PRECARIETÀ

Sette tesi sul reddito di base

Per intervenire nel dibattito, per definire una posizione

Orizzontale, innovativo, combattivo: le sfide del sindacalismo sociale

1. Il Reddito di base non è il Reddito minimo garantito. A differenza del Reddito minimo garantito, fortemente condizionato dai livelli di reddito del richiedente, dalla sua specifica collocazione nel mercato del lavoro e, soprattutto, dall’accettazione di qualsiasi offerta di lavoro così come dagli obblighi formativi, il Reddito di base è una misura universale e incondizionata, finanziata dalla fiscalità generale. Il carattere incondizionato, occorre precisare, è elemento fondamentale della rivendicazione, che sarebbe altrimenti spuntata, strumento inadeguato nella battaglia che vogliamo combattere. Incondizionato, e quindi ostile a qualsiasi misura di workfare (welfare to work), impronta assai presente nelle proposte fin’ora avanzate dalle forze politiche e sindacali italiane; strumento di libertà e non di ricatto, di autonomia e non di governo della forza-lavoro e della povertà.

2. Come indica il movimento femminista Non Una Di Meno, il Reddito di base è un’istanza di auto-determinazione nei confronti dei vincoli familiari, la violenza che in quest’ambito si esercita, la dipendenza economica. Per questo motivo, il Reddito di base deve essere una misura individuale e non può essere calcolata su base familiare. La nuova marea femminista ha fatto irrompere nella scena soggetti che incarnano, nella vita come nella cooperazione, il desiderio di autonomia, elemento che solo può garantire al Reddito di base la sua duplice natura: riconoscimento e retribuzione di tutte quelle funzioni sociali, produttive e riproduttive, che quotidianamente vengono svolte senza alcun tipo di remunerazione; rottura del ricatto della precarietà, della sotto-occupazione e della disoccupazione. Un punto di vista situato e parziale in grado di gettare uno sguardo generale e di fornire indicazioni universali.

3. La battaglia per il Reddito di base, per noi, non è mai solo lotta contro la povertà, ma insieme contro il lavoro precario, sotto-pagato, gratuito. Il Reddito di base deve essere, innanzitutto, uno strumento per contrastare la deriva del “lavoro a tutti i costi”, l’offensiva che si materializza attraverso l’estensione e la sistematizzazione del ricorso al lavoro gratuito, agli stage, ai tirocini, al servizio civile, alle politiche attive, all’alternanza scuola-lavoro; strumento dunque per bloccare il crollo dei salari e il fenomeno dei working poor. Di più: Il Reddito di base deve essere pensato come un dispositivo fondamentale per riconnettere un tessuto sociale sfibrato, per far emergere e organizzare soggettività in grado di conquistare adeguati rapporti di forza. La pretesa del Reddito di base, infatti, è sempre battaglia per la redistribuzione del potere sociale e del tempo di vita. Ovvio: senza sindacalismo sociale e combattivo, non è possibile strappare il Reddito di base. La stessa rivendicazione, senza soggetti in grado di organizzarsi a partire dai propri bisogni, dai posti di lavoro e dai territori che attraversano, di resistere all’offensiva padronale sul piano dei diritti e dei salari, risulterebbe monca. Senza resistenza, rischieremmo di elaborare un discorso privo della forza necessaria per concretizzarlo.

4. La lotta per il Reddito di base non può essere isolata: va condotta assieme a quella per un Salario minimo europeo, la riduzione dell’orario di lavoro, il permesso di soggiorno sganciato dal contratto di lavoro, l’estensione delle tutele e del welfare al lavoro autonomo di nuova generazione. Battersi per il Reddito di base, senza far esplodere queste pretese, sarebbe miope oltre che inefficace. Il Reddito di base, invece, se adeguatamente combinato con queste pretese, permetterebbe alle lavoratrici e ai lavoratori di contrastare la «massima elasticità» verso il basso di salari, diritti e tutele.

5. Non si può scambiare il Reddito di base con la riduzione del Welfare State (Sanità, Formazione, Previdenza). Pretendere il Reddito di base vuol dire, piuttosto, battersi per il rifinanziamento e la democratizzazione delle istituzioni del welfare. Quella che è stata ribattezzata la «lotta di classe dall’alto verso il basso», e che possiamo definire guerra ai poveri, passa anche per un sistematico smantellamento dello Stato sociale. Di qui, privatizzazione e aziendalizzazione della Sanità, della Scuola, ecc. La rivendicazione del Reddito di base, oltre a contrastare lo “sfondamento” neoliberale, può rappresentare la condizione materiale per ripensare in termini innovativi ed espansivi il sistema del welfare, includendo forme di partecipazione e gestione sociale dei servizi, liberate però dalla costrizione del lavoro gratuito.

6. Il conflitto per il Reddito di base è una lotta senza quartiere alle riforme fiscali regressive (paga di più chi ha di meno) degli ultimi decenni. Occorre riaffermare una fiscalità fortemente progressiva (paga di più chi ha di più), tassare patrimoni e transazione finanziarie, per poter ottenere il Reddito di base. Molto spesso il dibattito si concentra sulla «sostenibilità economica» della misura: occorre ribadire con fermezza che il Reddito di base, proprio perché finanziato dalla fiscalità generale attraverso imposte progressive, può essere un importante strumento di redistribuzione della ricchezza in una fase in cui, di contro, la polarizzazione tende a crescere in maniera esponenziale.

7. Il Reddito di base non è un reddito per gli italiani. Senza combattere insieme ai migranti, senza strappare il permesso di soggiorno minimo, non c’è lotta sul Reddito di base che non sia corporativa. Non basta, poi, battersi sul territorio nazionale, occorre conquistare un welfare comune quanto meno su scala europea: per contrastare una visione della cittadinanza che agisce come meccanismo di segmentazione, gerarchizzazione ed esclusione, occorre rivendicare una misura universale e incondizionata, per autoctoni e stranieri.