ROMA

Saluto a Marco Pannella

Il ricordo del politico radicale, oltre le divergenze economiche e di classe, attraverso le vicende del processo “7 aprile” e le importanti battaglie civili.

L’ultimo saluto a Marco Pannella non è stato, da parte di qualcuno, vergine di codardo oltraggio: non era un comunista, e in economia era un liberista, detestava i sindacati e non aveva a cuore gli interessi degli operai e dei lavoratori. E si era anche venduto a Berlusconi, per quattro soli denari. Tutto vero. Puntualizzazioni precise, tali da dare a chi le ha fatte la piena personale, soddisfazione di aver detto le cose come stavano. E che prego di non ripetere, visto che sono per me note e prevedibili, nei confronti del servo encomio per Marco che mi accingo a fare; e in cui, peraltro, voglio sofisticare pochissimo e limitarmi a certi personali ricordi. Naturalmente, i più forti e nitidi sono quelli relativi al periodo del “7 Aprile”, annessi e connessi. Tra i tanti di quell’epoca, due indimenticabili: una visita notturna a Rebibbia, il primo. Era quasi mezzanotte, un’ora in cui il carcere era assolutamente impenetrabile, lui riuscì ancora una volta a violare ogni regola, irruppe fino al reparto e ci fece chiamare alla rotonda, eravamo in pieno affaire Negri ed era venuto a rassicurarci che il suo appoggio a noi detenuti non sarebbe comunque venuto meno. La lettura della sentenza d’appello, il secondo. Lui e io in piedi, che piangevamo a calde lacrime per le assoluzioni

di Luciano e di Emilio, soprattutto, e per i grossi sconti di pena per tutti, che comunque riformavano il primo grado. Per il resto, che dire? Ho cominciato a interessarmi di politica nel 1958, e lui è stato tra i primi uomini politici che abbia conosciuto: giovane ma intransigente esponente del primo radicalismo, quello di Pannunzio, di Villabruna, di Carandini, di Cattani. Radicalismo di cui in qualche modo e in qualche tempo si impadronì per farne non solo uno strumento di critica, ma anche di intervento sulla “società civile”, trasformando in un terreno di confronto e di scontro quello che era un campo di assoluto dominio clericofascista, con un impegno “borghese” spesso disprezzato od osteggiato dagli apparati e mai sostenuto o accompagnato dalle “lotte democratiche e popolari” di quello che pure era il primo partito comunista dell’Occidente. Negli anni, in questo ruolo tutto politico ma anche culturale di promozione di nuove, doverose forme di libertà per il cittadino e la persona, Marco è stato campione assoluto. Citare al riguardo il divorzio appare superfluo per ciò che attiene allo stabilizzarsi di una tale legge nel nostro ordinamento: vale qui la pena però di ricordare le battaglie iniziali, assolutamente minoritarie, con

il progetto dapprima del “piccolo divorzio” e poi con la legge Fortuna-Baslini che solo i radicali di Pannella sostennero dall’inizio, in anni in cui esponenti delle gerarchie ecclesiastiche potevano accusare impunemente di essere pubblici concubini e peccatori cittadini regolarmente coniugatisi con il solo rito civile. Verso altri esempi, in una sede come questa, non vale di inoltrarsi, risulterebbe tutti costantemente “modulari” e ripetitivi. Di una sola altra temperie vale la pena di fare citazione, rimandando ad altra sede eventuali approfondimenti. Il tema, assolutamente non colto e non compreso al primo apparire, del partito “transnazionale”: una proposta assolutamente innovativa che pur se dettata allora da motivi del momento, come le ripetute crisi politiche e istituzionali dei paesi ex comunisti; e che oggi potrebbe essere ripresa in chiave più larga di fronte ai grandi temi dell’assetto (o meglio del non-assetto) politico, economico, sociale e culturale dell’Europa, dell’Africa e del Medio Oriente. Ma per concludere questo breve ricordo: è abbastanza singolare che molti della mia generazione (ho controllato tra le mie conoscenze) abbiano sentito la scomparsa di Marco come “improvvisa”, pur essendo da tempo preavvertita; e “prematura”, nonostante gli 86 anni a cui è avvenuta. Ed è altrettanto inconsueto che molti mi chiedano, come se potessi io rispondere a tale domanda, come mai non sia mai stato nominato (…“fatto”) senatore a vita. Credo che una tale sorta di istintivo stupore, questo assolutamente non razionale momento “di sorpresa” sia una sorta di legame “affettivo” di quelli che si scoprono latenti nel proprio cuore. Non a molti uomini pubblici riservato. E credo anche che la domanda sul mancato laticlavio, più che fondata specie da parte di chi nelle Istituzioni continua a credere, sia una sorta di riconoscimento da parte “di cittadini” più forte di qualunque altro omaggio da parte dello Stato e del Potere. Non credo ci sia bisogno di aggiungere altro.