ma sia chiaro: chi non ha smesso di muoversi dal basso ha il compito di rivendicare come, in questi anni, ha davvero costruito altre forme di vita e altre forme della politica.

Ha vinto la strategia comunicativa del comico che invade la rete e la utilizza per veicolare messaggi dall’alto. Ha vinto colui che allarga il solco che unisce la televisione al web per costruirvi un’autostrada a tre corsie che viene percorsa da torpedoni di elettori in fuga dal sistema dei partiti. Gli sfollati del voto scappano armi e bagagli dalle macerie fumanti della crisi economica e democratica. Sono uomini e donne, e tra di questi ci sarà anche qualche parlamentare esordiente, che non vanno demonizzati ma che vanno compresi perché la sofferenza va rispettata anche se spinge a sbagliare: hanno preso la strada più facile perché drammaticamente è sembrata l’unica via di fuga possibile.

Dopo il ventennio del partito-azienda berlusconiano, ha vinto il movimento-azienda grillino. Così come il primo aveva trasportato l’organizzazione politica novecentesca dentro la logica del marketing e degli interessi privati, la creatura di Grillo e Casaleggio sposta l’azione dei movimenti e persino la rabbia anti-sistema, dento le mura inafferrabili della fabbrica sociale postfordista, lì dove il lavoro gratuito è scambiato per “creatività” e la disciplina per “libertà di fare”. Hanno vinto quelli che utilizzano la rete come macchina per catturare la creatività e recintare una comunità che si illude di mettere finalmente a valore le proprie “competenze”, quelli che con la scusa della lotta alla “Casta” costruiscono l’unità tra sfruttati e sfruttatori, ricchi e poveri, deboli e forti (“Aspiriamo al 100 per cento dei voti”, promette Grillo).

Hanno perso quelli che speravano di rispondere ad un movimento-azienda con un partito, quelli che hanno sottovalutato il deperimento della rappresentanza ma anche quelli che proprio non si sono posti il problema della rappresentanza, per superarla e metterla in crisi magari.

Hanno perso i movimenti veri, perché si sono fatti soffiare alcuni temi e l’allusione ad alcune pratiche. Ma solo i movimenti veri conoscono l’antidoto al movimento-azienda. Perché ogni volta che un partito tradizionale proverà a sfidare il grillismo ne uscirà sconfitto. E perché solo i movimenti veri possono mettere in pratica un altro uso della rete e interrogare concretamente la mancanza pressoché assoluta di democrazia dentro al franchising del 5 Stelle.

Il voto a Grillo è la misura dell’incapacità della politica dei partiti di cambiare davvero la vita delle persone. “Se dobbiamo soltanto fare parole, tanto vale far parlare chi ci fa ridere e costruisce riti collettivi che esorcizzano la nostra sofferenza”, sembrano dire gli elettori che hanno consegnato la vittoria a Beppe Grillo.

Ma sia chiaro: chi non ha smesso di muoversi dal basso ha il compito di rivendicare come, in questi anni, ha davvero costruito altre forme di vita e altre forme della politica, costruendo nuove forme di cooperazione e mutuo aiuto, edificando argini all’abisso culturale dell’ultimo ventennio e a quello economico della crisi. La parola adesso deve passare a quelli che possono arginare e sabotare il brand privato del grillismo, mostrando in pratica i suoi limiti e le sue false promesse senza essere scambiati per i restauratori della sovranità dei partiti violata. Gli altri si facciano da parte, hanno già fallito.

Pubblicato il 26 febbraio 2013 su MicroMega Online