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Regionali 2015: the day after


Inizia il dopo-elezioni e tutti si stanno riposizionando, mentre Renzi comincia a fare i conti con la realtà e si accorge che media e collaboratori, dopo averlo illuso, adesso prendono le distanze.
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Riflettiamo un po’ sulle cifre.

1) Un italiano su due non ha votato alle Regionali. In un solo anno la partecipazione è caduta di dieci punti (un po’ meno per le contemporanee elezioni comunali). Di seguito vediamo come se ne sono distribuiti gli effetti sui voti espressi.

2) Il Pd ha dimezzato i voti in assoluto rispetto alle Europee dell’anno scorso e in percentuale è passato dal conclamato 41% al 23%. Rispetto alle ultime Politiche (2013) ha perso un milione di voti (un terzo).

3) la Lega ha raddoppiato i voti rispetto alle Politiche e li ha aumentati del 50% rispetto alle Europee, raggiungendo una percentuale fra il 15 e il 18% (se si toglie la Campania dove non era presente) e superando nettamente FI. Aumenti assai vistosi in Toscana e Umbria, minori paradossalmente nel Veneto (pur calcolando la lista Zaia).

4) Il M5s, che pure ha consolidato la sua presenza sul territorio, dove finora era piuttosto debole, tuttavia perde due milioni di voti rispetto alle Politiche (quasi due terzi) e un milione (40%) rispetto alle Europee.

5) Forza Italia perde due milioni di voti (67%) rispetto alle Politiche 840.000 (47%) rispetto alle Europee. Il tutto (come per il Pd) al netto delle liste collegate, più o meno clientelari o camorristiche.

Che panorama ne esce, al di là delle prime valutazioni che abbiamo pubblicato a caldo? Renzi ne esce indebolito: gli esperimenti di Partito della Nazione in Liguria e Veneto sono clamorosamente falliti (e già qualcuno della maggioranza renziana fa marcia indietro), i migliori risultati (Toscana e Puglia) sono intestati a figure indipendenti (Rossi) o addirittura concorrenziali (Emiliano) e la conquista della Campania con l’impresentabile De Luca costituisce più un problema giuridico e un segnale di mancato controllo del personale politico che un successo.

Quello che è saltato, però, è il quadro in cui si inseriva la “vocazione maggioritaria” del Partito della Nazione o Partito di Renzi. È saltato (come in Spagna e in Inghilterra, tanto per fare esempi di elezioni recenti) il bipolarismo, dogma ufficiale degli ultimi venti anni, sostituito da uno schieramento a tre o quattro poli. Si è aperto un contrasto pauroso fra realtà politica del Paese e forzatura dell’Italicum in direzione del ballottaggio, tanto da spuntare per Renzi l’arma delle elezioni anticipate (che neppure Berlusconi ha ora più interesse a richiedere). Ci sono ormai quattro schieramenti per svariate ragioni (oltre il premio di lista e non di coalizione) non apparentabili: Pd (lacerato), M5s, Fi (lacerata) e Lega: l’unica in ascesa, ma con difficoltà a prendere la leadership dell’intera destra, per eccesso di populismo anti-europeo e compromissione con i fasci dichiarati. Metà degli italiani non vota e i votanti esprimono in larga misura un voto anti-sistema.

Possiamo rallegrarci dell’astensionismo e della trasformazione di uno schema binario o dell’egemonismo renziano in quadripolarismo? Certo che no, la palude politica esprime una difficoltà di resistenza sociale alle politiche neo-liberali, non solo il fallimento della loro gestione governamentale. La crisi sempre più accentuata della rappresentanza si manifesta nelle forme più facili e passive e non ne esce nessuna polarizzazione a sinistra nella frammentazione del sistema. Non c’è (tranne in Liguria, dove i dissidenti di Pastorino hanno fatto cadere la Paita conseguendo peraltro uno score non eccelso) neppure un’ombra di Podemos, peggio abbiamo nel M5s un surrogato di Podemos+Ciudadanos, con qualche tocco parodistico, una differenza genealogica (la non-provenienza da movimenti di lotta reali) e un’indisponibilità alla negoziazione e alle alleanze che attira consensi ma nel contempo lo esclude dal gioco post-elettorale.

Infatti, il risultato della caduta del bipolarismo è che si apre uno spazio di negoziazione, cui Renzi è ora costretto (molto controvoglia) sia verso FI sia verso gli oppositori e concorrenti interni (da Bersani a Emiliano, tanto per intenderci), determinanti per i voti popolari e al Senato. Trafficheranno in parallelo Berlusconi e Salvini, di qui al 2018., mentre Grillo cercherà di tenere fuori il M5s da ogni trattativa. Del resto né l’opposizione interna Pd né Grillo rappresentano qualcosa dei movimenti. Che dunque hanno poco, al momento, da rallegrarsi, se non sul piano di un legittimo sfogo emotivo e nella prospettiva di uno spazio potenziale aperto per la tuttora misteriosa Coalizione sociale di Landini. Syriza e Podemos restano lontani, ma il problema di un riposizionamento dei movimenti in Italia si fa più urgente – perfino al livello attuale delle lotte sindacali e di massa. La ricomposizione trasversale di quelle in corso (i due fronti della scuola e dei pensionati sono tuttora attivi e il fallimento delle politiche occupazionali ne apre di nuovi) e la contestazione dell’insidiosa ascesa fascio-leghista sono certo i motivi più pressanti, ma lo è altrettanto il mutare la forma dei movimenti dando loro un’espressione politica, che prenda atto definitivamente della fine del sistema dei partiti, di cui i partitini erano una sottospecie. La deriva camorristica o il fallimento del Partito della Nazione (e, a mio sommesso parere, un incipiente indebolimento della personalizzazione retorica della leadership) sono il sigillo di quella crisi. Se ne è accorta perfino la stampa di regime.

Dunque, il problema più ravvicinato e forse la logica di più lungo periodo è quello di una coalizione e non di un partito, però di una coalizione politica e non meramente sociale, o meglio di una formazione che si lasci alle spalle le differenze tradizionali di “politico” e “sociale” e le relative pretese di “autonomia” o subordinazione. Tutto quanto apparteneva, insomma, al mondo della “rappresentanza” e del “lavoro”. E abbiamo anche il problema di come dirlo, perché trovare parole adatte e comprensibili per un discorso teorico ancora fumoso è un primo passo indispensabile per pensare meglio e agire di conseguenza.