DIRITTI

Senso di colpa? No grazie: “Cosa può un corpo”

In risposta all’articolo di Pierluigi Battista sul Corriere della Sera: “I sensi di colpa dei malati di tumore“.

Gentile Dr Battista, sono Giulia Diamanti, 38 anni, una laurea, un figlio e un cancro. Un cancro al seno, un cancro che mi ha visto sfinita e con cui ho lottato e sto lottando. Ebbene sì io lotto. La speranza la lascio a voi che entrate, la speranza è delega, io non delego. L’11 febbraio 2016: ecografia di controllo, la facevo ogni anno. Ci sono giorni che ti cambiano la vita per sempre, momenti in cui senti un gran frastuono fuori e dentro un silenzio assordante. E sfumano le cose inutili della vita. Ti rimbombano le parole di chi ti dice: bisogna capire lo stadio. Nessuna titubanza, c’è. E ti chiedi perché a me, perché adesso. Tornare a casa , guardare tuo figlio di due anni e dirlo ai tuoi genitori.

Senti tutti i colpi dentro lo stomaco e ti tieni stretta stretta per rimanere dopo la notte e oltre la notte. Dopo il frastuono sai che non ti puoi nascondere, e vai fino in fondo, a cercare tutto quello che c’è da cercare, con paura ed estremo coraggio, perchè il coraggio c’è solo se c’è la paura. E il corpo inizia la sua battaglia e tu ti allei. È passato un anno. Oggi sono una “Donna in Movimento” che lotta con e per le altre donne: per diffondere una cultura della prevenzione, per promuovere le terapie integrate in oncologia in tutti gli ospedali italiani. Ho letto il suo articolo “I sensi di colpa dei malati di tumore” e ho sorriso. Non mi sono mai sentita in colpa quando mi hanno parlato delle connessioni tra stili di vita e l’ insorgere della malattia, connessioni per di più fatte di evidenze scientifiche. Non mi sono mai detta: “cosa ho fatto?”, mi sono detta piuttosto: cosa posso fare adesso. Mi sono sentita al centro della cura, non mi sono sentita un numero.

Il tema dell’umanizzazione dell’ospedale ha origini lontane, così come quello del rapporto di potere medico-paziente e mi ha sorpreso come un uomo di cultura come lei possa annullare anni e anni di riflessione e dibattito in tal senso, e definire “noi” malati di tumori come individui passivi, che “tra la sofferenza di cure pesantissime e l’angoscia di una morte che si avvicina” si sentono in colpa. Ho letto la risposta che il Dr Magno (Oncologo della Fondazione Universitaria Policlinico Agostino Gemelli) ha dato al suo articolo e ho trovato molto interessante il passaggio in cui afferma che un “approccio integrato” in oncologia valorizza la persona e la coinvolge nel processo di cura. Noi “Donne in Movimento”, vogliamo immaginare degli esperimenti di connessione che rovescino il rapporto operatore/utente, che ricolleghino la sanità ai territori e alla cittadinanza, che rompano le maglie della medicalizzazione forzata, e rimettano al centro una salute che non può che essere sociale, che non può che passare per la cooperazione, per la prevenzione e per una nuova idea di welfare.

Esperienze interessanti avvengono già in altre parti d’Europa, dove dalle macerie della crisi sono nati esperimenti di autogestione di ambulatori, di elaborazione assembleare delle diagnosi, di condivisione delle problematiche dei corpi dentro la crisi. Se le politiche economiche e sociali attuali mirano a rendere i corpi controllati e docili, noi li rimettiamo in gioco e in conflitto, volendoli liberare una volta per tutte da vincoli morali ed economici, sintonizzandoli piuttosto su bisogni e desideri.

* Giulia Diamanti – Donne In Movimento

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