Quando la pena diventa delitto

Prosegue il dibattito su Dinamopress attorno ai temi della giustizia, della legalità, del garantismo.

Da tempo vorrei fare un esercizio di catalogazione: mettere su un foglio excel tutti i reati previsti dal nostro codice penale e riportare a fianco di ciascuno di essi, nelle apposite colonne, la pena minima e quella massima previste. Riordinando il tutto in modo decrescente, ne verrebbe fuori l’elenco di reati, da quello considerato più grave a quello meno grave, che il nostro ordinamento prevede. Di fatto una sorta di visibile scala di priorità che il nostro sistema penale attribuisce ai beni giuridici che è chiamato a tutelare.

Si tratta certamente di un esercizio approssimativo, ma può essere un primo tentativo per capire cosa effettivamente un dato contesto sociale considera meritevole di quel peculiare e costoso strumento di regolazione dei conflitti costituito dal ricorso alla pena. Strumento peculiare e costoso, perché il sistema penale ha – o meglio dovrebbe avere – un ruolo sussidiario e non primario, intervenendo solo laddove non sia possibile intervenire con altre modalità ricompositive. Strumento limitato, da riservare per quelle situazioni non altrimenti affrontabili. Tanto più quando, come è nel caso italiano, il termine “pena” si congiunge indissolubilmente con il termine “detenzione”, essendo la privazione della libertà personale sostanzialmente l’unica pena che il codice prevede.

Tale limitatezza non caratterizza invece il nostro sistema: al contrario, il ricorso al penale sembra essere l’unico modo previsto e culturalmente percepito per affrontare non solo ogni forma di illegalità o extralegalità, ma anche ogni comportamento non riconducibile alle categorie dell’ordinata normalità e, quindi, anche per contrastare le forme di protesta o di antagonismo non omologabili entro i previsti schemi di accettazione. Di più, proprio verso queste forme lo strumento penale è agito in funzione di costruttore di consenso politico.

L’ipertrofia del nostro sistema penale discende certamente dalla mancata capacità, che si protrae sin dal ritorno alla democrazia post-bellica, di riformare il codice penale superando l’impianto a esso dato durante il regime fascista. Quel disegno, quello schema costitutivo, è stato così affiancato progressivamente da una legislazione penale smisurata, spesso adottata con modalità d’eccezione all’inseguimento di umori sociali determinati da qualche accadimento che aveva colpito la pubblica opinione. Smisurata al punto che oggi è la stessa Cassazione a considerare che la non conoscenza della legge non è di per sé addebitabile al soggetto che la trasgredisce, essendo l’insieme delle norme penali divenuto inconoscibile per la sua elevata consistenza numerica. Alcuni hanno calcolato che il numero di comportamenti illeciti previsti è ormai dell’ordine di decine di migliaia: la prima colonna della mia ipotetica tabella excel – quella contenente l’elenco dei reati – sarebbe dunque informaticamente difficilmente gestibile, senza strumenti più sofisticati di un semplice foglio di calcolo.

Ma, la seconda e la terza colonna, dove includere le pene minime e massime previste, sarebbero buoni indicatori per comprendere cosa il nostro presente considera più meritorio di sanzione grave e le sorprese non amicherebbero. Ci accorgeremmo, infatti, che un reato gravissimo commesso da un pubblico ufficiale, ben al di là dell’esercizio del legittimo uso della forza per prevenire un crimine o arrestarne l’autore, sarebbe dietro di molti posti rispetto a quello commesso verso cose, e non verso persone, da un manifestante durante una protesta di piazza.

Un esempio recente può dare la misura della distanza di righe di tabella excel che separerebbe queste due tipologie di reati: gli agenti che a Ferrara hanno ucciso Federico Aldrovandi sono stati condannati a 3 anni e 6 mesi detenzione, con l’accusa di omicidio colposo; un giovane accusato di resistenza per gli incidenti a Roma del dicembre del 2010 è stato condannato a 2 anni e 6 mesi. Solo un anno separa la vita di un giovane ucciso mentre era già a terra e in evidente necessità di bisogno e il vulnus alla società inflitto dalla semplice resistenza opposta da un giovane dimostrante a chi tentava di arrestarlo nell’azione di contenimento e repressione di una manifestazione.

Gli esempi possono continuare, affiancando per esempio le pene di 6 anni a cui sono stati condannati i responsabili delle azioni ai margini della manifestazione di Roma dell’ottobre 2011 e le lievi sanzioni previste per coloro che sono responsabili di atti qualificati dal giudice come tortura e che non trovano nel codice una previsione corrispondente.

La semplice tabella di reati e pene può svelare così il valore dato agli atti, il senso dato all’esercizio del mantenimento dell’ordine e della convivenza tra i soggetti di un gruppo sociale. Ne emerge la filosofia che regge l’impianto del nostro codice, riassumibile dalla centralità assegnata alla famiglia, alla morale pubblica, alla personalità dello stato e all’ordine pubblico quali beni fondamentali; al contrario di un’impostazione democratica che vede tale centralità nella persona, nella salute, nell’ambiente, nel bene pubblico. E, poiché le pene concedono a chi le irroga il margine di discrezionalità dato dalle circostanze e dai contesti, tale filosofia si riverbera frequentemente anche nella selezione della misura della pena, operata da chi è responsabile dell’esercizio di giustizia: spinge verso il minimo o il massimo sulla base del riverbero che la selezione delle centralità determina nella valutazione delle circostanze.

È così che la repressione delle forme di antagonismo, rilette come turbamento di fatto alla stessa filosofia che tiene insieme l’impianto codicistico attuale, sono iperpenalizzate non solo nella previsione edittale, ma anche nella loro concreta applicazione. Il codice – ogni codice di ogni stato – non è solo il risultato della cultura di un luogo e di un tempo; è esso stesso il costruttore delle culture quotidiane di chi esso applica. Così riconfermando di fatto l’impianto stesso.

Per questo riscrivere il codice, ricostruire una diversa tabella excel, non è esigenza dei giuristi o di chi vuole avere un più snello e attuale sistema ordinamentale. No, è l’esigenza di chi vuole ricostruire una diversa selezione di priorità dei beni giuridici che uno stato democratico deve tutelare e, al contempo, orientare diversamente le culture di chi ha responsabilità di applicare le norme e punire chi esse trasgredisce. Tale riscrittura, rispetto alla quale il nostro paese è tuttora inadempiente, è un presupposto della pienezza democratica. Solo a partire da essa potremo riscoprire il sale che la protesta democratica e l’espressione anche fermamente conflittuale del dissenso rappresentano e frenare l’eccesso di penalità con cui esse sono attualmente represse.